Scoprire la storia e le idee dell’I Ching, uno dei grandi testi classici delle filosofie orientali, può servire anche oggi. Questa è una parte
IN COPERTINA: “Eclipses luminarium” di Cyprian Leowitz.
Questo testo è tratto da Introduzione all’I Ching. La grande avventura del Libro dei Mutamenti di Tiziano Mattei. Ringraziamo Tlon per la gentile concessione.
di Tiziano Mattei
Il buddhismo in Cina
Nei primi secoli della nostra era, una nuova filosofia aveva varcato le frontiere del mondo cinese e iniziava lentamente a farsi strada: il buddhismo. Originato nella valle del Gange dalla predicazione di Siddhārtha Gautama detto Buddha (“l’Illuminato”), contemporaneo di Confucio, e diffusosi rapidamente a partire dal iii secolo a.C. anche oltre i confini della penisola indiana, esso portava con sé «un nuovo modo di concepire l’esistenza, che avrebbe sconvolto la percezione cinese da cima a fondo». Quello che avrebbe destabilizzato maggiormente la mentalità cinese era il fondamento stesso della visione buddhista: la duplice consapevolezza che la vita terrena è sofferenza e che la realtà è illusione. Ciò rendeva necessario per ogni essere umano seguire un percorso la cui meta era l’illuminazione: il cosiddetto “ottuplice sentiero”, che avrebbe condotto alla liberazione dalla prigionia del mondo terreno, a patto di percorrerlo nella rettitudine.
Fu un lento e graduale assorbimento: per la prima volta i cinesi si confrontavano con una concezione così radicale della vita umana, e nello stesso tempo con una spiritualità universale, accessibile a ogni essere senziente. Questo lungo periodo, che culminò nella grande fioritura culturale della dinastia Tang tra il vii e il ix secolo, segnò una sorta di parentesi nella storia dell’Yijing. Nonostante uno dei precetti del Buddha fosse la liberazione dalle speculazioni filosofiche, ritenute un ostacolo all’autentica illuminazione, la diffusione di una dottrina tanto diversa non tardò a impegnare i letterati e finì per assorbire l’interesse dell’intero mondo culturale cinese finché l’assimilazione non fu completa. Se ne distinguono generalmente tre fasi: una di preparazione (iii-iv secolo), in cui si cercò di comprendere i nuovi concetti esprimendoli in termini vicini al pensiero tradizionale, in particolare accostandoli ad alcune idee daoiste; una di studio più rigoroso (v-vi secolo), che vide l’istituzione di accademie di traduzione specializzate e correnti di pensiero più rispettose delle origini indiane; e infine l’epoca Tang, per la quale si può finalmente parlare di un vero buddhismo cinese, compreso a fondo nella sua essenza e pertanto capace di dare luogo a esiti originali.
Tra questi ultimi spicca senza dubbio la dottrina Chan, che avrebbe conosciuto grande fortuna in Cina, per poi diffondersi rapidamente anche in altri Paesi dell’Estremo Oriente (e notoriamente in Giappone, con la pronuncia “Zen”). «Apogeo del buddhismo in Cina», essa rappresenta al tempo stesso «il fior fiore dello spirito cinese»: in essa, la pratica della meditazione seduta e la ricerca del risveglio, inteso come la visione intuitiva e istantanea della vera essenza dello spirito (o, in termini buddhisti, della “natura-Buddha”) trovarono un connubio con il daoismo interiore di Zhuangzi e con il concetto di “indifferenziato” che Wang Bi identificava con il Dao stesso. Anche nella formulazione dei gong’an, brevi racconti o quesiti paradossali che il discepolo doveva risolvere trascendendone il senso letterale, si può riscontrare un’eco dello stile del Zhuangzi, oltre che la convinzione che il discorso non possa esprimere l’assoluto, ma che questo si possa soltanto esperire attraverso lo spirito.
