Cos’è l’ecologia sociale?

Bookchin sostiene che sia stata la nascita della società gerarchica a rendere sempre più aggressive le relazioni dell’umanità con la natura, in un crescendo culminato con il modello di crescita infinita del capitalismo. I rimedi vanno cercati in valori e metodi non gerarchici capaci di costruire uno spazio sociale in equilibrio con il suo ecosistema e un tessuto comunitario basato sulla cooperazione e non sulla competizione.


IN COPERTINA e nel testo: Piero Gilardi, Betulle e castagne (1994) – Poliuretano espanso – Asta Pananti in corso

Questo testo è tratto da “Per una società ecologica” di Murray Bookchin. Ringraziamo Eleuthera per la gentile concessione.


di Murray Bookchin

Molti hanno oggi il problema di «definire» se stessi, di sapere «chi sono», e di ciò si nutre una vasta industria psicoterapeutica. Ma questo non è soltanto un problema individuale, è anche un problema sociale, della società nel suo complesso. Socialmente, viviamo nella disperata incertezza delle relazioni che debbono intercorrere tra le persone. L’alienazione e la confusione circa la nostra identità e il nostro destino non ci concernono solo in quanto individui: tutta la nostra società, intesa come un unico essere, stenta a riconoscere la propria natura e il proprio orientamento. Le società di un tempo tendevano a promuovere la fiducia nelle virtù della cooperazione e dell’accudimento, dando così un senso etico alla vita associata; la società moderna promuove invece la fiducia nelle virtù della competizione e dell’egotismo, e così facendo priva il consesso umano di qualsiasi senso (se non, forse, quello di essere uno strumento di accumulazione e consumo insensati).

Gli uomini e le donne del passato erano guidati da convinzioni e speranze certe, da valori che li definivano in quanto esseri umani e davano così significato alla vita associata. Usiamo parlare del Medio Evo come di un’epoca «di fede» e dell’Illuminismo come di un’epoca «di ragione». Anche il periodo precedente alla seconda guerra mondiale e gli anni immediatamente successivi ci appaiono come un’affascinante epoca di innocenza e speranza, nonostante la Grande Depressione e i terribili conflitti che l’hanno segnata. In un recente (e piuttosto sofisticato) film di spionaggio c’è un vecchio che dice di sentire la mancanza della «chiarezza» propria della seconda guerra mondiale, alludendo evidentemente alla presenza di uno scopo, di un’idea che guidava i comportamenti. Oggi, questa «chiarezza» non c’è più. Il suo posto è stato preso dall’ambiguità. La certezza che la tecnologia e la scienza avrebbero migliorato la condizione umana è stata vanificata dalla proliferazione degli armamenti nucleari, dalla fame diffusa in tutto il Terzo Mondo, e dalla povertà ancora presente nel mondo industrialmente avanzato. La fiducia che la libertà avrebbe trionfato sulla tirannia è stata smentita dalla crescente centralizzazione degli Stati e dall’esautoramento del popolo a opera delle burocrazie, delle forze di polizia, di sofisticate tecniche di controllo, e ciò nelle nostre «democrazie» non meno che nei paesi apertamente autoritari. La speranza di costruire «un unico mondo», una vasta comunità di gruppi etnici diversi che collaborano per migliorare la vita in ogni luogo, è stata distrutta dal montare di una marea di nazionalismo, razzismo, miope individualismo e indifferenza per le disgrazie che affliggono milioni di altri.

I nostri valori ci appaiono meno validi di quelli condivisi dalle generazioni precedenti fino a poco tempo fa. La generazione attuale sembra essere più egocentrica, chiusa nel privato e mediocre rispetto alle generazioni del passato. Manca il supporto offerto dalla famiglia estesa, dalla comunità, dal mutuo appoggio. A quanto pare, l’incontro dell’individuo con la società avviene più attraverso fredde agenzie burocratiche che non attraverso persone attente e sensibili. 

Questa mancanza di identità e di senso sociale è l’aspetto saliente dei problemi che ci stanno di fronte. La guerra è una condizione cronica della nostra epoca. L’incertezza economica è una presenza costante. La solidarietà umana è invece un mito sfuggente.

E, non ultimo dei nostri problemi, ci sta davanti l’apocalisse ecologica, la distruzione catastrofica del sistema che garantisce la stabilità del pianeta. Viviamo sotto la minaccia costante che il mondo vivente possa irrevocabilmente essere compromesso da una società votata a uno sviluppo folle, una società che sostituisce sempre più l’organico con l’inorganico, il suolo con il cemento, le foreste con il deserto, la ricca diversità delle forme di vita con ecosistemi semplificati, in breve una società che sta «mettendo indietro» l’orologio dell’evoluzione, riportandola a un passato più inorganico, minerale, incapace di offrire sostentamento a forme di vita complesse, esseri umani inclusi.

Questa ambiguità del nostro destino, del nostro significato, del nostro scopo, genera così una domanda angosciante: è forse una maledizione, la società, un cancro che aggredisce tutte le forme di vita? Non c’è rimedio a questo nuovo fenomeno chiamato «civiltà» che pare sul punto di distruggere il mondo naturale prodotto in milioni di anni di evoluzione organica?

In effetti, esiste oggi tutta una letteratura, che attira l’attenzione di milioni di lettori, centrata su questo pessimismo nei confronti della civiltà in sé e per sé. Tale letteratura presenta la tecnologia come contrapposta a una presunta natura organica «vergine», la città come contrapposta alla campagna e la campagna come contrapposta alla natura «selvaggia», la scienza come contrapposta al «rispetto» per la vita, la ragione come contrapposta all’«innocenza» dell’intuizione, insomma l’umanità come contrapposta a tutta la biosfera.

Stiamo cioè perdendo la fiducia nelle nostre caratteristiche tipicamente umane, nella nostra attitudine al pensiero concettuale e sistematico, nella nostra capacità di vivere in pace con gli altri, di prenderci cura dei nostri simili e delle altre forme di vita. Questo pessimismo è alimentato, un giorno dopo l’altro, da sociologi che attribuiscono i nostri difetti ai cromosomi, da antiumanisti che deplorano la nostra sensibilità «antinaturale» e da biocentristi che disprezzano le nostre qualità razionali pretendendoci non diversi nella nostra unicità dalle formiche. In breve, assistiamo a un attacco diffuso contro la ragione, la scienza, la tecnologia, contro la loro capacità di migliorare il mondo, per noi stessi e per la vita in generale. Storicamente, questa concezione che vede la civiltà come inevitabilmente contrapposta alla natura, come una corruzione della natura umana, risale ai tempi di Jean-Jacques Rousseau e ci viene riproposta oggi, quando è più che mai necessaria una civiltà umana ed ecologica se vogliamo davvero salvare il pianeta e noi stessi. La civiltà, con il suo maschilismo razionalista e tecnicista, è vista sempre più come una nuova peste. 

