Cos’è uno stato di coscienza?



Perché è importante la meditazione e l’esplorazione dei nostri diversi stati di coscienza? Lo spiega Franco Fabbro.


In copertina e nel testo opere di Kiyoshi Yamashita


Questo testo è tratto da “Ipnosi e cervello sociale” di Franco Fabbro. Ringraziamo Mimesis per la gentile concessione.


di Franco Fabbro  

 

Ho in grande considerazione l’essere umano, non avendo mai fatto altro che studiarlo. […] Le scienze umane e sociali non detengono le risposte ultime e definitive: noi lavoriamo sulla superficie delle cose. Dietro vi sono realtà più profonde, di ordine biologico e neurologico.

Claude Lévi-Strauss

 

Numerose specie di organismi viventi presentano una variazione circadiana degli “stati di coscienza”. La maggior parte dei vertebrati di giorno sono svegli e di notte dormono. Nei mammiferi e negli uccelli il sonno presenta fasi di sonno a onde lente che si alternano con fasi di sonno paradosso (con sogni). Gli esseri umani durante la veglia possono presentare “stati non ordinari di coscienza” come la trance, l’estasi e l’ipnosi.

Il termine trance deriva dal latino transire, ovvero “passare”, “trapassare”, e si riferisce al passaggio dallo stato di coscienza ordinario a una dimensione “altra”. Da un punto di vista simbolico la trance è paragonata al “morire”, ovvero al passaggio tra la vita e la morte. Il punto di passaggio tra la coscienza ordinarie e la trance è rappresentato da una condizione di “crisi”, caratterizzata da tremore, agitazione e convulsioni, che costituisce il punto di transizione dalla condizione normale alla morte simbolica. La trance è un fenomeno collettivo, che viene raggiunto attraverso una sovrastimolazione sensoriale ottenuta con il canto, la musica (ad esempio il suono di tamburi) e la danza. Nella trance non è presente un “sé che osserva” quanto sta accadendo. Per questa ragione non è conservato alcun ricordo di quanto accaduto (amnesia). L’individuo è completamente identificato nell’azione. Le forme più note di trance sono: la trance da possessione e la trance di ispirazione o di comunione.

Il termine estasi deriva da una parola greca (ἔκστασις) collegata con l’esperienza di “uscire dal corpo” per innalzarsi in una diversa dimensione (spirituale) dalla quale contemplare ciò che accade. Diversamente dalla trance, l’estasi è una condizione raggiunta perlopiù attraverso la deprivazione sensoriale, ovvero mediante la solitudine, l’immobilità, l’oscurità e il silenzio. Una caratteristica distintiva dell’estasi è la presenza di un “sé osservante”: per questa ragione i soggetti in questo stato di coscienza sono in grado di osservare quanto sta accadendo e di ricordarlo successivamente. Le forme più note di estasi sono: l’estasi osservativa, dovuta a esperienze di uscita dal corpo (Out-of-Body Experience), oppure l’estasi dovuta all’uso di sostanze psichedeliche, alla meditazione di consapevolezza (mindfulness o sati) e alla meditazione unitiva (meditazioni che portano al samadhi).

I diversi “stati non ordinari di coscienza” possono essere considerati come punti di un continuum tra i due poli opposti dell’estasi e della trance. Come ha suggerito più di cinquant’anni fa Ronald Fischer, gli stati di trance sono collegati a una prevalente attivazione del sistema nervoso simpatico, mentre gli stati di estasi a una maggiore attivazione del sistema nervoso parasimpatico. Gilbert Rouget, nel suo famoso libro Musica e trance (1980), ha proposto di caratterizzare i due poli dell’estasi e della trance attraverso una serie di termini in opposizione tra di loro (tabella 1).

L’ipnosi, dal greco ὕπνος, “sonno”, è uno stato di coscienza non ordinario, spesso indotto in maniera artificiale, simile allo stato sonnambulico e al sonno, nel quale il soggetto esegue, in genere in maniera acritica e automatica, le suggestioni verbali suggerite dall’ipnotista. La coscienza del sé e la memoria possono essere alterate. Infatti, l’esperienza ipnotica è spesso seguita da una amnesia più o meno completa. Per questa ragione l’ipnosi viene considerata come uno stato non ordinario di coscienza vicino alla trance.

 

Tabella: Caratteristiche opposte degli stati di Estasi e Trance

Estasi

Trance

Immobilità

Movimento

Solitudine

Presenza di altre persone

Deprivazione sensoriale

Iperstimolazione sensoriale

Assenza di crisi

Presenza di crisi

Sé osservante

Possessione (dissociazione)

Ricordo degli eventi

Amnesia

Visioni

Assenza di visioni


La trance da possessione

Lo stato di trance provocato dalla “possessione” si manifesta in un contesto sociale, in presenza di altre persone, con una crisi iniziale caratterizzata da svenimenti, caduta a terra in preda a convulsioni, bava alla bocca, occhi fuori dalle orbite. L’individuo colpito dalla trance può presentare paralisi degli arti, insensibilità al dolore, alterazioni nella regolazione termica (essere caldo in un ambiente estremamente freddo o viceversa), respiro rumoroso e sguardo fisso. L’impressione è che il soggetto in stato di trance abbia perduto completamente qualsiasi capacità di memoria e di pensiero critico.

La persona nella trance presenta: i) una alterazione della relazione con il mondo e le persone circostanti; ii) alterazioni della coscienza (che riguardano la percezione, lo stato di coscienza e il comportamento); iii) una modificazione delle facoltà cognitive, orientate verso l’immaginazione; iv) la messa in atto di comportamenti osservabili dall’esterno. Da un punto di vista clinico la possessione è stata posta in relazione con alcuni stati psicopatologici, come la follia, l’isteria e la dissociazione.

La dissociazione è una condizione adattiva che si realizza in risposta a uno stress elevato, un grave pericolo o un trauma. Si caratterizza per una modificazione dello stato di coscienza, alterazioni della percezione, senso di irrealtà, distacco dall’ambiente, acutizzazione dei sensi, accelerazione o meno del pensiero e del senso del tempo, risveglio di ricordi sepolti, presenza di movimenti automatici o robotici, con successiva perdita della memoria collegata alla modificazione della coscienza.

Da un punto di punto di vista psicopatologico, la dissociazione è l’esito di un processo difensivo nel quale l’Io subisce una frammentazione. Siccome alcune esperienze sono troppo dolorose da sopportare (abusi fisici o sessuali), l’individuo impara a fuggire mentalmente da se stesso, immaginando che sia qualcun altro a essere picchiato o a essere violentato. In questo modo l’Io subisce una frammentazione. Mentre nel processo di rimozione l’Io sposta ciò che considera minaccioso al di fuori della consapevolezza, mantenendo intatto il senso di sé, nella dissociazione l’Io frammentato determina la formazione di diversi centri separati di consapevolezza (compartimentalizzazione della cognizione e memoria), cioè di diverse personalità, che in alcune occasioni possono manifestarsi prendendo il sopravvento sulle altre.

La dissociazione costituisce uno dei processi sottostanti al disturbo dissociativo dell’identità, un tempo chiamato disturbo di personalità multipla. Lo studio mediante tecniche elettrofisiologiche e di visualizzazione cerebrale dei processi dissociativi, in queste psicopatologie come pure in soggetti normali che si trovano in condizioni transitorie simili (come ad esempio l’ipnosi), ha evidenziato un aumento dell’attivazione delle strutture corticali e sottocorticali (lobo limbico), correlate all’attivazione emozionale, e una contemporanea disattivazione delle strutture prefrontali laterali coinvolte nel controllo dell’attività cognitiva (in particolare nei processi responsabili dell’inibizione, dell’attenzione volontaria e dell’autocoscienza).

Nelle esperienze classiche di possessione, descritte in numerose culture, inclusa quella occidentale cristiana, si ritiene che una divinità (un dio, un antenato, uno spirito, un demonio) prenda possesso del corpo dell’individuo, agendo al suo posto. In questa condizione il soggetto posseduto diventa, per un certo periodo di tempo, il dio stesso. Si tratta di una condizione in cui non si sceglie alcunché, ma si obbedisce. La possessione deriva da una decisione di uno spirito esterno al soggetto posseduto. Nei culti di possessione descritti in Etiopia da Antonio Palmisano sono stati identificati tre interlocutori principali: i) gli individui posseduti (l’individuo cavalcato dagli spiriti); ii) il maestro dell’esperienza o signore degli spiriti (che agisce come un medium o un interprete); iii) il gruppo dei credenti verso cui si indirizza l’azione della possessione, in quanto fenomeno eminentemente sociale.