Si può comprendere pertanto come lo studio tradizionale dei Classici, tra cui l’Yijing, abbia subìto un arresto di quasi otto secoli. Nonostante i testi confuciani fossero spesso citati, a volte in avallo, altre volte in contrapposizione alle dottrine buddhiste, in un susseguirsi di querelle, aperte rivalità e feconde contaminazioni tra le filosofie tradizionali e le nuove frontiere dello spirito, la loro esegesi rimase sostanzialmente ferma all’apporto dei pensatori precedenti. Persino l’opera di Kong Yingda, il più importante letterato confuciano dell’epoca (vissuto tra il vi e il vii secolo), si situava sostanzialmente nella scia del pensiero di Wang Bi e della sua scuola; i suoi commentari all’Yijing e ai Classici furono commissionati dalla corte Tang perché diventassero il curriculum standard per l’ammissione alle cariche imperiali, nell’ambito degli esami di Stato da poco reintrodotti.
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Trasformazioni sociali legate al buddhismo
L’arrivo del buddhismo influì profondamente non solo sul mondo letterato e colto, ma su tutta la società cinese. Una trattazione dettagliata dei suoi effetti esula dai nostri scopi, tuttavia vale la pena notare due aspetti importanti: primo, la novità del monachesimo, che induceva molte persone a “lasciare il clan” per vivere nel celibato, contravvenendo al valore tradizionale della continuità familiare; secondo, il successo della nuova dottrina in tutte le classi, al punto da diventare un fenomeno di massa: a questo contribuirono la sua vocazione universale ed egualitaria, i suoi semplici precetti e l’istituzione di feste che coinvolgevano tutti gli strati della popolazione.
Un aspetto notevole e spesso trascurato è infine il ruolo che ebbe la cultura buddhista nella liberazione della donna. Nella rigida struttura sociale cinese, molte ragazze andavano incontro a un triste destino: spose ripudiate spesso per capriccio, malviste ormai anche dalla famiglia d’origine per l’onta che rappresentavano; vedove bambine, date in sposa a ricchi possidenti già anziani, condannate alla castità a vita presso la famiglia del marito, nel peggiore dei casi ridotte al rango più basso per non aver dato alla luce un figlio prima della sua morte. A tutte queste donne i monasteri buddhisti aprivano le porte incondizionatamente, permettendo loro di condurre una vita dignitosa e soprattutto riconoscendo la loro identità personale, svincolata dai ruoli di moglie e di madre. Questo portò gradualmente a un cambio di mentalità che culminò sotto i Tang con l’abolizione delle usanze più dure e un’emancipazione senza precedenti. Per dirla con Cyrille Javary, «quest’epoca segnò l’età aurea delle donne cinesi […]. Tutte le rappresentazioni restituiteci dall’archeologia recente […] mostrano donne fiorenti, creative e raggianti», dedite alle arti, ad attività all’aperto quali la caccia e l’equitazione, e vestite con libertà e raffinatezza. Purtroppo, di lì a poco la loro condizione sarebbe mutata radicalmente.
La caduta dello yin
Fu un capriccio a segnare la vita delle donne in Cina e a incidere profondamente su tutta la visione del femminile, e pertanto sulla concezione dello yin, per quasi mille anni. Si narra che l’imperatore di un piccolo regno, nel periodo di frammentazione che seguì la caduta della dinastia Tang all’inizio del x secolo, fosse incantato dai passi di danza della sua concubina Yao Niang, così leggeri che ella sembrava volare. La ballerina utilizzava delle bende avvolte intorno ai piedi in modo da appoggiarsi soltanto sulle punte, come del resto si usa nella nostra danza classica. Non è chiaro come avvenne, ma la notizia si sparse e ne nacque una moda, dapprima limitata a poche corti, che si estese nell’arco di poche generazioni a tutte le donne dell’alta nobiltà: il bendaggio dei piedi fu estremizzato e divenne una stretta fasciatura, imposta alle bambine dall’età di otto anni, che comportava il ripiegamento di tutte le dita (eccetto l’alluce) sotto la pianta e impediva la crescita delle ossa, facendole inarcare. Un supplizio doloroso, che “donava” alle donne la possibilità di calzare le famose scarpine lavorate lunghe otto centimetri e l’andatura incerta e dondolante in cui gli uomini vedevano “la grazia di una rondine”, ciechi al dolore di ogni passo e alle continue infezioni che ciò comportava.