Anzi, è la società in se stessa a essere messa in discussione, al punto di considerare come pericolosamente «innaturale» e intrinsecamente distruttivo il ruolo che essa svolge nella formazione dell’umanità. L’umanità viene diffamata dagli stessi esseri umani, ed è paradossalmente accusata di essere una forma di vita perversa che non fa che distruggere le altre forme di vita, minacciando l’integrità costituita dal loro insieme. Cosicché, oltre alla confusione per l’incertezza della nostra epoca e della nostra identità, ci troviamo ad affrontare anche la confusione circa la condizione umana, vista come un elemento di caos frutto delle nostre tendenze assassine e della nostra abilità a esercitarle con terribile efficienza, essendo dotati di ragione, scienza e tecnologia.

Bisogna riconoscere che solo un manipolo degli antiumanisti, dei biocentristi e dei misantropi che si dedicano a indagare sulla condizione umana è poi disposto a seguire la logica delle loro premesse fino a certe assurdità. Quello che va rilevato in questo guazzabuglio di intuizioni e di idee più definite è che le varie forme, istituzioni, relazioni che costituiscono ciò che chiamiamo «società» vengono in larga misura ignorate. Infatti si preferisce ricorrere a termini come «umanità» e a vocaboli zoologici come Homo sapiens, che celano le grandi differenze, e spesso gli aspri conflitti, che esistono tra i bianchi privilegiati e la gente di colore, tra gli oppressori e gli oppressi. E lo stesso vale per parole vaghe come «società» o «civiltà», che celano l’esistenza di grandi differenze tra le società libere, non gerarchiche, senza classi e senza Stato, e quelle più o meno gerarchizzate, classiste, statuali e autoritarie. Qui la zoologia rimpiazza un’ecologia a orientamento sociale e le cosiddette «leggi naturali», basate sulle oscillazioni nella popolazione animale, rimpiazzano i conflitti di interesse economici e sociali.

La semplicistica contrapposizione tra «società» e «natura», tra «umanità» e «biosfera», tra «ragione», «tecnologia», «scienza» e le forme di relazione umana con il mondo naturale meno sviluppate o addirittura primitive, ci impedisce di prendere in considerazione le complesse differenze e divisioni che sono presenti in seno alla società, il che è invece indispensabile per definire i nostri problemi e la loro soluzione. 

L’antico Egitto, ad esempio, aveva verso la natura un atteggiamento significativamente diverso da quello babilonese. Gli Egizi nutrivano una forte «reverenza» nei confronti di un gruppo di divinità della natura essenzialmente animistiche, molte delle quali erano anche fisicamente in parte umane e in parte animali. I Babilonesi, invece, avevano un pantheon di dèi di tipo politico, e dunque molto più umanizzati. Eppure l’Egitto non è stato meno gerarchico di Babilonia nel configurare la sua popolazione e forse era ancora più oppressivo di quest’ultima nei confronti degli individui in quanto tali. Certe società di cacciatori, a dispetto delle loro profonde concezioni animistiche, hanno distrutto la flora e la fauna naturali tanto quanto le culture urbane che fanno esclusivo riferimento alla ragione. Il termine «società» non fa dunque che inghiottire tutte queste differenze, insieme alla gran varietà di modelli sociali, e questo equivale a far violenza al pensiero e anche all’intelligenza pura e semplice.

Accade così che la società in sé diventi qualcosa di «innaturale». La ragione, la tecnologia, la scienza diventano elementi «distruttivi», senza che vengano tenuti in alcun conto i fattori sociali che ne condizionano l’uso. Qualunque tentativo di modificare l’ambiente è visto come una minaccia, come se la nostra «specie» potesse fare ben poco, o niente del tutto, per migliorare la vita del pianeta in senso generale.

Non siamo meno animali degli altri mammiferi, è vero, eppure siamo qualcosa di più che mandrie di erbivori brucanti sulle praterie africane, ed è questo qualcosa di più (vale a dire, il tipo di società che costituiamo e il modo in cui ci dividiamo in gerarchie e classi) che condiziona profondamente il nostro comportamento e i suoi effetti sul mondo naturale. 

Infine, separando così radicalmente l’umanità e la società umana dalla natura e riducendole a mere entità zoologiche, non riusciamo più ad accorgerci di come la natura umana derivi dalla natura non umana e l’evoluzione sociale dall’evoluzione naturale. In questa «epoca di alienazione», non solo l’umanità si aliena, si separa da se stessa, ma si separa anche dal mondo naturale, del quale un tempo faceva parte in quanto forma di vita complessa e pensante.

In sintonia con simili concezioni, gli ambientalisti progressisti e misantropi ci ammanniscono una dieta costante di rimbrotti circa il modo in cui «noi», in quanto specie, siamo responsabili del degrado ambientale. Non c’è bisogno di andare in California per imbattersi in un’accozzaglia di mistici e guru che hanno del problema ecologico e dei suoi fondamenti questa visione asociale e centrata sulla specie. New York, ad esempio, va altrettanto bene. Non dimenticherò tanto facilmente la mostra «ambientalista» organizzata negli anni Settanta dall’American Museum of Natural History di quella città, con una lunga serie di scenografie che mostravano al pubblico esempi di inquinamento e distruzione ecologica. L’ultima di esse, quella che concludeva la mostra, aveva l’incredibile titolo L’animale più pericoloso della terra, e consisteva in un grande specchio che rifletteva l’immagine del visitatore che si fosse trovato a sostare di fronte a esso. Ho ancora in mente l’immagine di un bambinetto nero che guardava lo specchio, mentre il suo maestro bianco cercava di spiegargli il messaggio che l’arrogante scenografia tentava di comunicare.

Non c’erano invece scenografie che rappresentassero i vertici manageriali delle grandi industrie nel momento in cui decidono di disboscare montagne intere, né i funzionari governativi che agiscono in collusione con i primi. Il messaggio della rappresentazione era uno solo, fondamentalmente antiumano: sono gli individui in quanto tali, non la società rapace e coloro che ne beneficiano, a essere responsabili degli squilibri ecologici, i ceti poveri non meno di quelli ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi privilegiati, le donne non meno degli uomini, gli oppressi non meno degli oppressori.