Condizioni di trance collettiva, associate alle attività sessuali e all’assunzione di alcuni tipi di sostanze psicoattive, sono state descritte nell’antichità (culti dionisiaci) e nei gruppi etnici nativi dell’America meridionale. Un caso molto noto di possessione nella Francia cattolica del XVII secolo ha riguardato un gruppo di suore Orsoline del convento di Loudon, le quali ritenevano di essere possedute dal demonio. Questa vicenda storica ha ispirato la scrittura di un romanzo da parte di Aldous Huxley (I diavoli di Loudon, 1952) e la produzione di due film: Madre Giovanna degli Angeli diretto nel 1961 da Jerzy Kawalerowicz e I diavoli diretto nel 1971 da Ken Russell.

Oltre alla trance da possessione sono stati descritti altri due tipi di trance di natura mistica: la trance di ispirazione e la trance di comunione. Nella trance di ispirazione il soggetto non ha mutato personalità poiché non è stato completamente invaso dalla divinità. Uno dei casi più noti di questo tipo di trance è collegato all’effusione dello Spirito santo sul gruppo degli Apostoli nel giorno di Pentecoste: “Nello stesso giorno apparvero loro delle lingue di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro. Tutti furono pieni di Spirito santo e incominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”. Nella trance di comunione la relazione tra il soggetto e la divinità viene intesa come un incontro. Un esempio della trance di comunione è quella ottenuta dai mistici sufi durante la pratica dello dhikr.

Il canto glossolalico

L’invenzione di nuove lingue è un fenomeno molto diffuso e molto noto. Alcuni autori hanno suggerito di distinguere l’invenzione consapevole di nuove lingue da quella inconsapevole definita come glossolalia. Le condizioni più comuni nelle quali vengono inventate inconsapevolmente nuove lingue sono: la trance di possessione, il canto glossolalico e alcune gravi forme di psicopatologia. Nell’ambito dell’antropologia sono state riconosciute sei forme di espressione glossolalica: le lingue degli spiriti, le lingue degli animali, le lingue preglossolaliche, l’ermenoglossia, la glossopoiesi e la xenoglossia.

Le lingue degli spiriti sono dialetti esoterici conosciuti soltanto dagli spiriti, dal dio e dallo sciamano. Le culture all’interno delle quali vengono elaborate queste produzioni glossolaliche ritengono che si tratti della lingua che gli dèi parlano tra di loro. La lingua degli animali consiste in una particolare imitazione dei suoni emessi dagli animali. La capacità di parlare la lingua degli animali permette allo sciamano di avvicinarsi ai segreti della natura. Le lingue preglossolaliche sono dialetti misteriosi formati attraverso la monotona ripetizione di parole o cadenze melodiche accompagnate da gesti e movimenti particolari. Queste produzioni vengono in genere eseguite durante la trance.

L’ermenoglossia consiste nella produzione glossolalica prodotta da una persona in trance durante una cerimonia religiosa. Queste produzioni vengono tradotte da un interprete in modo che tutta l’assemblea possa capire. Si tratta di un fenomeno molto comune durante le celebrazioni liturgiche nelle comunità cristiane pentecostali. La glossopoiesi consiste nell’invenzione di lingue in uno stato di trance; e la xenoglossia si riferisce all’ipotetica capacità di esprimersi in lingue straniere senza averle mai né ascoltate, né tanto meno studiate.

Nell’ambito neurolinguistico la glossolalia è stata suddivisa in quattro forme principali: la glossolalia religiosa, la glossolalia prodotta in maniera volontaria, la glossolalia conseguente a malattie mentali e quella conseguente a malattie neurologiche. La glossolalia religiosa viene prevalentemente prodotta come “canto glossolalico” ed è associata all’improvvisazione e alla ripetitività. Poiché si tratta di un fenomeno molto contagioso, essa permette di indurre con facilità la trance collettiva mediante sincronizzazione delle menti attraverso il canto. La glossolalia prodotta volontariamente è simile alla glossolalia religiosa. Può essere prodotta da una qualsiasi persona cui viene richiesto di esprimersi in una lingua completamente inventata. Questa forma di espressione vocale libera, che non rimanda ad alcun significato (denominata in inglese nonsense speech) viene talvolta utilizzata nella cura della balbuzie.

Alcuni pazienti affetti da malattie psichiatriche presentano fenomeni verbali molti simili alla glossolalia religiosa. I monologhi glossolalici di questi pazienti sono in genere molto più lunghi di quelli collegati all’ispirazione religiosa. Questa alterata produzione verbale può manifestarsi in pazienti affetti da schizofrenia, i quali riferiscono di non essere realmente liberi nella loro espressione glossolalica, ma di sentirsi strumenti di una potenza superiore che li controlla e si esprime attraverso la loro bocca. La glossolalia può essere presente anche in pazienti con malattie neurologiche, in particolare in alcuni tipi di afasia fluente (glossolalia gergoafasica), oppure in pazienti affetti da epilessia del lobo temporale o con il morbo di Alzheimer.

Le basi neuropsicologiche del canto glossolalico sono state studiate mediante tecniche di visualizzazione cerebrale (SPECT) in un piccolo gruppo di donne comparando le produzioni glossolaliche con dei canti religiosi simili ma effettuati in lingua inglese. Il canto glossolalico si associava a una significativa riduzione dell’attività della corteccia prefrontale bilaterale, del corpo caudato e del polo temporale dell’emisfero sinistro. Questi risultati sono simili a quelli ottenuti nella trance dissociativa e confermano l’idea che il canto glossolalico sia una delle tecniche più efficaci per indurre uno stato di trance.

Il canto glossolalico è un comportamento vocale molto antico. Probabilmente esso veniva praticato da Homo sapiens molto prima dell’invenzione del linguaggio articolato (avvenuta, come è stato detto, circa 80.000 anni fa, cfr. cap. 1). È probabile che il canto glossolalico venisse utilizzato dagli ominidi e da H. sapiens per favorire la coesione sociale tra gli individui, sostituendosi alle attività di grooming presenti negli altri primati antropomorfi. Si tratta di un comportamento sociale in grado di collegare simultaneamente decine di persone, generando una sensazione di unità e benessere collegata a una transitoria inibizione delle attività di controllo critico elaborate dai lobi frontali.

 

La dissociazione

La dissociazione rappresenta una delle modalità di funzionamento della psiche più interessanti ed enigmatiche. La sua importanza fu evidenziata da Pierre Janet (1859-1947), medico e filosofo francese. In una delle sue prime ricerche Janet studiò una giovane paziente di diciannove anni, Lucie, che lamentava difficoltà motorie a un braccio associate ad anestesia della mano. Inoltre, Lucie era tormentata da ansia e accessi di terrore. Se interrogata, non sapeva spiegare l’origine dei suoi sintomi. Per comprendere l’origine dei suoi disturbi Janet impiegò la scrittura automatica. Questa tecnica consisteva nel mettere una penna nella mano insensibile della paziente e, mentre un collaboratore conversava con lei, Janet alle sue spalle le sussurrava delle domande. Lucie non sembrava accorgersi delle domande poste da Janet ma, senza interrompere la comunicazione con il collaboratore, incominciò a scrivere. Descrisse alcuni episodi in cui da bambina aveva provato intensa paura. Secondo Janet questi episodi di paura avevano frammentato la coscienza (dissociazione della sintesi mentale) e per questo il loro ricordo era stato segregato nell’inconscio. Sebbene Lucie non fosse capace di ricordare e raccontare questi episodi, la parte dissociata della sua mente era in grado di riportarli alla luce mediante la scrittura automatica.

Secondo Janet l’origine dei sintomi psicopatologici è dovuta alla presenza di pensieri e memorie inconsci che sono in relazione con una forte emozione. Poiché queste esperienze non riescono a essere integrate nella coscienza, esse vengono scisse o dissociate; tuttavia sono in grado di esercitare un’influenza nella vita di ogni giorno, ritornano a tormentare la mente e il corpo causando dei sintomi. Per tenere a bada queste memorie traumatiche la psiche del paziente impiega una notevole quantità di energia mentale, determinando una restrizione del campo della coscienza. Per comunicare con le componenti mentali non accessibili alla coscienza (dissociate), Janet utilizzò oltre alla scrittura automatica anche la tecnica del sonnambulismo ipnotico. Con questa tecnica studiò non soltanto l’origine dei sintomi, ma ideò una serie di strategie psicoterapeutiche atte a modificare la memoria degli episodi traumatici, cercando di facilitarne la guarigione. Egli riteneva che la psicoterapia dovesse comprendere due fasi: una prima fase dedicata all’analisi psicologica e una seconda fase dedicata alla sintesi psicologica. Una volta che il terapeuta aveva identificato quali parti della mente erano separate o dissociate, l’operazione successiva consisteva nella loro integrazione.