Le conseguenze a livello sociale furono enormi. Ben presto le attività all’esterno furono precluse alle donne nobili, che non potevano restare in piedi a lungo; avere i piedi fasciati assurse a simbolo di status sociale, dato che rendeva praticamente impossibile svolgere lavori pesanti. La pratica del “loto d’oro”, come fu chiamata, si diffuse nell’epoca Song e progredì sotto le dinastie successive coinvolgendo dapprima la piccola nobiltà, poi le ricche famiglie borghesi, fino ad arrivare verso il xv secolo agli strati più bassi della popolazione: nessuna donna che non avesse subito questa mutilazione avrebbe trovato un marito di ceto più elevato, perciò non poteva ambire a migliorare la condizione della propria famiglia. Osteggiata dai sovrani manciù e dai missionari cristiani nei secoli successivi, questa terribile usanza era ormai troppo radicata per scomparire e si dovette aspettare il 1902 perché fosse abolita da un decreto imperiale, non senza una forte resistenza da parte della popolazione.
A un primo sguardo, le vicissitudini delle donne cinesi possono sembrare poco rilevanti ai nostri scopi. Eppure, come fa notare Javary, esse sono «il simbolo doloroso di un’epoca i cui pensatori conteranno molto per lo sviluppo dell’Yijing»; l’identificazione della polarità yin con il femminile porterà ad accentuarne gli aspetti di sottomissione, passività e addirittura, in certi casi, di negatività, conferendo per contro un senso eccessivo di positività allo yang. Questo sbilanciamento perdurerà a lungo nella cultura cinese e, come vedremo, influirà sull’interpretazione dell’Yijing che arriverà in Occidente.
I Song e il nuovo classicismo
Riconquistata l’unità dell’impero, la nuova dinastia sentì il bisogno di riportare in auge i valori confuciani. La società stessa era mutata, passando da un modello basato su una rete di dipendenze personali a uno fondato sulla proprietà privata e sulle leggi dell’economia. Crebbero l’importanza e l’influenza dell’aristocrazia colta, rappresentata in primis dalla nascente classe mandarinale, quella degli alti funzionari selezionati per concorso; l’accesso ai posti della burocrazia imperiale era aperto a tutti, pertanto si assistette alla nascita di numerose accademie e grandi centri culturali, favorita anche dall’allentamento del controllo esercitato fino ad allora sulle strutture monastiche e private. Tutto ciò si tradusse in una vigorosa ripresa dello studio dei Classici, “riscoperti”, nelle intenzioni dichiarate dai letterati dell’epoca, secondo il loro significato antico e dimenticato; in questo nuovo slancio giocò un ruolo fondamentale anche l’invenzione della stampa a blocchi di legno intagliati (xilografia), risalente all’epoca Tang e recentemente perfezionata e divenuta molto più economica.
L’Yijing preparava il suo ritorno da protagonista sulla scena filosofica e culturale, senza tuttavia esserne mai del tutto uscito. Trascurato nei secoli precedenti dai confuciani, che in virtù della loro vocazione sociale avevano finito per cedere all’influsso buddhista, esso era divenuto il simbolo distintivo della cultura tradizionale presso i daoisti. Questi ultimi avevano instaurato con il buddhismo un rapporto ambivalente: come abbiamo visto, alcune idee sembravano accomunare le due dottrine, almeno da un punto di vista superficiale, ma proprio questo le aveva portate a competere in termini di favore popolare, a tal punto che il daoismo si era costituito in religione, con i suoi templi, monasteri e rituali. Sui paramenti sacri dei monaci daoisti spiccavano però gli Otto Trigrammi, a rivendicare la sola connessione autentica con il Cielo degli antenati che si contrapponeva a una spiritualità d’importazione. L’antica sapienza dei Mutamenti era stata tramandata come un sapere iniziatico, in quanto base delle discipline praticate all’interno dei monasteri (alchemico-esoteriche, mediche, marziali), e ne erano stati sviluppati gli aspetti più cari al daoismo: quelli legati alle strutture dei diagrammi lineari, alle loro rappresentazioni numeriche e alle correlazioni con i cicli dei Cinque Agenti e del calendario.
Il ritrovato interesse per i Classici risultò nella composizione, nell’xi secolo, dei trattati più importanti di tutta la letteratura sull’Yijing. I loro autori, legati in alcuni casi anche da rapporti di amicizia o parentela, riportarono l’attenzione su quello che definivano il Dao di Confucio, quel “filo unico” capace di «rivelare nell’infinita molteplicità delle cose un’unità fondamentale che permette una comprensione totale». Il loro pensiero, che pose le basi di quello che fu poi definito neoconfucianesimo, inglobava non soltanto gli elementi cosmologici ed esoterici daoisti, ma anche alcuni tratti notevoli della dottrina buddhista, da cui, pur differenziandosi, era ormai impossibile prescindere.