Una «specie umana» astratta rimpiazza così le classi, gli individui rimpiazzano le gerarchie, i gusti personali (molti dei quali modellati dai media) rimpiazzano i rapporti sociali, e i diseredati che vivono stentate e isolate esistenze rimpiazzano le multinazionali aggressive, le burocrazie conniventi e le reazioni violente dello Stato.

Piero Gilardi, Betulle e castagne (1994) – Poliuretano espanso – Asta Pananti in corso

Società e natura

Ma lasciamo da parte certe scandalose rappresentazioni che mettono sullo stesso livello i privilegiati e i diseredati. A questo punto è necessario rivolgere l’attenzione verso quella che appare come la priorità, ovvero ricondurre la società all’interno di un quadro di riferimento ecologico. Una volta di più bisogna ricordare che praticamente tutti i problemi ecologici sono problemi sociali, e non semplicemente o principalmente il risultato di concezioni religiose, spirituali o politiche. Che tali concezioni generino un approccio antiecologico in persone di ogni ceto è evidente. Ma più che prendere le ideologie per il loro valore nominale, per noi è cruciale chiederci qual è la loro filiazione. 

Molto spesso le necessità economiche possono indurre le persone ad agire anche contro i loro impulsi più genuini, anche contro valori percepiti come intrinsecamente naturali. I boscaioli assunti per radere al suolo qualche meravigliosa foresta di norma non nutrono alcun «odio» per gli alberi. Eppure non possono far altro che tagliare gli alberi, esattamente come gli addetti ai macelli non possono far altro che uccidere gli animali addomesticati. Ogni comunità ha certamente fra i suoi componenti qualche individuo sadico o distruttivo, ivi compreso qualche ambientalista misantropo che amerebbe vedere l’umanità sterminata. Ma per la maggioranza delle persone certi tipi di lavoro, ad esempio quelli particolarmente faticosi come il minatore, non sono occupazioni liberamente scelte. Al contrario, sono il frutto di bisogni materiali e soprattutto sono il prodotto di assetti sociali sui quali le persone comuni non hanno alcuna possibilità di controllo.

Al fine di capire i problemi attuali, tanto ecologici quanto politici ed economici, dobbiamo prenderne in esame le cause sociali e porvi rimedio con modalità di intervento sociali. I vari tipi di ecologia – «profonda», «spirituale», antiumanista, misantropica – sono gravemente mistificanti perché focalizzano la nostra attenzione sui sintomi sociali piuttosto che sulle cause sociali. Viceversa è imperativo guardare alle modificazioni dei rapporti sociali per capire le più importanti modificazioni ecologiche. Queste varie declinazioni di ecologia ci distolgono invece dal sociale per indirizzarci verso il «culturale», lo «spirituale», o verso una «tradizione» definita in modo molto vago. La Bibbia non ha creato l’antinaturalismo europeo, ma è servita a giustificare un antinaturalismo pre-esistente sul continente fin dai tempi pagani, a dispetto di certi tratti animistici delle religioni precristiane. È certo che l’influenza antinaturalistica della cristianità è aumentata significativamente in seguito all’emergere del capitalismo. Non solo dobbiamo portare la società all’interno di un quadro di riferimento ecologico, allo scopo di capire perché la gente tenda ad assumere atteggiamenti competitivi (fortemente naturalistici in certi casi, fortemente antinaturalistici in altri), ma dobbiamo anche esaminare più approfonditamente la società stessa. Dobbiamo scoprire perché la società tenda a distruggere il mondo naturale e, contemporaneamente, perché essa abbia stimolato e spinto, e tuttora stimoli e spinga, l’evoluzione naturale.

Parlando di «società» in senso astratto e generale (ma ricordiamoci che ogni società è unica e completamente diversa dalle altre dal punto di vista storico), dobbiamo obbligatoriamente prendere in esame ciò che, più che «società», andrebbe definito come «socializzazione». La società è un particolare assetto di rapporti che spesso prendiamo come dati di fatto, come qualcosa di «fisso». Oggi, un gran numero di persone crede che una società di mercato fondata sullo scambio e sulla concorrenza sia sempre esistita, anche se c’è ancora qualcuno vagamente consapevole dell’esistenza di società premercantili fondate sul dono e sulla cooperazione. La socializzazione, invece, è un processo, allo stesso modo in cui la singola esistenza è un processo. Storicamente, il processo di socializzazione umana può essere visto, similmente a quanto accade per l’individuo, come una specie di infanzia sociale durante la quale l’umanità viene faticosamente educata alla maturità sociale.

Non appena si comincia a considerare la socializzazione da un punto di vista più approfondito, ciò che colpisce è il fatto che la società nelle sue forme più antiche deriva dalla natura. Ogni evoluzione sociale, infatti, è virtualmente un’estensione dell’evoluzione naturale in un ambito unicamente umano. Per usare le parole pronunciate più di duemila anni fa dal grande oratore e filosofo romano Cicerone: «Con le nostre mani tentiamo di creare in seno al regno della Natura una seconda natura per noi stessi». L’osservazione di Cicerone, certo, è incompleta: il «regno della Natura» primigenio (presumibilmente incontaminato), anche detto «prima natura», viene rimodellato, totalmente o parzialmente, e trasformato in una «seconda natura» non solo «con le nostre mani»: il pensiero, il linguaggio e un complesso di importantissime modificazioni biologiche giocano un ruolo cruciale, e a tratti decisivo, nella creazione della «seconda natura» in seno alla «prima».

Uso a ragion veduta il termine «rimodellare», allo scopo di sottolineare che la «seconda natura» non è semplicemente un fenomeno che si sviluppa al di fuori della «prima». Non a caso Cicerone diceva «in seno al regno della Natura». E sottolineare come la «seconda natura», o più esattamente la società intesa nel senso più ampio del termine, emerga all’interno della «prima natura» originaria, significa ristabilire il fatto che la vita sociale ha sempre una sua dimensione naturale, anche se nel nostro pensiero la società è contrapposta alla natura. L’ecologia sociale dice chiaramente che la società non è una «eruzione» improvvisa nel mondo. La vita sociale non si contrappone necessariamente alla natura come un avversario, in una guerra senza quartiere: l’emergere della società è un fatto naturale che trae la sua origine dalla biologia della socializzazione umana.