La dissociazione consiste in una disconnessione delle funzioni della coscienza, della memoria, dell’identità e della percezione solitamente integrate. Secondo Janet, quando una persona è sottoposta a un trauma (fisico o psichico) superiore alle sue capacità di sopportazione prova un dolore interiore crescente. Per non essere sopraffatto dalla sofferenza, a un certo punto le funzioni di controllo, critica e riflessione vengono disattivate. Il paziente non avverte più alcun dolore, ma inizia a manifestare un’ampia serie di disturbi che interessano l’azione, la volontà (apatia, abulia) e la memoria episodica (amnesia). La cessazione del dolore interiore e la comparsa di apatia, abulia e amnesia sono in relazione con una disattivazione transitoria del lobo prefrontale (cap. 32 e 40). La disattivazione delle “funzioni superiori” del lobo frontale determina una vera e propria esplosione di sintomi generati dalle “funzioni inferiori” (organizzate nel lobo limbico e nelle strutture sottocorticali), come ad esempio il restringimento del campo della coscienza, l’automatizzazione del comportamento, lo scatenamento di crisi convulsive, crisi di sonnambulismo e paralisi isteriche.

Le reazioni dissociative sono state correlate con le reazioni difensive degli animali sottoposti a un grave pericolo. Di fronte a una minaccia mortale, quando non è possibile la fuga, si è visto che gli animali attuano una risposta d’inibizione motoria (definita congelamento) unita a un blocco della sensibilità (perdita della sensibilità tattile, anestesia, anedonia). La reazione d’immobilizzazione disorienta il predatore, abituato a cacciare e uccidere animali in movimento, permettendo talvolta alla vittima di essere risparmiata. Negli esseri umani l’evento traumatico determina un blocco dell’apprendimento e della memoria episodica, con una sensibilizzazione delle memorie implicite (non consapevoli) riferite ai contesti della minaccia mortale. Dopo l’esposizione alla minaccia, gli individui tendono a rispondere in maniera esagerata a situazioni di stress precedentemente tollerate.

Negli esseri umani la dissociazione è una risposta difensiva a un trauma travolgente, che permette di ridurre l’ansia e il conflitto psicologico. Si associa a una serie di fenomeni psicologici specifici, ovvero automatizzazione del comportamento, alla compartimentalizzazione della coscienza e all’alterazione dell’identità personale. L’automatizzazione comprende episodi di comportamento automatico non controllato dalla coscienza. La compartimentalizzazione consiste nella separazione della memoria in aree non accessibili alla consapevolezza. La compartimentalizzazione offre a un individuo un meccanismo per segregare memorie emotivamente cariche. Isola gli affetti e i ricordi soverchianti. Tuttavia non è un meccanismo perfetto. Le emozioni e i ricordi collegati al trauma possono irrompere nella coscienza (ricordi intrusivi). Tutti i disturbi dissociativi provocano forme di alterazione dell’identità. I soggetti avvertono un senso ricorrente di distacco dal proprio sé, fino a fenomeni di fuga dissociativa o alla presenza di identità differenti nello stesso individuo (disturbo di personalità multipla).

Le cause più frequenti della sintomatologia dissociativa sono gli incidenti stradali, la guerra, i terremoti e gli episodi di violenza in età evolutiva (abusi fisici, emotivi e sessuali). Lo studio di soggetti sottoposti a episodi di abuso fisico e sessuale ha evidenziato che le vittime cercano prima di tutto di fuggire oppure di nascondersi. Se non è possibile la fuga, più del 90% degli individui presenta una reazione di congelamento (irrigidimento corporeo, paralisi o svenimento), analgesia, esperienze extracorporee e amnesia dissociativa. In una ricerca su 129 donne sottoposte a un abuso sessuale (documentato mediante valutazione al pronto soccorso) si è evidenziato che a diciassette anni dall’evento traumatico il 40% delle donne non ricordava più la violenza sessuale subita. La maggior parte delle persone con una storia di abuso sessuale presenta successivamente sintomi collegati all’amnesia, all’analgesia e all’insensibilità tattile.

Uno dei quadri dissociativi più noti è il disturbo dissociativo dell’identità (DDI) o disturbo di personalità multipla. Si tratta di una condizione clinica caratterizzata dalla disgregazione dell’identità in due o più personalità distinte. In alcune culture questa condizione viene descritta come una esperienza di possessione (cap. 11), ovvero come una intrusione involontaria di una personalità differente, fonte di disagio psicologico e compromissione comportamentale. Gli individui lamentano interruzioni della continuità del senso del sé, della consapevolezza di essere l’autore delle proprie azioni e amnesie dissociative ricorrenti. Le esperienze dissociative possono essere osservate da terzi o riferite dal paziente. Un aspetto fondamentale del disturbo è l’irruzione improvvisa e involontaria delle esperienze dissociative. Il rischio di suicidio è molto alto, infatti più della metà dei pazienti tenta di suicidarsi.

 

L’estasi sciamanica

Lo sciamanesimo è una tipologia religiosa molto diffusa e arcaica. Essa si caratterizza per la presenza di uno specialista dell’estasi, lo sciamano. Durante lo stato di estasi si ritiene che lo sciamano compia un “volo magico” che gli permette di ascendere al cielo o di discendere negli inferi per incontrare delle entità spirituali con cui allearsi o combattere in modo da procurare salute, fertilità e integrità fisica e psichica per la persona o la comunità per la quale opera. Uno sciamano è dunque un individuo che durante l’estasi è in grado di incontrare gli spiriti, ovvero di porsi in relazione con entità soprannaturali positive o negative. Si tratta di una persona dotata di un grande equilibrio poiché è in grado di indurre e di controllare la modificazione degli stati di coscienza all’interno delle sedute sciamaniche.

L’antropologo russo Sergej Shirokogoroff ha riportato una vivida descrizione di una seduta sciamanica presso i manciù-tungusi. Durante questa seduta il ritmo della musica e del canto coinvolgeva lo sciamano e tutti i partecipanti all’interno di una dimensione mentale collettiva. Mentre il ritmo dell’azione cresceva, lo sciamano usciva fuori del mondo ordinario in modo da poter incontrare gli spiriti. L’uditorio sentiva che lo sciamano era in estasi e questo fatto tratteneva i partecipanti dall’entrare in una forma di estasi collettiva. Quando lo sciamano sentiva che l’uditorio partecipava al suo stato di coscienza egli diventava più attivo e l’effetto veniva ritrasmesso ai partecipanti. Una volta terminata l’esperienza estatica l’uditorio era in grado di ricordare quanto era accaduto: l’emozione psicologica provata e le allucinazioni visive e uditive sperimentate. I partecipanti provano una profonda soddisfazione, chi assiste a una seduta sciamanica partecipa e agisce contemporaneamente.

Poiché l’estasi è la caratteristica centrale dello sciamanesimo, gli uomini e le donne di conoscenza dedicano una particolare attenzione alle procedure d’induzione. Esse sono sviluppate con una grande raffinatezza e presentano caratteristiche costanti in numerose culture. Una delle modalità più diffuse d’induzione è costituita dalla esecuzione di attività motorie ripetitive. Ad esempio, una determinata danza che presenta una ripetizione stereotipata di movimenti mantenuta per ore o giorni (come ad esempio la “danza del Sole” presso alcune tribù di nativi d’America o le danze dei boscimani del Kalahari). Una seconda tecnica molto utilizzata è la stimolazione sonora ripetuta. Attraverso l’utilizzazione di strumenti a percussione (come il tamburo) e mediante il canto ripetitivo vengono attivati i centri cerebrali che modificano lo stato di coscienza. Anche il canto viene utilizzato per sincronizzare le strutture mentali al fine di generare una sorta di mente collettiva.

L’estasi sciamanica può essere raggiunta anche con l’ausilio di sostanze psicoattive. In un primo momento Mircea Eliade (1907-1986), uno dei più grandi studiosi dello sciamanesimo, ha sostenuto che l’uso di sostanze psicoattive nell’induzione dell’estasi sciamanica rappresentava soltanto un surrogato dell’estasi pura che veniva ottenuta senza l’ausilio di sostanze. Egli riteneva si trattasse di un’innovazione recente, la quale poteva rappresentare una sorta di decadenza della tecnica sciamanica. “Si è cercato di imitare con una ebbrezza a base di droghe uno stato spirituale cui non si era più capaci di giungere in altro modo”. Tuttavia, in tarda età Eliade cambiò idea. Si convinse che l’estasi sciamanica in origine era ottenuta mediante l’utilizzazione di alimenti sacri (psicoattivi), mentre la messa a punto di altre tecniche, come ad esempio la danza, il canto e il digiuno, rappresentavano modalità più recenti di induzione dell’estasi.

La trance di possessione e l’estasi sciamanica si differenziano per alcune caratteristiche distintive. Nella trance da possessione uno spirito estraneo (una divinità) prende possesso dell’individuo, mentre nell’estasi sciamanica l’individuo compie un viaggio nel mondo degli spiriti. L’estasi sciamanica è l’esito di una decisione volontaria da parte dello sciamano, mentre la trance da possessione non dipende da una decisione volontaria. Nella trance da possessione l’individuo non controlla l’entità che si è impossessata della sua mente e del suo corpo, invece lo sciamano è in grado di dominare le entità spirituali che incontra durante il suo viaggio terapeutico e di conoscenza (cfr. tabella 1).