L’universo numerologico di Shao Yong
Vissuto in estrema povertà come “eremita urbano” restando sempre lontano dalla vita politica, Shao Yong regalò all’Yijing gli schemi che si trovano ancora oggi sulla maggior parte delle sue edizioni. Ricevuti gli insegnamenti daoisti, fu talmente affascinato dagli aspetti numerologici da elaborare a partire da essi tutta la sua visione del mondo e del Dao. Il fondamento del suo pensiero risiede in un celebre passo del Grande Trattato: «Il (Libro dei) Mutamenti possiede il Supremo Rivolgimento [taiji] che genera il duplice modello (Yin-Yang). Il modello duale genera le Quattro Immagini. Le Quattro Immagini generano gli Otto Trigrammi». Da questo passaggio, e dalla correlazione che vi scorse con un altrettanto noto paragrafo del Laozi, egli visualizzò la suddivisione successiva delle polarità attraverso sei “livelli”, ciascuno generato dallo sdoppiamento del precedente; questo procedimento dava luogo alla sequenza dei sessantaquattro esagrammi ordinati secondo un criterio matematico rigoroso, che è possibile affiancare alla serie dei numeri da 0 a 63 espressi in codice binario: per la prima volta era stata formalizzata la struttura soggiacente alla generazione dei diagrammi lineari e se ne poteva cogliere la perfezione formale con un colpo d’occhio. Lo schema più famoso di quelli inventati da Shao Yong è quello che presenta gli esagrammi disposti sia in cerchio, all’esterno, che in quadrato, all’interno: chiamato a volte, seppure impropriamente, il “mandala degli esagrammi”, è probabilmente la più bella raffigurazione della complessità e dell’armonia del sistema.
Il suo approccio numerologico all’Yijing fu denominato “Scuola del simbolo e del numero” (xiangshu xue), in opposizione alla più diffusa “Scuola del principio e del significato” (yili xue), prettamente confuciana. Egli perfezionò e diffuse una tecnica predittiva basata sui numeri dei trigrammi, della data e dell’ora, che partiva dall’osservazione dell’ambiente e prescindeva dal conteggio degli steli o dal lancio di monete, e spesso anche dai testi oracolari. Si dice che con questo metodo, noto ancora oggi come “Numerologia del susino in fiore”, facesse predizioni accuratissime.
Shao Yong fece inoltre importanti riflessioni sulla natura della coscienza e sul perseguimento della santità, riprendendo tra l’altro in una nuova prospettiva alcuni concetti buddhisti. Per esempio, l’esistenza di più piani di realtà, che Shao identificava con i livelli di suddivisione delle polarità, e la successione di tre stadi di coscienza: quello legato alla percezione sensoriale; quello della rappresentazione, legato allo spirito, che utilizza le immagini e i numeri per cogliere la struttura dell’universo; e infine la perfetta fusione con le cose stesse nel principio costitutivo (li). Anche la via per raggiungere questo stato di coscienza era mutuata dal buddhismo: si trattava della pratica, ottenuta attraverso la meditazione, della “visione inversa”, che consiste nell’osservare le cose non a partire da sé, ma dalle cose stesse, sgombrando il campo dall’io e trasformando il proprio spirito in uno specchio limpido e veritiero. Queste influenze si innestavano però in una visione daoista-confuciana dando luogo a un pensiero originale, che poneva al vertice il taiji come totalità immobile e indivisibile, origine di ogni movimento e mutamento, e che sottolineava la necessità di una perfetta rettitudine e autenticità per pervenire alla vera saggezza. Era quest’ultimo aspetto, il più tipicamente confuciano, ad accomunarlo ai letterati suoi contemporanei, che utilizzarono lo studio dell’Yijing per rimettere al centro del discorso filosofico l’uomo e la sua natura morale.