Questo processo di socializzazione da cui emerge la società – quale che ne sia la forma: famiglia, banda, tribù, o modelli più complessi di interrelazioni umane – trae la sua origine dai rapporti di parentela, in particolare quelli tra madre e figli. Ma la madre biologica può ovviamente essere rimpiazzata da molti surrogati, come il padre, i parenti o persino tutti i membri di una certa comunità, ed è proprio nel momento in cui sono i genitori sociali, i parenti sociali, per così dire, ad assumersi le cure di norma espletate dai genitori biologici in senso stretto, che comincia a prendere forma la società propriamente intesa. In tal modo, la società oltrepassa il mero gruppo riproduttivo, i legami di sangue, per indirizzarsi verso relazioni umane istituzionalizzate, passando da quella che potremmo definire una comunità animale informale a un ordine sociale chiaramente strutturato. Nella fase iniziale, è più che verosimile che la socializzazione degli esseri umani tesa a formare questa «seconda natura» si sia sviluppata a partire dai vincoli di sangue, specificamente materni. In seguito, le strutture e le istituzioni che hanno segnato il progredire dell’umanità dalle semplici forme di una comunità animale verso una società vera e propria hanno iniziato a modificarsi, e tali modificazioni hanno assunto grande importanza dal punto di vista dell’ecologia sociale. 

Positivo o negativo che sia stato, le società si sono sviluppate intorno a gruppi di status, gerarchie, classi e formazioni statuali. Nondimeno, la riproduzione e le cure parentali sono rimaste ancorate a basi biologiche che si ritrovano in ogni forma di vita associata e che costituiscono il fattore originario della socializzazione dei piccoli e quindi della formazione della società. Come ha avuto modo di osservare Robert Briffault all’inizio del ventesimo secolo in The Evolution of Human Species: «L’unico fattore conosciuto che marca una profonda distinzione tra la costituzione dei più rudimentali gruppi umani e tutti gli altri gruppi animali [è] l’associazione delle madri e dei loro nati, che tra gli animali rappresenta la sola forma di vera solidarietà sociale. In seno a tutti gli ordini di mammiferi la durata di questa associazione tende continuamente ad aumentare, come conseguenza del protrarsi del periodo di dipendenza infantile».

La dimensione biologica che Briffault attribuisce a ciò che chiamiamo società non può essere dimenticata. Essa è una presenza decisiva non solo per le origini della società dopo secoli di evoluzione animale, ma anche per la quotidiana riproduzione della società nella vita di tutti i giorni. Le cure attente che ogni nuovo nato riceve per molti anni ci dicono che ci troviamo in presenza non semplicemente della riproduzione di un nuovo essere umano, ma della riproduzione della società stessa. A paragone dei piccoli di altre specie, i bambini crescono lentamente e nell’arco di un periodo assai lungo. Vivendo in stretta associazione con i genitori, i fratelli, le sorelle, i parenti di vario grado, e quindi con una comunità in continua espansione, essi mantengono una plasticità mentale che rende creativi gli individui e formativi i gruppi sociali. Per quanto gli animali non umani possano avvicinarsi in diversi modi alle forme tipiche degli umani, essi non arrivano a creare una «seconda natura» dotata di tradizione culturale, né a possedere un linguaggio complesso e un’elaborata capacità di concettualizzazione, e nemmeno l’impressionante attitudine a ristrutturare consapevolmente il proprio ambiente a seconda delle proprie necessità.

Uno scimpanzé, ad esempio, resta nello stadio infantile solo per tre anni, e in quello adolescenziale per sette; a dieci anni di età è completamente adulto. I bambini, invece, vengono considerati infanti per circa sei anni e più o meno adolescenti per altri quattordici. Ciò significa che uno scimpanzé si sviluppa mentalmente e fisicamente in circa metà del tempo necessario a un essere umano, ma la sua capacità di imparare è contenuta in un lasso di tempo più ridotto, mentre quella di un essere umano può svilupparsi ancora per molte decadi. Per lo stesso motivo, le associazioni di scimpanzé sono spesso labili e limitate. Al contrario, le associazioni umane sono fondamentalmente stabili, altamente istituzionalizzate e segnate da un grado di solidarietà e creatività che non hanno eguali, per quanto ne sappiamo, tra le specie non umane.

Il prolungarsi di un tale periodo di plasticità mentale, dipendenza e creatività sociale porta a due risultati molto importanti. In primo luogo, le forme più antiche di associazione umana devono aver favorito una forte predisposizione all’interdipendenza tra i membri di un certo gruppo, e non al rozzo individualismo che generalmente associamo con l’indipendenza. Esiste una sconfinata massa di dati antropologici che indicano come la partecipazione, il mutuo soccorso, la solidarietà e l’empatia fossero le virtù sociali più apprezzate all’interno dei primi raggruppamenti umani, proprio perché l’idea della reciproca dipendenza delle persone ai fini della sopravvivenza era la conseguenza naturale del lungo periodo di dipendenza dei giovani dagli adulti. L’indipendenza, per non parlare della competizione, doveva certamente apparire come qualcosa di estraneo, di inconsueto, a una creatura che per molti anni era stata educata in una condizione di grande dipendenza. L’amore reciproco doveva apparire come il prodotto del tutto naturale di un essere altamente acculturato, chiaramente bisognoso di cure continue. La moderna versione dell’individualismo, o più precisamente dell’egotismo, non avrebbe potuto convivere con questa antica concezione basata sulla solidarietà e l’aiuto reciproco, senza la quale, vorrei aggiungere, un animale fisicamente fragile come l’essere umano difficilmente avrebbe potuto sopravvivere, sia nell’età adulta sia, a maggior ragione, nell’età infantile.

In secondo luogo, l’interdipendenza tra gli umani deve aver assunto una forma altamente strutturata. Non ci sono prove che tra gli esseri umani sia normale il sistema di legami notevolmente laschi che esiste tra i nostri cugini primati. Non c’è alcun dubbio che i vincoli umani, in particolari momenti di radicale trasformazione o decadimento culturale, possano sciogliersi o deistituzionalizzarsi. Ma in condizioni relativamente stabili, la società umana non è mai stata l’orda che secondo gli antropologi ottocenteschi stava alla base della vita sociale primordiale. Al contrario, le prove di cui disponiamo indicano che tutti gli umani, e forse anche i nostri antenati ominidi, sono vissuti in qualche forma di gruppo familiare strutturato, e più tardi in bande, tribù, villaggi e simili. In breve, come ancor oggi accade, si riunivano non semplicemente su basi affettive o morali, ma anche strutturalmente, attraverso istituzioni programmate, chiaramente definite e relativamente stabili.

Anche gli animali non umani possono formare comunità lasche e assumere atteggiamenti di difesa collettiva allo scopo di proteggere i propri piccoli dai predatori. Ma non si possono definire tali comunità come strutturate, se non in senso molto lato. Gli animali umani, invece, creano comunità altamente formalizzate, che nel corso del tempo tendono a diventare sempre più strutturate. Queste non sono semplici comunità, ma quel fenomeno nuovo che definiamo «società».