Le esperienze extracorporee

Nelle esperienze extracorporee (Out-of-Body Experience: OBE) il soggetto ha l’illusione di abbandonare il proprio corpo fisico e di muoversi fuori di esso. In queste circostanze il soggetto crede che il vero sé non risieda più nel corpo fisico, bensì nel suo doppio etereo. Questo secondo corpo viene di solito descritto come privo di peso ma dotato di un’estensione spaziale. Esso presenta le caratteristiche che in numerose culture sono state attribuite al concetto di anima. Per questo motivo il filosofo tedesco Thomas Metzinger ritiene che le esperienze di uscita fuori dal corpo siano alla base dell’origine del concetto di anima.

La fenomenologia delle esperienze di uscita dal corpo è molto complessa. Alcuni soggetti avvertono che il loro doppio esce fuori dalla testa (12%), in genere l’uscita avviene in posizione supina. L’atto di lasciare il proprio corpo può avvenire bruscamente (47%), lentamente (22%) oppure molto lentamente (15%). In alcuni casi l’esperienza dura meno di un minuto (10%), in altri almeno cinque minuti (40%). La maggior parte dei soggetti (60%) riferisce di osservare il proprio corpo dall’esterno, mentre galleggiano sospesi nell’aria. La stessa percentuale è in grado di controllare i movimenti del doppio etereo. Nel 70% dei soggetti la visione è la modalità sensoriale prevalente.

Le esperienze di uscita dal corpo possono capitare frequentemente durante un’esperienza ai confini della morte (Near-Death Experience), oppure nelle prime fasi del sonno o durante un sogno lucido. Circa il 10% della popolazione normale ha avuto nella sua vita un’esperienza di uscita fuori dal corpo. Questa percentuale cresce negli studenti (25%), nelle persone che credono alle esperienze paranormali (50%) e nei soggetti affetti da gravi malattie psichiatriche (40%). I fenomeni di uscita fuori dal corpo possono manifestarsi durante crisi di epilessia del lobo parietale destro.

Un gruppo di neuroscienziati, coordinati da Olaf Blanke, ha studiato le basi neurologiche dell’esperienza di uscita fuori dal corpo, che è stata considerata come una forma complessa di allucinazione vestibolare-motoria. Questi ricercatori sono riusciti a localizzare con precisione la struttura cerebrale correlata ai fenomeni di OBE. Durante un intervento chirurgico, su di una paziente di quarantatré anni affetta da una epilessia del lobo parietale destro incurabile ai farmaci, sono state evocate, mediante microstimolazioni elettriche, delle brevi crisi epilettiche correlate ai fenomeni di OBE. La stimolazione del “giro angolare destro” produceva ripetute esperienze di uscita dal corpo. Le prime stimolazioni, con intensità di 2-3 milliampere, producevano l’impressione di “sprofondare nel letto” o di “cadere dall’alto”. Le successive, con un’intensità di 3,5 milliampere, provocarono vere e proprie esperienze di uscita dal corpo: “Ora dall’alto vedo me stessa in alto distesa”. Queste impressioni erano associate alla sensazione di “fluttuare circa due metri sopra il letto, molto vicina al soffitto”, in una condizione di “luce diffusa”.

L’esperienza di uscita dal corpo è una delle condizioni più note di estasi, dato che il termine greco ἔκστασις (latino ex-stasis) significa “essere fuori”. Uno degli aspetti più significativi dell’estasi e delle OBE è la capacità di “osservare” (vedere) quello che sta accadendo durante l’esperienza. L’individuo non è né posseduto, né ospita uno spirito o una divinità altra. Egli osserva dal di fuori il proprio corpo e le altre persone attorno a lui. Ciò che caratterizza l’estasi e l’esperienza di uscita dal corpo è la presenza di un “io osservatore”.

 

L’estasi indotta da sostanze psicoattive

L’utilizzazione di sostanze psicoattive per facilitare il raggiungimento di uno stato di estasi è stata documentata in numerose culture umane fin dall’antichità. Dati archeologici indicano che più di 10.000 anni fa le popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell’America del Nord utilizzavano i semi della Sophora secundiflora per modificare il loro stato di coscienza. Ricerche condotte nelle grotte francesi e della penisola iberica indicano che molte delle pitture rupestri (datate da 37.000 a 11.000 anni fa) furono probabilmente eseguite sotto l’effetto di sostanze psicoattive. Le sostanze psicoattive collegate più frequentemente alle esperienze di estasi sono: l’oppio, la Cannabis sativa, l’Amanita muscaria, la Claviceps purpurea, la Coca, il Peyotl, l’Ayahuasca e alcuni funghi del genere Psilocybe. La modificazione degli stati di coscienza prodotti dall’assunzione di queste sostanze rientra nell’ambito dell’estasi poiché durante l’esperienza permane un “sé osservante”, che è in grado di assistere all’esperienza e di ricordarla.

Una delle sostanze psicoattive più note è l’oppio. Esso viene estratto del Papaver somniferum mediante incisione verticale o orizzontale della capsula. Il lattice rappreso che fuoriesce da queste incisioni assume un colore scuro e viene chiamato oppio (όπιον). Si ritiene che le proprietà psicotrope dell’oppio siano state utilizzate nell’Europa centro-occidentale già dal tardo neolitico. Le funzioni psicoattive dell’oppio sono collegate alla morfina e alla codeina in esso contenute. Questi due alcaloidi sono sostanze agoniste delle endorfine (una serie di neurotrasmettitori naturali prodotti dal cervello). L’assunzione per via orale di una dose moderata di morfina (5-10 mg) produce: i) una sensazione di sollievo, nella quale il dolore continua a essere avvertito ma in maniera distaccata (non partecipativa), ii) una riduzione del ritmo respiratorio e iii) una costrizione pupillare. A livello soggettivo l’individuo ha difficoltà di concentrazione, tende a ritirarsi, ad addormentarsi e a sognare. Con dosi di morfina più elevate, assunte mediante inalazione o per via endovena, possono manifestarsi veri e propri stati di estasi e di euforia.

La cannabis sativa è stata utilizzata da millenni come pianta psicoattiva. Dati archeologici hanno evidenziato che l’uso della canapa risale a più di 8.000 anni fa. Essa è stata utilizzata per scopi medici e religiosi da numerose popolazioni del Medio e dell’Estremo Oriente (Indiani, Assiri e Sciiti). In Asia centrale sono stati trovati tripodi e bracieri risalenti al VI-IV secolo a.C. nei quali veniva bruciata la cannabis. Questo costume è stato descritto anche da Erodoto (484-425 a.C.). La sostanza psicoattiva della cannabis sativa è il Δ9-tetraidrocannabinolo (THC), che si comporta come un agonista degli endocannabinoidi (neurotrasmettitori prodotti dal cervello). Nella fase iniziale dell’assunzione della cannabis il soggetto può avvertire una lieve vertigine, spesso vengono provate sensazioni di formicolio in diverse parti del corpo. In seguito può comparire euforia e disinibizione, spesso si manifesta la tendenza a ridere. Per dosi sufficientemente elevate di principio attivo, il soggetto può avvertire un profondo senso di calma e rilassamento, mentre a livello cognitivo sperimenta una condizione simile a un sogno a occhi aperti, con sensazioni di fluttuazione nello spazio, illusioni visive e l’impressione di vivere in un eterno presente. In alcuni soggetti l’assunzione di THC può produrre condizioni di intensa ansia e paura, fino a produrre veri e propri episodi psicotici.

Una delle tecniche per raggiungere l’estasi più diffuse nell’antichità prevedeva l’utilizzazione di Amanita muscaria. Si tratta di un fungo utilizzato fin dall’antichità dagli sciamani siberiani, dai nativi americani e da numerose culture indo-iraniane. Studi di etnobotanica suggeriscono che l’amanita muscaria fosse il componente principale del Soma, la pianta sacra dei Rig Veda, Quindi anche l’Haoma, utilizzato nell’antico Iran da Zarathustra, era probabilmente lo stesso tipo di fungo. John Marco Allegro ha posto in relazione l’Amanita muscaria con alcune esperienze spirituali del cristianesimo delle origini. I funghi Amanita muscaria, prima di essere consumati, venivano essiccati e quindi reidratati immergendoli nel latte, nel vino o in altri liquidi. L’assunzione da uno a quattro funghi può provocare all’inizio lievi sintomi nervosi e gastrointestinali, come tremori, vertigini, stanchezza e nausea; in seguito l’individuo avverte una forte tendenza a ridere, schiamazzare, cantare e parlare con estrema loquacità. Questi comportamenti sono accompagnati da disinibizione motoria, anomalie della percezione (micropsia) e visioni. Il più importante principio attivo dell’A. muscaria è il muscimolo, una sostanza agonista del recettore dell’acido γ-aminobutirrico (GABA).