Il “trionfo” dell’Uomo e dell’Yijing
Il tema della santità era molto dibattuto tra i letterati Song. In particolare, essi riproponevano l’idea di Mencio che «ognuno può diventare uno Yao o uno Shun», cioè che la santità si può apprendere in virtù della natura fondamentalmente buona dell’essere umano, pur sottolineando che chi la raggiunge è un uomo straordinario. Uno dei primi a occuparsi della questione fu Zhou Dunyi, che identificò la santità con l’autenticità (cheng) intesa come «adeguamento perfetto tra l’Uomo e il Cielo-Terra»: in questo modo egli «esprimeva nozioni etiche in termini cosmologici, il che equivaleva a dire che la pratica della moralità era fondata in natura poiché dipendeva da un “principio celeste” (tianli)».
Queste tematiche, che rispondevano all’esigenza dell’epoca di «ricostituire, dopo il grande sconvolgimento buddhista, una visione del mondo coerente e sintetica», in cui l’uomo potesse orientarsi e perfezionarsi, furono esposte da Zhou Dunyi nel Tongshu (Libro che permette di comprendere i Mutamenti) e sintetizzate nel celebre Taijitu shuo (Spiegazione dello schema del Supremo Rivolgimento), la più importante schematizzazione del processo generativo dei Cinque Agenti e dei diecimila esseri a partire dal taiji e dalla polarità Yin-Yang.
I filosofi Song tornavano all’Yijing, e in particolare al Grande Trattato, con uno spirito totalmente diverso da quello dei letterati Han: l’idea buddhista dell’illusorietà del mondo aveva dissolto per sempre «la certezza di una stretta solidarietà tra il Cielo e l’Uomo», sulla quale si fondava tutto il loro pensiero correlativo. Mille anni più tardi, si trattava ora di «riallacciarsi alla tradizione antica dell’unità di uomo e cosmo, ma con la profonda consapevolezza della sua problematicità e persino con la paura di perderla se non la si fosse ripensata e giustificata».
Il pensiero di Zhang Zai a questo proposito è forse il più peculiare. Approdato allo “studio del Dao (confuciano)” (daoxue) dopo avere a lungo praticato il buddhismo e il daoismo e aver intrapreso la carriera pubblica, conobbe e strinse amicizia con Shao Yong. Nei suoi scritti più importanti, il Zhengmeng (L’iniziazione corretta) e un commentario all’Yijing (Yizhuo), incentrò la sua filosofia sul concetto di qi, il “soffio” o energia vitale, che presso di lui assunse una portata più ampia e universale: esso permeava ogni cosa, incluso il vuoto indifferenziato (wu), e coincideva in definitiva con il Dao. Questo gli permise di riaffermare con forza la realtà del mondo: il qi così definito unificava non soltanto lo yin e lo yang (che non erano altro che la “doppia costituzione” di una singola cosa), ma anche il latente e il manifesto, il senza forma e le forme concrete, “riempiendo” di fatto il vuoto. Tale distinzione si riduceva infatti alla transizione del qi tra due stati diversi, regolata dall’alternarsi dello yin e dello yang in una sorta di respirazione cosmica a due fasi: contrazione ed espansione, aggregazione e dissolvimento, attraverso le quali esso preservava comunque la propria natura unitaria. Zhang Zai ne deduceva l’unità fondamentale di tutti gli esseri, ma anche del Cielo e dell’Uomo, il che implicava la presenza in ogni essere umano della totalità dell’universo, materializzata nel qi e nella sua pulsazione binaria.
Anche la questione della moralità e della santità era presentata dal filosofo all’interno di questo quadro cosmologico-energetico. In un celebre passaggio del Zhengmeng, noto come “Iscrizione occidentale”, egli proclamò la fratellanza con tutti gli uomini (in quanto figli della coppia Cielo-Terra), incitando a coltivare la virtù e ricordando che la povertà e le tribolazioni conducono alla realizzazione personale. Come in Zhou Dunyi, la morale umana era fondata sui principi cosmici, ma il santo aveva inoltre la prerogativa di portare a compimento l’opera del Cielo-Terra, realizzandone il potenziale: le due Potenze Celesti non potevano che «stimolare i diecimila esseri» mettendoli in movimento, mentre il santo con la sua umanità (ren) sapeva «spalancare (loro) la Via».