L’incapacità di distinguere le comunità animali dalle società umane contiene in sé il rischio di ignorare la peculiarità che distingue la vita sociale umana da quella delle comunità animali, vale a dire la possibilità di modificare la società, nel bene e nel male, e i fattori che producono siffatte modificazioni. Riducendo a una semplice comunità quella che è una società complessa, non riusciamo a capire l’evoluzione delle differenze di status in gerarchie consolidate, e delle gerarchie in classi economiche. Insomma, rischiamo di perdere completamente il senso reale di concetti come «gerarchia», cioè un sistema di comando/obbedienza altamente organizzato, nettamente distinto dalle differenze personali, individuali, di status, spesso di breve durata e non necessariamente caratterizzate da azioni coercitive.

In effetti, tendiamo a confondere le istituzioni create dalla volontà umana, dai conflitti di interesse, dalla tradizione, con le forme più comuni della vita comunitaria, come se avessimo a che fare con caratteristiche intrinseche, inalterabili, della società, e non con strutture artificiali, che in quanto tali possono essere modificate, migliorate, peggiorate, o semplicemente abbandonate. Dall’inizio della storia fino ai giorni nostri, il gioco di ogni élite è stato quello di far coincidere il proprio sistema gerarchico di dominazione con la vita comunitaria in quanto tale, cosicché quelle che sono istituzioni create dall’uomo hanno nel tempo acquisito un potere sanzionatorio omologo a quello di tipo divino o biologico. 

Accade così che una data società, e le istituzioni che la compongono, si trasformino in un’entità permanente e intoccabile, che non solo acquista misteriosamente una vita propria al di fuori della natura, ma che appare come il prodotto di una altrettanto fissa «natura umana», derivata da una programmazione genetica avvenuta ai primordi della vita sociale. All’opposto, può anche accadere che una data società, e le istituzioni che la compongono, si dissolva in seno alla natura come una delle tante forme di comunità animali, con i suoi «maschi alfa», i suoi «guardiani», i suoi «capi» e le altre forme esistenziali tipiche dell’«orda». Quando si producono fatti incresciosi come guerre o conflitti sociali, questi vengono imputati all’attività di specifici geni, verosimilmente predisposti alla «guerra» o alla «cupidigia».

In questi due casi, ovvero quello di una società astratta che esiste al di fuori della natura e quello di una comunità naturale, altrettanto astratta, indistinguibile dalla natura, si manifesta un dualismo che divide nettamente la società dalla natura o un rozzo riduzionismo che dissolve la società nella natura. Tali concezioni, apparentemente contrapposte ma in realtà strettamente correlate, sono semplicistiche, e appunto per questo seducenti. Nonostante vengano spesso presentate, dai loro sostenitori più sofisticati, in forme più sfumate, presto o tardi si riducono a veri e propri slogan di piazza, a loro volta congelati in dogmi popolari.

L’ecologia sociale

Il modo con cui l’ecologia sociale affronta il problema della società e della natura richiede un maggior sforzo intellettuale proprio perché evita i semplicismi delle concezioni dualistiche e la rozzezza del riduzionismo. L’ecologia sociale si sforza di mostrare come la natura si dispieghi lentamente nella società, tenendo però ben presente sia le differenze tra questa e quella, sia la loro reciproca commistione. La socializzazione quotidiana del giovane in seno alla famiglia è biologicamente fondata tanto quanto sono socialmente motivate le cure fornite ogni giorno agli anziani dalle strutture mediche. Ma al contempo, pur restando mammiferi con determinate necessità naturali, istituzionalizziamo tali necessità e la loro soddisfazione in un’ampia gamma di forme sociali. Dunque il sociale e il naturale si fondono reciprocamente nelle attività più normali della vita quotidiana, in un mutuo processo interattivo, senza per questo perdere la propria identità.

A prima vista tutto ciò può apparire ovvio, se riferito a certi problemi quotidiani. Ciononostante, l’ecologia sociale solleva questioni di grande importanza che riguardano i diversi modi con cui natura e società hanno interagito nel corso del tempo e i problemi che da tale interazione sono scaturiti. Come si è instaurata questa separazione tra umanità e natura, questo conflitto? Quali istituzioni, quali ideologie, l’hanno reso possibile? Era evitabile, stante lo sviluppo dei bisogni umani e della tecnologia? E potrà essere superato in futuro, in una società ecologicamente orientata? Come può una società razionale ed ecologicamente orientata inserirsi nel processo dell’evoluzione naturale? E da un punto di vista ancora più generale, c’è qualche motivo di credere che la mente umana (essa stessa un prodotto dell’evoluzione naturale, come la cultura) rappresenti il culmine decisivo dello sviluppo naturale, vale a dire del lungo processo di sviluppo della coscienza, dalla sensibilità e capacità di sopravvivenza delle forme di vita più semplici alla consapevolezza e intelligenza di quelle più complesse?

Sono domande provocatorie, ma non celano alcuna arroganza nei confronti delle forme di vita non umane. Dobbiamo riportare l’unicità specifica dell’umanità, segnata da una ricca capacità intellettuale, sociale, immaginativa e costruttiva, a una sintonia con la fecondità, diversità e creatività della natura. Contesto che tale sintonia possa essere raggiunta contrapponendo la natura alla società, le forme di vita non umane a quelle umane, la fecondità naturale alla tecnologia, o una qualche soggettività naturale alla mente umana. In effetti, un dato cruciale che emerge dall’interrelazione esistente tra natura e società è che l’intelligenza umana, pur se peculiare, ha anch’essa una solida base naturale. Il nostro cervello e il nostro sistema nervoso non sono comparsi all’improvviso, senza una lunga storia naturale antecedente. Ciò che più d’ogni altro ci appare come un elemento integrante della nostra umanità – la straordinaria capacità di pensiero concettuale – ha le sue origini nel tessuto nervoso degli invertebrati primitivi, nei gangli cerebrali dei molluschi, nel midollo spinale dei pesci, nel cervello degli anfibi, nella corteccia cerebrale dei primati.

Anche qui, nel più intimo dei nostri attributi umani, siamo prodotti dell’evoluzione naturale non meno che dell’evoluzione sociale. In quanto esseri umani, incorporiamo in noi stessi millenni di differenziazione ed elaborazione organica. Come tutte le forme di vita complesse, non siamo solamente parte dell’evoluzione naturale, ma ne siamo anche gli eredi, il prodotto della fecondità naturale.