La claviceps purpurea è un fungo in grado di infestare le graminacee. In Italia contamina soprattutto la segale ed è conosciuto come segale cornuta, mentre in Francia è stato chiamato ergot. Nella segale cornuta e nell’ergot sono stati identificati numerosi alcaloidi derivati dall’acido lisergico. Alcuni di questi hanno proprietà vasospastiche (ergotamina), altri hanno proprietà psicoattive (ergonovina, ergonovinina). Gli alcaloidi naturali della segale cornuta e quelli di sintesi, come la Dietilamide dell’Acido Lisergico (LSD) (attiva a dosaggi molto bassi, ovvero di 50-100 microgrammi), sono in grado di produrre intensi fenomeni psichedelici noti come viaggi estatici (trip). Nelle prime fasi dell’esperienza dopo 30-90 minuti dall’assunzione dell’LSD l’individuo assiste all’intensificarsi dei colori e alla comparsa di figure geometriche quando chiude gli occhi. Dopo 2-3 ore si trova in uno stato di estasi caratterizzato da intense visioni, sensazione di trovarsi in un mondo sospeso e splendente dove il tempo si è notevolmente rallentato. In alcuni casi gli individui possono vivere una profonda esperienza mistica (good trip), in altri può manifestarsi intensa ansia e paura (bad trip). L’esperienza si conclude entro 6-12 ore. L’azione degli alcaloidi psicoattivi della segale cornuta e dell’LSD è collegata a una drastica diminuzione della serotonina, dovuta a una disattivazione dei nuclei del raphe (situati nel tronco dell’encefalo). La brusca diminuzione di serotonina è in grado di generare uno stato di coscienza simile al sogno.

La cocaina è un alcaloide che si ottiene delle foglie della pianta Erythroxylon coca. Le regioni in cui questa pianta cresce spontaneamente sono la Colombia, il Perù e la Bolivia. Gli esseri umani hanno incominciato a masticare le foglie di coca per scopi rituali più di 3.000 anni fa. La percentuale di cocaina contenuta nelle foglie di coca varia dallo 0,6 all’1,8% del loro peso. La masticazione delle foglie di cocaina provoca una sensazione di euforia, benessere, energia e innalzamento dell’autostima. L’inalazione o l’assunzione per via endovenosa della cocaina può dare luogo a sensazioni di piacere paragonabili a un intenso orgasmo. Il medico e antropologo italiano Paolo Mantegazza (1831-1910) ha descritto dei veri e propri stati di estasi in seguito all’assunzione di questa sostanza psicoattiva. “Quando un quarto d’ora dopo aver preso le ultime due dramme [di cocaina] incominciai a chiudere involontariamente le palpebre e la più splendida e inaspettata fantasmagoria incominciò a passarmi davanti agli occhi. Io avevo in quel momento una piena coscienza di me stesso, ma mi pareva di essere isolato dal mondo esterno e vedevo le immagini più splendide di colore e di forme che mai si possano immaginare. […] Presto caddi in un vero delirio il più gaio del mondo, ma nel quale non avevo perduto affatto la coscienza, perché stendeva la mano al mio amico affinché mi toccasse il polso che era di 134 battute”. Il meccanismo d’azione della cocaina consiste nel blocco della ricaptazione presinaptica di tre neurotrasmettitori: la dopamina (DA), la noradrenalina (NA) e la serotonina (5-HT).

Il peyotl è un piccolo cactus (Lophophora williamsii) che cresce nelle regioni secche del Messico settentrionale e in alcune regioni del sud degli Stati Uniti. Si tratta di una pianta considerata sacra da numerose popolazioni native. Il termine peyotl è di origine azteca e si riferisce al cactus come pianta medicinale e sacra. L’azione psicoattiva del peyotl dipende da più di una trentina di alcaloidi diversi, di cui il più significativo è la mescalina. Esso ha una struttura simile alla noradrenalina e ad altri stimolanti allucinogeni come feniletilammina. La dose attiva della mescalina per via orale è di 0,5-0,8 grammi e corrisponde all’assunzione di alcuni cactus. L’ebbrezza mescalinica comporta due fasi ben distinte: la prima consiste in una condizione di eccitazione generale, contentezza ed euforia. A questa prima fase ne segue una seconda caratterizzata da “dolce languore”, nella quale l’individuo può manifestare uno scoordinamento motorio e avvertire un senso di vertigine. Il soggetto è cosciente, ma in uno stato onirico, se chiude gli occhi comincia a essere assalito da allucinazioni colorate costituite da forme geometriche e complesse visioni che cambiano continuamente d’aspetto e di colore. È presente una perdita delle coordinate spaziali e temporali, insieme a sentimenti di smaterializzazione e di sdoppiamento della personalità, che hanno portato gli indios a ipotizzare l’esistenza di un’anima indipendente dal corpo.

L’ayahuasca è una bevanda sacra utilizzata in numerose culture indigene dell’America meridionale. Essa è stata utilizzata per scopi religiosi e terapeutici. Due piante costituiscono gli elementi essenziali della bevanda: la liana Banisteriopsis caapi, che fornisce l’armalina, mentre le foglie di Psychotria viridis contengono la dimetiltriptamina (DMT) che è la sostanza psicoattiva fondamentale. Per ogni 100 millilitri di bevanda sono presenti circa 50 milligrammi di DMT e 340 milligrammi di armalina. Gli effetti fisici e psicologici possono essere rilevati dopo circa 45 minuti dall’assunzione e raggiungono un picco dopo due ore, per poi diminuire gradualmente fino a scomparire dopo 6-8 ore. Molto spesso il primo sintomo è una sensazione di vomito. Quando la sostanza inizia la sua azione, l’individuo avverte con maggiore intensità i colori dell’ambiente e sperimenta una condizione di benessere e bellezza. Se chiude gli occhi, appaiono visioni caratterizzate da coloratissimi disegni geometrici, simili alle vetrate delle cattedrali gotiche, fino a vere e proprie scene con animali quali draghi, serpenti e giaguari. Tali scene scompaiono all’apertura degli occhi. Talvolta il tempo rallenta fino a una sensazione di eterno presente. La DMT agisce come un agonista della serotonina, la sua azione è simile a quella della psilocibina e dell’LSD.

L’inebriamento mediante l’assunzione di funghi sacri è uno dei riti religiosi più caratteristici delle culture mesoamericane. Gli Aztechi chiamavano alcuni piccoli funghi dallo stelo sottile e dalla piccola cappella rotonda teonanácatl, ovvero “carne o cibo degli dèi. Si tratta di alcuni funghi del genere Psilocybe (Psilocybe mexicana, Psilocybe cubensis, Psilocybe Caerulescens) i quali crescono su una grande varietà di substrati organici come l’humus, il legno marcio, la torba, il muschio e il letame. Albert Hofmann ha descritto gli effetti di un’assunzione di alcuni esemplari essiccati di Psilocybe mexicana (pari a 2,4 grammi di funghi secchi) con le seguenti parole: “Sia che i miei occhi fossero chiusi o aperti, potevo scorgere soltanto motivi e colori messicani. […] All’apogeo dell’inebriamento – un’ora e mezza circa dall’ingestione dei funghi – l’affollamento delle immagini interiori, perlopiù motivi astratti in continua modificazione strutturale e cromatica, raggiunse un livello così allarmante che temetti di precipitare dentro questa spirale di forme e colori e infine dissolvermi. Dopo circa sei ore lo stato onirico giunse a conclusione”. Alla fine degli anni Cinquanta, Hofmann identificò la Psilocibina come principale alcaloide attivo dei funghi sacri messicani. La dose efficace di psilocibina in grado di produrre effetti psicoattivi varia da 6 a 12 milligrammi. Il suo meccanismo d’azione è simile a quello dell’LSD, ma cento volte meno potente.

 

L’eccitazione sessuale e l’orgasmo

L’eccitazione sessuale è una condizione mentale caratterizzata da euforia, piacere e diminuzione del senso critico che precede e accompagna l’atto sessuale, il quale in genere culmina con l’orgasmo (condizione che nel maschio si accompagna all’eiaculazione). Dato che i rapporti sessuali sono piuttosto frequenti negli esseri umani adulti, l’eccitazione sessuale e l’orgasmo costituiscono degli stati non ordinari di coscienza molto diffusi.

Lo studio di diverse specie di mammiferi ha permesso di chiarire le modificazioni nervose ed endocrinologiche che si correlano all’eccitazione sessuale. Due sostanze chimiche sono collegate in maniera particolare con l’eccitazione sessuale: il testosterone e la dopamina. Il “testosterone” è un ormone androgeno che svolge una serie di funzioni essenziali nel comportamento sessuale. Nel maschio è coinvolto nella funzione erettile, mentre nella femmina interviene nell’ingrossamento del clitoride e nella lubrificazione vaginale. Le fantasie sessuali, sia nei maschi sia nelle femmine, sono in grado di aumentare il livello di testosterone circolante, mentre la riduzione di questo ormone è associata con una diminuzione del desiderio sessuale (libido).