Gli esponenti principali di questa corrente, che avrebbero influito maggiormente sugli sviluppi del neoconfucianesimo, furono i fratelli Cheng, nipoti di Zhang Zai. L’unico dei due fratelli a lasciare un contributo importante alla letteratura sull’Yijing fu il minore, Cheng Yi; anche lui strinse amicizia con Shao Yong, che assistette nell’ultimo periodo della sua vita. Il suo Commentario al Libro dei Mutamenti (Yichuan Yizhuan) è tra quelli di maggior successo sia in Oriente che in Occidente.
Cheng Yi è noto per la sua austerità e il suo rigore morale, tuttavia il senso della moralità nella sua visione va compreso nei termini del li, il “principio” strutturante o costitutivo, in cui egli vedeva il fondamento ultimo di ogni cosa e il garante della realtà del mondo. Come in Wang Bi, il li era “ciò che rende qualcosa ciò che è”, ma il pensiero neoconfuciano vi aggiungeva un aspetto normativo (“ciò che deve essere così”), cosicché si poteva affermare, per esempio, che un mestolo che non potesse servire a versare il vino o il brodo non fosse un mestolo. Il principio non definiva le cose in base alle loro proprietà, ma ne stabiliva il posto e la funzione nell’ordine naturale, che era allo stesso tempo un ordine morale di natura rituale: non c’era differenza tra il fiorire di un albero a primavera (l’adeguarsi alla stagione) e la benevolenza paterna o la pietà filiale (il conformarsi al rito). La via per “vedere il principio” passava per quello che Cheng Yi definiva “esame delle cose”, che consisteva soprattutto nel discutere le questioni morali; questa pratica avrebbe “esteso la conoscenza” gradualmente, fino a permettere di giungere con lo spirito laddove non potevano arrivare i sensi: all’intuizione di quale fosse il posto corretto di ogni cosa nell’ordine naturale. A questo scopo, nessuno strumento poteva essergli più congeniale dell’Yijing: i sessantaquattro esagrammi e i loro mutamenti corrispondevano per lui ad altrettanti esempi morali che l’antica sapienza permetteva di esaminare, così da «rettificare l’animo (xin) e rendere autentica l’intenzione» in ogni situazione della vita.
Zhu Xi: una sintesi “definitiva”?
Un secolo più tardi, la Cina settentrionale cadeva sotto l’occupazione dei Jurchen della Manciuria, mentre i Song si rifugiavano a sud e i loro letterati cercavano in tutti i modi di dare unità e solidità alla loro visione del mondo, per rinsaldare lo spirito della nazione contro la minaccia delle popolazioni nomadi; colui che vi riuscì fu Zhu Xi, l’unificatore del pensiero neoconfuciano, ricordato come la figura più influente del pensiero cinese dopo Confucio. La sua fu una sintesi programmatica di tutto ciò che il daoxue aveva prodotto, al punto che ne riscrisse la storia nei termini di un lignaggio artificiosamente costruito, promuovendo il concetto di “trasmissione legittima del Dao” improntato al modello della trasmissione dinastica del Mandato Celeste.
Il nucleo cosmologico della sua filosofia consisteva nel considerare il li (principio) e il qi (energia) come i due aspetti – costitutivo e funzionale – del taiji, assurto a origine primordiale di ogni polarità, sorgente tanto di ciò che è “antecedente alla forma” (il Dao) quanto di ciò che è “susseguente alla forma” (la realtà concreta). La polarità stessa diventava il concetto centrale, ricercata a tutti i livelli, dal più concreto al più astratto, e ne veniva sottolineato l’aspetto unitario e non dualistico, poiché ognuno dei due aspetti non poteva sussistere in assenza dell’altro; questa concezione poteva rendere conto anche dell’apparente paradosso per il quale lo stesso taiji, in quanto concetto (latente), poteva opporsi alla coppia di yin e yang, visti come moti dinamici del qi negli esseri (manifesti).