In questo suo sforzo teso a mostrare come la società lentamente emerga dalla natura, l’ecologia sociale deve ugualmente mostrare come la stessa società vada incontro a differenziazioni ed elaborazioni. E così facendo, deve non solo individuare i momenti dell’evoluzione sociale nei quali si sono prodotte quelle rotture che hanno lentamente portato la società a contrapporsi al mondo naturale, ma anche spiegare il prodursi di questa contrapposizione dalla sua prima comparsa nella preistoria fino ai nostri giorni. In effetti, se è vero che la specie umana è una forma di vita capace di valorizzare coscientemente il mondo naturale e non semplicemente di danneggiarlo, è importante per l’ecologia sociale riuscire a spiegare come molti esseri umani si siano trasformati in parassiti delle altre forme di vita invece che in partner attivi dell’evoluzione organica. Tale progetto non può essere intrapreso in modo aleatorio, ma deve configurarsi come un ben congegnato tentativo di rendere reciprocamente coerenti lo sviluppo sociale e quello naturale, un obiettivo di vitale importanza per noi stessi e per la costruzione di una società ecologica.

Forse uno dei più importanti contributi dati dall’ecologia sociale all’attuale dibattito ecologico è la constatazione che i problemi fondamentali che contrappongono la società alla natura nascono all’interno dello sviluppo sociale stesso, e non tra la società e la natura. Ciò equivale a dire che la contrapposizione tra società e natura ha le sue radici in talune contrapposizioni che esistono in seno alla società, in taluni conflitti profondi tra umani diversi che spesso celiamo con l’uso allargato del termine «umanità».

Questa concezione contrasta con quasi tutte le correnti dell’attuale pensiero non solo ecologico ma anche sociale. Larga parte del pensiero ecologico ha in comune con il liberalismo, il marxismo e il conservatorismo l’idea che per «dominare la natura» sia necessario dominare gli esseri umani. Praticamente tutte le ideologie sociali contemporanee hanno posto al centro delle loro teorie il concetto di dominazione umana. Dall’epoca classica a oggi, è universalmente accettata l’idea che per impedire che «l’uomo sia dominato dalla natura» sia indispensabile il dominio dell’uomo sull’uomo come primo mezzo di produzione e come strumento per sottomettere il mondo naturale. Per secoli è stato asserito che per sottomettere il mondo naturale era necessario sottomettere gli esseri umani, sotto forma di schiavi, di servi o di salariati. Che tale concezione pervada l’ideologia di quasi tutte le élite dirigenti e abbia fornito ai movimenti tanto conservatori quanto «progressisti» la giustificazione per il mantenimento dello status quo, non ha bisogno di dimostrazione. Il mito di una natura «avara» è stato sempre usato per giustificare l’avarizia degli sfruttatori e la crudeltà del trattamento da essi riservato agli sfruttati, e non ha mancato di fornire alibi all’opportunismo politico tanto di destra quanto di sinistra. Agire «all’interno del sistema» ha sempre implicato l’accettazione del dominio come modalità di organizzazione della vita sociale, spacciato nel migliore dei casi come un mezzo per liberare gli esseri umani dalla presunta sudditanza alla natura.

È forse poco noto che anche Karl Marx ha giustificato l’emergere della società di classe e dello Stato come momenti di passaggio verso il dominio sulla natura e l’ipotetica liberazione dell’umanità. È stato sulla scorta di tale visione storica che Marx ha formulato la propria concezione del materialismo storico ed elaborato la propria convinzione che la società di classe fosse un passaggio obbligato sulla strada del comunismo.

Paradossalmente, gran parte dell’attuale ecologia antiumanista e misticheggiante riprende esattamente lo stesso pensiero, ma invertendolo. Al pari dei loro avversari, anche questi ecologisti accettano l’idea che l’umanità sia dominata dalla natura, vuoi che ciò si presenti sotto forma di «legge naturale», vuoi che si presenti sotto forma di un’ineffabile «saggezza della terra» che deve guidare il comportamento umano. Ma mentre gli avversari rivendicano la necessità che la natura «si arrenda» all’umanità «conquistatrice», l’ecologia antiumanista si adopera perché sia l’umanità ad arrendersi alla natura che «tutto conquista». Per quanto possano differire le due concezioni, nell’uso dei termini e nel tipo di religiosità, in entrambe è presente la medesima idea fondamentale: il dominio. Il mondo naturale è infatti concepito come un dittatore, dal quale bisogna liberarsi o al quale bisogna obbedire.

L’ecologia sociale sfugge a questa trappola riconsiderando l’intero concetto di dominio, tanto in natura e società quanto nelle cosiddette «leggi naturali» e «leggi sociali».

Ciò che normalmente viene definito come «dominio» in natura non è che una proiezione dei nostri sistemi di controllo sociale altamente strutturati sulle forme comportamentali proprie delle comunità animali, individualistiche, asimmetriche e il più delle volte solo blandamente coercitive. In altre parole, gli animali non «dominano» nel medesimo modo in cui lo fanno le élite umane, che spesso sfruttano a proprio beneficio i gruppi sociali oppressi; e nemmeno «comandano» per mezzo di forme istituzionalizzate di violenza sistematica, come invece accade nelle società umane. Tra i primati, ad esempio, non esiste vera e propria coercizione e il cosiddetto comportamento «dominante» è solo occasionale. I gibboni e gli oranghi sono noti per l’atteggiamento pacifico verso i membri della propria specie. I gorilla sono altrettanto tolleranti, se si eccettuano taluni comportamenti di qualche maschio adulto di «rango superiore» nei confronti di alcuni membri di «rango inferiore» in quanto più giovani o più deboli. I ben noti maschi alfa degli scimpanzé non hanno uno status fisso all’interno dei loro raggruppamenti, che restano sempre alquanto fluidi, e lo status che raggiungono può essere dovuto a cause molto diverse. Certo è possibile divertirsi a saltare da una specie animale all’altra alla ricerca di individui di «rango superiore» da contrapporre ad altri di «rango inferiore», ma una tale operazione si rivela piuttosto stupida quando termini come «rango» o «status» vengono usati in maniera tanto elastica da poter includere anche mere differenze di comportamento e funzioni nel gruppo e non precise azioni coercitive.