La seconda sostanza chimica coinvolta nell’eccitazione sessuale è la “dopamina”. Si tratta del principale neurotrasmettitore dei “sistemi della ricompensa”. La dopamina viene liberata da un nucleo del tronco dell’encefalo (area tegmentale ventrale) che invia un fascio di fibre nervose ai gangli della base (nucleo accumbens), al setto, all’amigdala e ad alcune strutture del lobo frontale (corteccia prefrontale mediale, corteccia anteriore del cingolo, regione orbito-frontale). Molte sostanze psicoattive provocano un aumento della dopamina nel nucleo accumbens (marijuana, morfina, ecstasy) ma soprattutto la cocaina agisce sui neuroni del circuito della ricompensa determinando un aumento significativo della dopamina nel cervello (e in misura minore della noradrenalina).

Nei mammiferi maschi (ratti) l’esposizione di una femmina in estro produce un aumento della dopamina. Questo neurotrasmettitore presenta un marcato aumento durante tutto il rapporto sessuale, con una brusca diminuzione quando il rapporto termina. Siccome la cocaina determina un aumento del desiderio, delle performance e del piacere sessuale, essa viene considerata dagli esseri umani come una delle più potenti sostanze afrodisiache. Tuttavia l’utilizzazione cronica di questa droga sortisce un effetto opposto, provocando inibizione del desiderio e del piacere sessuale oltre ad alterazioni nell’eiaculazione.

I correlati neurali dell’eccitazione sessuale sono stati studiati attraverso i metodi delle neuroscienze (analisi di pazienti con lesioni cerebrali, tecniche di stimolazione e di visualizzazione cerebrale). In questo modo è stato possibile documentare il coinvolgimento nell’eccitazione sessuale di numerose strutture del cervello, come: il tronco dell’encefalo, i gangli della base (nucleo accumbens), l’ipotalamo, l’amigdala, l’insula e alcune aree del lobo frontale (regione orbito-frontale e corteccia anteriore del cingolo). Questi studi hanno permesso di chiarire in particolare il ruolo svolto dal lobo prefrontale nell’inibizione dell’eccitazione sessuale. Ciò significa che l’eccitazione sessuale è possibile grazie a una disattivazione transitoria dell’attività di alcune strutture del lobo frontale (come accade nella trance da possessione, nel canto glossolalico e negli stati dissociativi, cfr. cap. 11, 13 e 14).

L’orgasmo, culmine dell’attività sessuale, è una condizione di euforia e intenso piacere, che nell’uomo si associa in genere all’eiaculazione, e in entrambi (maschi e femmine) si correla a una modificazione dello stato di coscienza e a contrazioni muscolari involontarie della muscolatura genitale e del pavimento pelvico. Di solito l’orgasmo è seguito da sensazioni di rilassamento e torpore collegati con il rilascio di alcuni neurotrasmettitori come le endorfine, gli endocannabinoidi, l’ossitocina, la serotonina e la prolattina. Le endorfine e la prolattina intervengono nella generazione delle sensazioni di gratificazione sessuale; nello stesso tempo sono coinvolte nell’inibizione dell’attività dei neuroni dopaminergici (la quale blocca per un certo periodo la ripresa dell’eccitazione sessuale). Un aspetto particolarmente interessante dell’orgasmo è la sua capacità di ridurre il dolore (ad esempio facendo passare il mal di testa). Infatti, l’orgasmo è un potente analgesico e la sua efficacia è dovuta alla liberazione di endorfine, un gruppo di sostanze chimiche che hanno un’azione simile alla morfina.

Diverse ricerche di neuroscienze hanno permesso di identificare le strutture nervose correlate con l’orgasmo. Nei maschi l’orgasmo determina: i) un aumento dell’attività nel cervelletto (nucleo dentato e verme anteriore) e nel talamo ventrolaterale; e ii) una diminuzione dell’attività della corteccia prefrontale. Nelle donne l’orgasmo si correla con i) un’attivazione di alcune strutture del tronco dell’encefalo, del cervelletto (nuclei profondi), dei gangli della base (caudato destro) e dell’ippocampo; e ii) una disattivazione di alcune strutture della neocorteccia (corteccia orbito-frontale, giro temporale inferiore, polo temporale anteriore). Un aspetto significativo di queste ricerche si riferisce alla conferma della natura inibitoria che alcune strutture del lobo frontale (corteccia prefrontale dorso-laterale e regioni orbito frontali) esercitano sia sull’eccitazione sessuale sia sull’orgasmo.

Diversamente dalla maggior parte delle scimmie antropomorfe, che copulano davanti agli altri componenti del gruppo, gli esseri umani preferiscono rapporti sessuali lontano da occhi indiscreti. Tuttavia, vi è un’importante eccezione costituita dall’orgia, che Francesco Alberoni ha proposto di classificare come una forma di “comunismo erotico”. Nell’orgia, come nella trance da possessione, l’eccitamento collettivo tende a far scomparire la dimensione individuale. L’orgia determina una modificazione della coscienza che permette ai componenti di essere a disposizione di tutti; ciò è possibile perché in questa condizione gli individui tendono ad annullare ogni ritrosia di natura sessuale. L’orgia è stata praticata in numerosi culti religiosi antichi (ad esempio nei culti dionisiaci) e da parte di alcuni movimenti politici e psicoterapeutici moderni (come ad esempio le comunità hippy, alcune comuni anarchiche, la comune reichiana di Bryn Athin e la comune di Sandstone fondata da John Williamson). Alberoni nel suo libro L’erotismo (1986) ha analizzato le similitudini condivise dall’eccitamento erotico delle orge e dagli stati modificati di coscienza che caratterizzano l’eccitamento collettivo delle folle e la trance ipnotica.

La meditazione di consapevolezza (sati)

La meditazione di consapevolezza rappresenta il settimo passo dell’ottuplice sentiero (sammā sati), una tecnica di meditazione insegnata dal Buddha più di 2.500 anni fa. La parola “sati” è stata tradotta in italiano come “consapevolezza” e in inglese come “mindfulness”. “Sati significa tenere a mente o richiamare alla mente. Sati è la capacità di non perdere il filo”. Il Buddha insegnò come praticare la meditazione di consapevolezza nel Grande discorso sui fondamenti della presenza mentale. In questo discorso delineò i principali fondamenti nei quali esercitare la presenza mentale: il corpo, le sensazioni, la mente.

La pratica della presenza mentale inizia con la consapevolezza del respiro (ānāpānasati), che costituisce una delle forme più semplici e dirette di consapevolezza del corpo. Si tratta di diventare consapevoli (sati) dell’inspirazione (ānā), dell’espirazione (pāna) e delle pause tra le due fasi. Da un punto di vista pratico questa meditazione consiste nel focalizzare l’attenzione sulle sensazioni provocate dall’aria che entra ed esce dalle narici. Durante ānāpānasati il respiro non deve essere controllato, ma spontaneo. L’attenzione volontaria deve essere posta sulla fase della respirazione, sulla sua durata, sulle pause e sulle sensazioni provocate dall’aria che transita attraverso le narici.

La profondità e la velocità del respiro sono influenzate sia dallo stato emotivo sia dai pensieri. Poiché la mente non riesce a stare ferma, dopo un certo periodo (dopo alcune decine di secondi), i meditatori si possono accorgere di essere stati “catturati” da un pensiero, una preoccupazione, una fantasia oppure un ricordo. Infatti, la nostra mente tende a distrarsi di continuo. Quando un individuo si accorge di essersi perduto nei pensieri, nelle immagini, nei ricordi, ecc., avendo recuperato la lucidità, senza irritarsi, con fermezza e gentilezza, ritorna a focalizzare l’attenzione sul respiro. La meditazione di consapevolezza è un ciclo continuo in cui il meditante “focalizza l’attenzione”, “perde l’attenzione” (identificato nei pensieri, immagini, ricordi, ecc.), “riconosce di aver perduto l’attenzione” (sati), “ritorna a focalizzare l’attenzione sul respiro” con un atteggiamento gentile e un sorriso lieve sulle labbra.

La stessa procedura viene applicata durante la contemplazione delle sensazioni che originano dalle diverse parti del corpo (arti inferiori, addome, torace, arti superiori, testa). Secondo il Buddha quando avvertiamo uno stimolo qualsiasi (sensoriale, pensiero o emozione) siamo stati abituati a etichettarlo come piacevole, spiacevole o neutro e a reagire di conseguenza. Si tratta di tre sfumature affettive che condizionano tutto il funzionamento della mente. Di fronte a una sensazione considerata piacevole reagiamo sviluppando “desiderio”, nel caso di sensazioni considerate spiacevoli reagiamo sviluppando “avversione”, mentre “ignoriamo” le sensazioni che consideriamo neutre.