Ma ciò che importava maggiormente a Zhu Xi erano le implicazioni etico-sociali della sua impostazione. Parallelamente alla coppia polare li-qi, egli poneva al centro il binomio costituito dalla natura umana (xing) e dall’animo (xin). La prima era celeste, pertanto indiscutibilmente buona, e si identificava con il ren confuciano (il senso di umanità e benevolenza), che scaturiva spontaneamente come impulso primordiale; il secondo, attinente alla sfera fisica delle passioni e dei desideri, andava educato sia attraverso l’esercizio dell’esame delle cose (già promosso da Cheng Yi) sia con una ferrea disciplina comprendente diverse pratiche (quali ad esempio la meditazione seduta mutuata dal Chan e l’esame di coscienza quotidiano per iscritto). La coltivazione di sé rivestiva un ruolo centrale nella sua dottrina, il cui scopo a livello sociale era ristabilire la morale confuciana per mezzo dei riti, «le forme esteriori che manifestano il principio celeste».
Zhu Xi fu il principale istitutore della svolta rigorista che avrebbe segnato la mentalità cinese per i secoli a venire. Il suo intervento in ambito culturale fu determinante: i suoi numerosi commentari, pur non immediatamente riconosciuti, divennero dopo la sua morte i testi di riferimento per l’ortodossia accademica; accanto ai Cinque Classici, egli promosse l’inclusione di ulteriori Quattro Libri nel curriculum standard per gli esami mandarinali, che restò in vigore fino al xx secolo. La società cinese ne fu condizionata attraverso un processo di «catechizzazione del popolo, al quale veniva imposta una morale più stretta. A partire dall’xi-xii secolo si esercitò una più forte pressione sociale sulle donne, i giovani e, in generale, i subordinati». Questa impronta, come vedremo, si sarebbe estesa fino alla ricezione della cultura cinese in Occidente.
Per quanto riguarda il suo contributo all’Yijing, il secondo dei suoi due commentari, intitolato Yijing zhengyi (Il significato corretto del Libro dei Mutamenti), influenzò enormemente la successiva trasmissione del Classico. Grazie anche ai progressi delle tecniche di stampa, Zhu Xi corredò la sua edizione di numerosi schemi grafici mutuati dalla tradizione daoista, da quelli numerici risalenti all’epoca Han alle più recenti illustrazioni di Shao Yong, oltre a includervi per la prima volta le due disposizioni ottagonali degli Otto Trigrammi, che si erano diffuse nei secoli precedenti.
Dal dominio dei Mongoli alla restaurazione Ming
Nel 1279, una quarantina d’anni dopo aver soppiantato i Jurchen nel nord, i Mongoli del Gran Khan Kublai conquistarono infine anche la Cina meridionale, instaurando la loro propria “dinastia” Yuan. Pur riconoscendo ufficialmente l’ortodossia di Zhu Xi, relegarono i cinesi a ruoli subalterni, privando di fatto la classe letterata di ogni possibile influenza nella vita pubblica. Fu, d’altro canto, un periodo di grande multietnicità e contaminazione culturale, data la presenza di numerosi stranieri di provenienza diversa che i Mongoli impiegavano come supervisori nell’amministrazione. Tra questi figurò per un periodo anche Marco Polo, che ammirò la nuova capitale Khanbalik (l’odierna Pechino) e descrisse alcuni degli effetti del moralismo instaurato durante i Song, che gli occupanti avevano avuto cura di perpetrare.
Dopo un secolo di dominazione, i cinesi riuscirono a riprendere il controllo dell’impero e fondarono la nuova dinastia Ming. Fu un periodo di restaurazione e forte dispotismo, in cui dominò la scena un neoconfucianesimo di Stato volto a un controllo totale del pensiero e dei costumi; quella che veniva ormai chiamata la tradizione “Cheng-Zhu” alimentava il meccanismo implacabile degli esami imperiali, lasciando gli spiriti indipendenti, esclusi da ogni incarico, a una ricerca spirituale personale spesso improntata alla religiosità buddhista.
L’Yijing e i Classici, asserviti alla volontà di «esaltare e confermare la preponderanza della visione cinese del mondo», ornavano dei loro contenuti gli splendori dell’architettura imperiale nella nuova Pechino: dal Tempio del Cielo, con le sue geometrie simboliche, alla Città Proibita, dove sale e padiglioni prendevano il nome direttamente dagli esagrammi. Tra i simboli della sapienza tradizionale, uno in particolare fece la sua comparsa proprio all’inizio della dinastia: il taijitu (lo “Schema del Supremo Rivolgimento”) nella sua forma più recente, che sarebbe divenuta l’emblema stesso della cultura cinese: un cerchio diviso da una curva a s in due metà, una bianca e una nera, ciascuna con un punto del colore opposto al suo interno.