Lo stesso può dirsi del termine «gerarchia». Tanto come etimologia che come significato proprio, esso ha un senso profondamente sociale, e non zoologico. Di origine greca, il termine è stato inizialmente utilizzato per indicare i livelli nei quali erano ordinate le diverse divinità e in seguito la struttura del clero (Hierapolis era un’antica città frigia dove veniva adorata la Dea Madre). In tempi successivi, questo significato è stato insensatamente ampliato fino a includere tutto, dalle relazioni all’interno degli alveari all’azione erosiva dei corsi d’acqua, dei quali si dice che «dominano» il proprio alveo. Le femmine degli elefanti vengono definite «matriarche» quando svolgono un ruolo di vigilanza, e i maschi dei primati che mostrano grande coraggio nella difesa della comunità, in cambio di qualche modesto «privilegio», sono spesso designati come «patriarchi». Il fatto che sia assente un vero e proprio sistema organizzato di dominio (ben presente nelle comunità gerarchiche umane e passibile di mutamenti istituzionali radicali, rivoluzioni popolari incluse) è invece completamente ignorato.

Inoltre, le diverse funzioni che le presunte gerarchie animali svolgono, vale a dire le cause asimmetriche che fanno sì che un individuo occupi uno status alfa e altri uno inferiore, sono minimizzate, se mai vengono considerate. Con lo stesso tipo di approccio, le sequoie più alte potrebbero essere considerate come «superiori» rispetto a quelle più basse, tanto da arrivare a considerarle come una sorta di élite in seno alla «gerarchia» di un bosco misto, dove «sottomettono» ad esempio le querce (che, giusto per complicare le cose, sono evolutivamente più avanzate). La tendenza a estendere meccanicamente le categorie sociali al mondo naturale è altrettanto fallace della tendenza a estendere i concetti biologici alla geologia. I minerali non si «riproducono» allo stesso modo degli esseri viventi. Le stalagmiti e le stalattiti delle grotte certamente aumentano di dimensione con il passare del tempo, ma in nessun modo «crescono» in un modo anche lontanamente simile a quello degli esseri viventi. Se si ricorre a similitudini superficiali e poi le si usa per costituire raggruppamenti identificativi, si finisce con il credere al «metabolismo» delle rocce e alla «moralità» dei cromosomi.

Tutto ciò mette bene in luce il problema dei continui tentativi di individuare nel mondo naturale caratteri etici, oltre che sociali, quando esso è invece solo potenzialmente etico, nel senso che può solo fungere da base a un’etica sociale oggettiva. È vero, in natura esiste la coercizione, e anche il dolore e la sofferenza. Ma non esiste la crudeltà. L’intenzionalità e la volontà animali sono troppo limitate per poter produrre un’etica del bene e del male, o della bontà e della crudeltà. Ci sono prove assai scarse della presenza di pensiero inferenziale e concettuale tra gli animali, a eccezione dei primati, dei cetacei, degli elefanti e forse di pochi altri. E anche tra gli animali più intelligenti, le forme di pensiero sono comunque estremamente limitate se paragonate alle capacità degli esseri umani socializzati. Anzi, essendo tuttora in gran parte sconosciute le nostre potenzialità di creatività, affettività e razionalità, bisogna riconoscere che non siamo ancora pienamente umani. La società dominante serve più a inibire che a porre in atto le nostre potenzialità umane. E infatti non riusciamo ancora a immaginare quanto le nostre più intime caratteristiche potrebbero espandersi se le vicende umane fossero realmente affrontate in modo etico, ecologico e razionale.

Viceversa, il mondo non umano conosciuto sembra aver palesemente raggiunto i suoi limiti per quanto riguarda la capacità di sopravvivere alle modificazioni ambientali. Se davvero, come credono molti biologi, il segreto del successo evolutivo risiede nell’adattamento alle modificazioni ambientali, allora gli insetti andrebbero posti a un livello superiore a qualunque forma di mammifero… insetti che peraltro non sono in grado di formulare una così elevata valutazione di sé, proprio come un’ape regina non è minimamente conscia del proprio status «regale». Uno status, vorrei aggiungere, che solo gli esseri umani – che hanno dovuto sopportare l’imperio di re e regine stupidi, inetti e deboli – potrebbero attribuire a un insetto praticamente privo di intelligenza.

Nessuna di queste osservazioni ha lo scopo di contrapporre in senso metafisico la natura alla società, o viceversa. Anzi, esse intendono sostenere che ciò che unisce la società alla natura in un ininterrotto continuum evolutivo è la possibilità per gli esseri umani di incarnare la creatività della natura, vivendo in una società razionale ed ecologicamente orientata, al di là di un criterio di successo evolutivo inteso in un senso puramente adattativo. Le grandi realizzazioni del pensiero umano – l’arte, la scienza e la tecnologia – non servono solo a erigere monumenti alla cultura, ma servono altresì a erigere monumenti all’evoluzione naturale stessa. Esse attestano con la loro grandiosità che è la specie umana, una forma di vita a sangue caldo, sorprendentemente versatile e dotata di un’acuta intelligenza, a dare espressione alla grande capacità creativa della natura, e non un insetto geneticamente programmato e privo di intelletto. 

Le forme di vita che si limitano ad adattarsi alle modificazioni ambientali sono un esempio di evoluzione incompleta, per quanto utile possa essere la loro presenza all’interno di un dato ecosistema. Le forme di vita che creano e modificano coscientemente il proprio ambiente, auspicabilmente con l’intento di renderlo più razionale ed ecologico, rappresentano invece un’estensione vasta e indefinita dell’evoluzione naturale verso una natura cosciente di sé che nessun tipo di insetto potrebbe mai raggiungere.

A sua volta, la natura non è un bel panorama da ammirare attraverso la finestra o immobilizzare su una cartolina. Questo modo di concepire la natura può anche elevare lo spirito, ma è ecologicamente fuorviante, perché ci induce a dimenticare che la natura non è una rappresentazione statica del mondo naturale, ma la storia dell’evoluzione, lunga e comprensiva di tutti gli avvenimenti che l’hanno caratterizzata. Tale storia contiene tanto l’evoluzione della materia inorganica quanto quella della materia organica. In un campo, in una foresta o in cima a un monte, i nostri piedi poggiano su ere di sviluppo, strati geologici, fossili di forme di vita ormai estinte, resti in decomposizione di esseri morti di recente e nuovi esseri che silenziosamente prendono vita. La natura non è una «persona», né una «madre amorevole», né «materia e morte», per usare il crudo lessico materialista del ventesimo secolo. E non è neppure un semplice «processo» fatto di cicli che si ripetono come stagioni e del susseguirsi di attività metaboliche costruttive e distruttive, con buona pace di certe filosofie evoluzionistiche. Piuttosto, la storia naturale è un’evoluzione cumulativa verso forme e relazioni sempre diverse, sempre più differenziate e complesse.