Il terzo compito della meditazione di consapevolezza riguarda la contemplazione degli stati della mente. Si tratta di osservare con consapevolezza quanto accade nella mente. A un certo punto ci rendiamo conto della presenza di una preoccupazione (1). Osserviamo l’origine, la manifestazione e la scomparsa di questa preoccupazione, sostituita da un ricordo (2). Osserviamo l’origine, la manifestazione e la scomparsa di questo ricordo, sostituito da un’immagine (3). Osserviamo l’origine, la manifestazione e la scomparsa di questa immagine, sostituita da un pensiero (4). Mentre osserviamo questo pensiero (4) ricordiamo che nella nostra mente si sono precedentemente succedute: una preoccupazione (1), un ricordo (2), un’immagine (3) e così via. Infatti, la parola sati in sanscrito è collegata al “ricordo di sé”.

Il cuore degli insegnamenti del Buddha consiste nella scoperta che gli esseri umani “stanno sempre reagendo alle loro sensazioni”. Poiché le reazioni agli stimoli sono apprese, esse possono essere cambiate attraverso la consapevolezza. Dobbiamo imparare a osservare in maniera consapevole la negatività (dolore, rabbia, impazienza, paura, ecc.) che sorge nella mente, senza reagire. Durante la meditazione di consapevolezza impariamo a osservare ciò che accade nella mente “senza desiderare”, “senza odiare” e “senza ignorare”. La consapevolezza non reattiva permette di essere colpiti da dolore soltanto una volta.

Le persone comuni, che non praticano la meditazione di consapevolezza, vengono sempre colpite dal dolore due volte. Ogni volta che una persona comune avverte una sensazione dolorosa si rattrista e viene turbata. È come se fosse trafitta da due frecce. La sensazione dolorosa è la prima freccia, mentre la reazione mentale è la seconda. In genere la seconda freccia provoca più malessere della prima. Chi pratica la meditazione di consapevolezza agisce in modo da affievolire fino a far scomparire la seconda freccia; in questo modo “le cose desiderabili non provocano la sua mente. Verso le cose indesiderate non ha avversione”.

L’arte della non reattività è stata definita “equanimità”. Di fronte a uno stimolo fisico o mentale l’atteggiamento equanime consiste nell’osservazione consapevole senza negare lo stimolo (ignoranza) e senza compiere alcun movimento di avvicinamento (desiderio) o di allontanamento (avversione). La pratica della meditazione di consapevolezza insegna a osservare le cose (il corpo, le sensazioni e la mente) così come sono (transitorie, fonte di insoddisfazione, non dotate di una identità permanente). Inoltre insegna a non reagire automaticamente e a non creare negatività. La meditazione di consapevolezza permette di sviluppare una comprensione profonda della realtà, osservando in maniera sistematica il continuo mutamento del corpo, delle sensazioni e degli stati della mente. L’osservazione consapevole e non reattiva (equanime) costituisce l’apice dell’insegnamento del Buddha, ovvero del “compito di autopurificazione mediante l’auto-osservazione”.

Da un punto di vista psicologico le caratteristiche centrali della meditazione di consapevolezza sono: i) lo sviluppo di un “sé osservante” che, attraverso la consapevolezza, è presente al respiro, alle sensazioni del corpo e al succedersi dei vari contenuti che transitano nella mente; ii) l’abbandono alla “spontaneità”, poiché nella meditazione sati non vi è alcun controllo né della respirazione, né dell’attività mentale, processi che vengono osservati e accettati così come sono; iii) la pratica della “non reazione”, ovvero l’educazione all’atteggiamento equanime rispetto a qualsiasi cosa accada nella mente. Da un punto di vista neuropsicologico i compiti e gli atteggiamenti della meditazione di consapevolezza si associano a una attivazione funzionale delle strutture del lobo frontale laterale (in particolare della corteccia prefrontale dorso-laterale).

 

La meditazione unitiva (samadhi)

Il samadhi è uno stato di concentrazione unitiva caratterizzata da diversi livelli di assorbimento (detti jhāna) nei quali i meditanti non sono “né svegli, né addormentati, né stanno sognando”. In questi stati di assorbimento si assiste a una sospensione progressiva delle percezioni sensoriali, a un’interruzione delle attività discorsive e razionali della mente, al sorgere di sentimenti di gioia, felicità, serenità e ineffabile intuizione. Una delle tecniche utilizzate per raggiungere il samadhi è la meditazione buddhista samatha.

La meditazione samatha viene praticata mantenendo l’attenzione su di un oggetto, senza distrarsi e senza divagare. Si può partire portando l’attenzione sul respiro. Mentre inspiro sono consapevole dell’inspirazione, mentre espiro sono consapevole dell’espirazione. Nei primi tempi sarà possibile mantenere l’attenzione sull’oggetto soltanto per alcuni secondi. Col passare del tempo diventerà possibile rimanere attenti per qualche minuto. Se la mente tende a divagare è possibile usare il pensiero verbale per controllare la distrazione, ad esempio contando i respiri. Per arginare il flusso ideativo, all’inizio dell’inspirazione si può dire mentalmente “uno” (oppure “inspiro”), all’inizio dell’espirazione si può dire “due” (oppure “espiro”). L’esercizio del conteggio mentale è un ausilio per mantenere l’attenzione focalizzata sul compito; quando questa è raggiunta, il conteggio può essere abbandonato.

Via via che la meditazione samatha viene coltivata con impegno, continuità e devozione, la focalizzazione dell’attenzione diventa più duratura, il respiro si fa più leggero e la mente diventa sempre più rilassata. In queste condizioni la presenza dell’io tende a ridursi progressivamente; la respirazione diventa regolare e sottile, basta un piccolo sforzo per mantenere l’attenzione bilanciata tra i due estremi dell’indolenza e dell’agitazione. Quando il meditante ha raggiunto questo stadio può avvertire di essere salito a un gradino superiore di coscienza. Uno stato nel quale è facile mantenere l’attenzione concentrata sul momento presente senza distrarsi o interrompersi. Scompaiono le distrazioni, vi sono gioia e felicità. Si tratta del primo livello di samadhi (primo jhāna).

La condizione di benessere, pace e felicità è probabilmente collegata alla liberazione interiore di endorfine. Queste sono una serie di neurotrasmettitori coinvolti nella regolazione delle relazioni. All’interno della tradizione buddhista gli jhāna sono stati considerati come un balsamo che purifica la coscienza; essi agiscono modificando le relazioni non positive interiorizzate nella nostra mente. Questa prospettiva permette di comprendere l’etimologia della parola jhāna, la cui radice (dyai) in sanscrito è collegata ai significati di “bruciare”, “eliminare” o “assorbire”.

L’esperienza soggettiva dei primi livelli di samadhi è simile a quella di un “sonno consapevole”. Infatti, durante tale condizione la mente presenta una riduzione di tutte le attività: percettive, immaginative e volitive. È ancora possibile avvertire le percezioni e i pensieri, ma è come se avvenissero in un luogo lontano dal centro della coscienza. Infatti, nello yoga gli stati più elevati di coscienza sono stati collegati alle condizioni di sonno. La registrazione dell’attività elettroencefalografica di alcuni yogi durante la condizione di samadhi ha confermato la presenza di un ritmo elettroencefalografico simile alla condizione di sonno profondo.

All’interno della tradizione buddhista sono stati descritti otto livelli di assorbimento. Nel primo jhāna il meditatore è ancora a contatto con i sensi fisici (sensazioni, suoni, odori, ecc.). Sorge la contentezza, l’estasi, il corpo è rilassato. Il pensiero e la riflessione sono presenti. Nel secondo livello di assorbimento si riduce il pensiero. La mente diventa silenziosa. Si tratta di un equilibrio molto delicato che viene mantenuto dalla piena consapevolezza. Attraverso la pratica è possibile raggiungere il terzo jhāna dove la gioia viene meno e il meditante rimane equanime, attento e pienamente consapevole. Il quarto jhāna è caratterizzato dalla presenza mentale e dell’equanimità; non sono più presenti ragionamento e pensiero verbale. Il quarto livello di assorbimento fa sorgere la saggezza e permette di vedere con particolare chiarezza come le cose sono veramente.

Gli ultimi quattro livelli di assorbimento sono stati definiti “immateriali”. Essi contribuiscono alla crescita della calma e della visione profonda. Il quinto assorbimento viene raggiunto quando il meditante è in grado di superare tutte le percezioni del mondo fisico; a questo punto lo spazio liberato da qualsiasi oggetto materiale diventa infinito (spazio spazio). Nel sesto jhāna il praticante giunge alla contemplazione della coscienza illimitata (coscienza coscienza). Nel settimo jhāna viene rimossa anche la coscienza, rimane l’esperienza del nulla e della vacuità (vuoto vuoto, oppure nulla nulla). Infine, l’ottavo assorbimento consiste nel passaggio allo stato di “né percezione né non-percezione”. In questo ultimo livello viene perduta la percezione grossolana ma viene conservata una certa percezione sottile.