L’ultima dinastia
La dinastia Ming andò incontro a una progressiva disgregazione dovuta alla corruzione e alle numerose ribellioni. Gli sforzi attivi di alcuni gruppi di pensatori indipendenti, organizzati in accademie private e decisi, secondo lo spirito confuciano, a non rinunciare all’impegno per risanare la politica e la società, furono duramente repressi. Fu in questo periodo di violente lotte tra fazioni che l’Europa entrò per la prima volta a stretto contatto con la Cina: come vedremo nel prossimo capitolo, i missionari gesuiti sbarcarono in Asia nella seconda metà del xvi secolo, riuscendo in breve tempo a farsi strada fino alla corte imperiale. Infine i Manciù, eredi della stirpe dei Jurchen che continuavano a minacciare i confini nordorientali, approfittarono dell’ennesima rivolta e invasero Pechino nel 1644, instaurando la dinastia Qing, che avrebbe regnato fino alla caduta dell’impero avvenuta nel 1912.
Fu il crollo totale dell’ideologia imperiale e la crisi più violenta dell’intera storia cinese; molti letterati, già maldisposti verso il sistema corrotto che non aveva saputo difenderli dagli invasori, rifiutarono a caro prezzo di sottomettersi al nuovo regime, che aveva instaurato una stretta separazione delle due comunità, vietando inoltre ogni forma di critica al potere. Tra essi non possiamo non ricordare Wang Fuzhi per il suo forte interesse per il Libro dei Mutamenti: ne scrisse infatti due commentari ispirati da un pensiero originale e acuto, che furono censurati per i loro contenuti e pubblicati solo nel xix secolo. Wang Fuzhi recuperò la centralità del qi (l’energia vitale) sostenuta da Zhang Zai, fondando in esso l’unità di uomo e mondo e arrivando a identificarlo con il principio (li); negò inoltre con forza la dicotomia tra natura e animo umano sostenuta da Zhu Xi: principio celeste e natura umana erano indissociabili, in quanto provenienti dalla medesima origine (il qi stesso). Egli «operò una sintesi più convincente di quella dei suoi predecessori […] [integrando] nell’unità cosmologica del qi tutto ciò che la tradizione opponeva»: della polarità Yin-Yang sottolineò, più che la complementarità, la tensione creatrice interattiva, riconoscendo nel taiji il supremo equilibrio, sempre dinamico, tra le due forze, e definendo come “centro” (zhong) il luogo in cui tale equilibrio diviene possibile. Sorprendentemente moderno, il suo pensiero si fondava sullo studio «delle forze all’opera nell’universo naturale e nel mondo umano, che obbediscono sia all’ordine generale che è il principio, sia alle tendenze dominanti o linee di forza»; anche la morale doveva tener conto delle tendenze naturali alle quali era necessario adattarsi, tuttavia essa aveva lo scopo di «manifestare nell’uomo il modo di agire della natura»: ciò non era possibile se non attraverso i riti, capaci di «integrare i desideri nell’ordine umano» non sopprimendoli, ma aiutando a gestirli.
Purtroppo, non fu la visione lucida e indipendente di Wang Fuzhi a influenzare gli sviluppi della storia dell’Yijing. L’imperatore Kang Xi, desideroso di riconquistare l’appoggio dei letterati per consolidare il potere della dinastia, rimise mano ai Classici, che utilizzava citandoli continuamente per avallare le sue scelte e le sue imposizioni. Commissionò, tra le altre pubblicazioni, un’edizione dell’Yijing che uscì nel 1715 con il titolo significativo di Yuzuan Zhouyi zhezhong (Commentari imperiali equilibrati ai Mutamenti dei Zhou); fortemente improntata alla tradizione Cheng-Zhu, vi si arrivava a manipolare il significato di interi passaggi allo scopo di giustificare la sottomissione dei cinesi come basata sull’ordine naturale.
L’edizione imperiale di Kang Xi sarebbe stata la base per tutte le pubblicazioni sull’Yijing per più di tre secoli, così come delle principali traduzioni nelle lingue occidentali. In effetti, fu proprio dalla corte Manciù che il Libro iniziò il suo viaggio verso l’Europa, per il tramite dei gesuiti.
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