Tale sviluppo verso esseri sempre più variegati, cioè verso nuove forme di vita, contiene – latenti – numerose quanto eccitanti possibilità. La varietà, la differenziazione e la complessità aprono alla natura, man mano che questa si espande, nuove direzioni per un ulteriore sviluppo e linee alternative di evoluzione. Via via che gli animali diventano più complessi e consapevoli di sé, più intelligenti, cominciano a compiere quelle scelte elementari capaci di influenzare la loro stessa evoluzione. Sono sempre meno oggetti passivi della selezione naturale e sempre più soggetti attivi del proprio autosviluppo. Una lepre a mantello scuro che si è evoluta in una lepre a mantello bianco ben presto si accorge delle possibilità mimetiche che questo mutamento le offre in un terreno innevato, e così facendo non si limita ad adattarsi per sopravvivere, ma agisce in funzione della propria sopravvivenza. Non è solo l’ambiente che la seleziona, ma è anch’essa che seleziona il proprio ambiente, e di conseguenza compie una scelta che esprime una sia pur modesta capacità di giudizio e soggettività.

Maggiore è la varietà degli habitat che emerge nel corso dell’evoluzione, maggiore è il ruolo attivo e ragionato che le forme di vita, specie quelle neurologicamente più complesse, svolgono ai fini della propria sopravvivenza. Nella misura in cui l’evoluzione naturale segue questa via di sviluppo neurologico, essa dà origine a esseri viventi dotati di una sempre maggiore capacità di scelta nel determinare il proprio sviluppo.

Con questa concezione della natura, intesa come storia cumulativa dei livelli via via più differenziati di organizzazione materiale (specialmente di forme di vita) e di crescente soggettività, l’ecologia sociale pone le basi per una più ampia comprensione dell’umanità e della collocazione della società nell’evoluzione naturale. La storia naturale non è un fenomeno meramente casuale. È segnata da tendenze, direzioni, e per quanto concerne gli umani da fini consapevolmente perseguiti. Questi ultimi, con il mondo sociale da essi creato, possono allargare significativamente l’orizzonte dell’evoluzione naturale, trasformandolo in un orizzonte segnato dalla coscienza, dalla riflessione e da una libertà di scelta e una creatività volontaria mai viste prima. I fattori che obbligano molti esseri viventi a ruoli in gran parte adattativi nella trasformazione ambientale potrebbero essere sostituiti dalla capacità di adattare coscientemente l’ambiente alle forme di vita esistenti o alle nuove che potrebbero svilupparsi.

Questo adattamento, in effetti, libera la creatività e introduce in misura crescente una componente di libertà nelle apparentemente ferree «leggi naturali». Ciò che un tempo veniva definita come «cecità» della natura, alludendo all’assenza di ogni direttiva morale, si rivela oggi come «libertà» della natura, nella misura in cui questa, sia pur lentamente, trova la sua voce e i mezzi per alleviare le inutili sofferenze di tutte le specie in un’umanità altamente consapevole e in una società ecologica.

In ogni caso, perché abbia un qualche senso il «principio di Noè» avanzato dall’antiumanista David Ehrenfeld (The Arrogance of Humanism), in base al quale qualunque forma di vita esistente deve essere preservata per il semplice fatto che esiste, bisogna presupporre l’esistenza di un «Noè», cioè di una forma di vita cosciente (ovvero l’umanità) che si assume il compito di salvare le specie che la natura condannerebbe all’estinzione durante qualche glaciazione, o desertificazione, o collisione con asteroidi. Sia chiaro che orsi grizzly, lupi, puma e altri animali del genere non sono al sicuro dall’estinzione soltanto perché lasciati nelle mani «amorose» di una presunta «Madre Natura». Se è vero che i grandi rettili del Mesozoico sono stati distrutti da modificazioni climatiche successive alla probabile collisione della terra con un asteroide, la sopravvivenza dei mammiferi oggi esistenti potrebbe essere altrettanto precaria di fronte all’eventualità di una qualche calamità naturale, a meno che non vi sia una forma di vita consapevole, ecologicamente indirizzata, in possesso degli strumenti tecnologici idonei a salvarli.

Non si tratta quindi di stabilire se l’evoluzione sociale sia, o meno, in contrasto con l’evoluzione naturale. Si tratta invece di stabilire come l’evoluzione sociale possa essere inclusa nell’evoluzione naturale, e perché sia invece stata (immotivatamente, come dimostrerò) contrapposta all’evoluzione naturale a scapito della vita nel suo complesso. La capacità di essere razionali, o liberi, non garantisce che tale capacità debba automaticamente essere messa in atto. Se l’evoluzione sociale viene vista come l’occasione potenziale di aprire l’orizzonte dell’evoluzione naturale a una creatività mai sperimentata prima, e se gli esseri umani vengono considerati come la via attraverso cui può realizzarsi la potenzialità della natura di essere libera e cosciente di sé, ciò che dobbiamo stabilire è perché tali potenzialità siano state tarpate e come possano essere nuovamente attivate.

L’ecologia sociale è intimamente convinta (una convinzione assolutamente antitetica all’immagine della natura come panorama statico) che tali potenzialità siano reali e possano essere realizzate. La spaccatura tra evoluzione naturale ed evoluzione sociale, tra vita umana e vita non umana, tra una natura ritenuta avara e ostile e un’umanità ritenuta avida e distruttiva, è speciosa e fuorviante se è vista come inevitabile. Né meno fuorvianti sono stati i tentativi riduzionisti di includere il sociale nell’evoluzione naturale, di dissolvere la cultura nella natura in un’orgia di irrazionalismo, teismo e misticismo, di assimilare l’umano alla pura animalità, di imporre una presunta «legge naturale» a una società umana sottomessa.

Ciò che ha trasformato gli esseri umani in «alieni» nel mondo naturale sono state le mutazioni sociali che hanno trasformato molti esseri umani in «alieni» nel loro stesso mondo sociale, ovvero il dominio degli anziani sui giovani, degli uomini sulle donne e di alcuni uomini su altri uomini. Ancor oggi, come nei secoli passati, esistono esseri umani che possiedono la società e altri che ne sono invece posseduti. Fintantoché la società non sarà restituita a un’umanità indivisa capace di usare la sua saggezza collettiva, le sue conquiste culturali, le sue innovazioni tecnologiche, le sue conoscenze scientifiche, la sua creatività innata, a beneficio proprio e del mondo naturale, tutti i problemi ecologici continueranno ad avere le proprie radici nei problemi sociali.


Murray Bookchin (New York, 1921 – Burlington 2006) è stato sin dagli anni Sessanta una delle voci più ascoltate della controcultura americana e uno dei pionieri del movimento ecologico internazionale.

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