Le pratiche del samatha e della meditazione unitiva (samadhi) non sono qualitativamente differenti dalle tecniche utilizzate in altre tradizioni, specialmente nello yoga, ma anche nella kabbalah e in alcune meditazioni dei sufi. Il Buddha apprese le tecniche per raggiungere gli otto jhāna dai maestri yogi Ālāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, ma non le ritenne sufficienti per raggiungere il nibbāna. A suo parere esse sono in grado di produrre stati non ordinari di coscienza ma non sono sufficienti per trasformare la mente. Infatti, “i nostri processi affettivi e mentali devono essere gradualmente liberati dall’abitudine, radicata in profondità, di percepire e reagire, che ci impedisce di vedere le cose e averne esperienza per quello che sono”.

 

La tecnica psicoanalitica delle associazioni libere

Nello scorso secolo le teorie sviluppate da Sigmund Freud hanno suscitato un ampio dibattito all’interno della psicologia e della filosofia. Il loro valore conoscitivo è stato spesso messo in discussione. Proprio gli aspetti su cui Freud non ha argomentato in maniera estesa, ad esempio come condurre una psicoterapia psicoanalitica, rappresentano probabilmente i suoi contributi più importanti. Una di queste tecniche psicoterapeutiche, il metodo delle “associazioni libere”, costituisce non soltanto un caposaldo della terapia psicoanalitica ma una delle strategie più efficaci per conoscere se stessi.

Durante una seduta psicoanalitica il paziente stava disteso su di un divano mentre Freud lo osservava senza essere guardato, poiché era seduto su di una poltrona posta dietro al divano. Il paziente veniva invitato a esprimere tutto quello che gli passava per la mente, senza preoccuparsi dove ciò lo potesse portare. Lo spirito fondamentale delle associazioni libere è uno spirito di schiettezza, di sincerità, di decisione di affrontare i propri problemi e di buona volontà ad aprire tutto il proprio animo a se stesso e al terapeuta. Le associazioni libere si compongono di due elementi. Da un lato viene dato risalto alla spontaneità (con l’ingiunzione di non censurare), dall’altro all’osservazione del pensiero da una posizione neutrale.

Nell’espressione delle associazioni libere il paziente viene invitato ad abbandonare ogni ordine riguardante le parole, la sintassi, la logica, il decoro e lo stile. Durante l’analisi l’attenzione su questi aspetti è dannosa. Il soggetto deve “parlare senza riserve”, rivelare se stesso con la “massima franchezza”. Parlare senza selezione, senza remore e con estrema franchezza contraddice tutti i codici e gli usi sociali nei quali gli individui sono stati educati; per questo motivo le associazioni libere sono una tecnica molto difficile e i soggetti in analisi cercano di evitarla attraverso numerosi stratagemmi. Ad esempio mediante l’esposizione di argomentazioni superficiali, l’analisi dettagliata di elementi non significativi, il ricorso a ragionamenti di natura intellettualistica, ecc.

La tecnica risulta fruttuosa sia per il soggetto analizzato sia per il terapeuta quando il paziente è in grado di lasciare affiorare le cose. “Il paziente riesce ad associare liberamente nella misura in cui si lascia andare”. Le associazioni libere sono dunque un percorso paragonabile al compito di “osservazione della mente” presente nella meditazione di consapevolezza. Karen Horney, in Le ultime lezioni (1952), ha sottolineato alcune caratteristiche essenziali di questo fondamentale processo terapeutico e autoconoscitivo. Per riuscire a produrre delle “autentiche associazioni libere” il paziente deve tenere a freno la volontà di nascondere, di controllare, di selezionare, si tratta di una lotta dell’orgoglio contro la verità.

Durante le associazioni libere il paziente deve essere attento, concentrato sul compito di associare liberamente. Egli deve abbandonarsi alla ricerca della verità, deve rendersi conto delle connessioni che originano durante la produzione verbale e l’emersione dei ricordi. Egli deve diventare consapevole dei suoi sentimenti e delle sue pulsioni. Si tratta di un processo complesso nel quale il paziente lentamente aumenta la propria consapevolezza e la comprensione di se stesso. Fare associazioni libere è un compito “difficile”. Uno dei primi discepoli di Freud, lo psicoanalista ungherese Sándor Ferenczi, propose di considerare la capacità di produrre autentiche associazioni libere come il criterio per il successo e la conclusione di una terapia psicoanalitica.

Durante il trattamento psicoanalitico non solo il paziente ma anche il terapeuta deve coltivare con impegno il raggiungimento di una condizione di “attenzione sospesa”, che è molto simile alla meditazione di consapevolezza. Lo psicoterapeuta deve inoltre essere consapevole di quanto sta accadendo nella sua mente, soprattutto dell’avvicendarsi di pensieri, emozioni e sentimenti. L’attenzione consapevole e l’auto-osservazione sono dunque due capisaldi del processo psicoterapeutico in generale e di quello psicoanalitico in particolare.

 

L’autoconsapevolezza e l’osservatore interno

L’autoconsapevolezza consiste nella capacità di essere consapevoli di esistere. Nell’ambito della psicologia cognitiva tale capacità è stata denominata “metacognizione”. L’autoconsapevolezza è collegata con la capacità autoriflessiva e con l’autocoscienza fenomenica, ovvero con la capacità di essere coscienti nel momento presente di noi stessi e del flusso delle nostre sensazioni, emozioni e pensieri. L’autoconsapevolezza è ciò che manca agli algoritmi intelligenti, ed è ciò di cui è dotato per definizione il Dio dei teologi cristiani medievali.

L’autocoscienza rappresenta una coscienza di ordine superiore, una forma di consapevolezza metacognitiva, ovvero la capacità di sviluppare un pensiero su se stessi. L’io può essere nello stesso tempo soggetto e oggetto. Nella tradizione teologica l’io, che si trova al livello più basso, viene definito “anima psichica” (io psichico), mentre l’io che si trova al livello superiore è lo “spirito” (anima spirituale). Baruch Spinoza (1632-1677) è stato uno dei primi filosofi a segnalare la capacità degli esseri umani di elaborare idee di “secondo ordine”. Secondo Spinoza “la mente umana percepisce non solo le affezioni del corpo ma anche le idee di queste affezioni”.

Secondo alcuni filosofi la consapevolezza può svilupparsi soltanto nelle rappresentazioni di ordine superiore. Le informazioni cognitive di ordine inferiore, come ad esempio le informazioni noetiche, di cui sono dotati moltissime specie animali (mammiferi, uccelli, ecc.), non possono essere esperite consapevolmente e per questo motivo rimangono confinate nell’inconscio cognitivo. Soltanto le informazioni di ordine superiore, cioè il pensiero di un altro pensiero, permettono di rendere consapevoli le informazioni di primo ordine. Dunque, se un pensiero non è oggetto di riflessione da parte di un secondo pensiero non raggiunge il livello della consapevolezza.

La coscienza di ordine superiore prevede l’esistenza di livelli mentali che in successione osservano (riflettono) le informazioni presenti al livello inferiore. In primo luogo l’oggetto (un libro) deve essere rappresentato nella mente come oggetto percettivo. In secondo luogo l’oggetto (il libro) deve essere mantenuto nella memoria di lavoro. In terzo luogo l’oggetto deve essere espresso in un pensiero: “questo è un libro”. Per essere consapevoli che è stato elaborato un pensiero, l’osservatore deve diventarne consapevole attraverso il pensiero: “io sto osservando un libro”, e così via. Le rappresentazioni mentali di ordine superiore sono sviluppate con il contributo prevalente della corteccia associativa dei lobi prefrontali e parietali.

Come è stato detto, il flusso da cui origina l’attività mentale può essere considerato come una sorta di “allucinazione controllata” (cap. 3). Nei sogni tale attività è indipendente dagli ingressi sensoriali (che sono bloccati quasi del tutto) (cap. 6 e 9). Mentre nella veglia il flusso mentale originato dal cervello viene selezionato dagli ingressi sensoriali e dai sistemi di automonitoraggio (metacognizione). In questa maniera l’autoconsapevolezza ci permette di separare l’immaginazione dalla realtà. Inoltre, l’autoconsapevolezza ci permette di riconoscere i nostri errori e di dubitare di noi stessi (delle nostre percezioni, dei nostri pensieri, delle nostre capacità, ecc.). Negli adulti l’autoconsapevolezza è spesso assente o disattivata. L’assenza di autoconsapevolezza è un fenomeno molto frequente poiché viene favorita dai processi di accelerazione della vita, dallo stress (glucocorticoidi), dai mezzi di comunicazione di massa (telefonino, televisione, cinema) e dai videogiochi.

L’autoconsapevolezza è stata posta in relazione con la capacità di leggere la mente delle altre persone (teoria della mente). Leggendo la mente degli altri impariamo a leggere la nostra mente. L’autoconsapevolezza è stata inoltre collegata con la memoria episodica. Una forma di memoria presente negli esseri umani che lo psicologo canadese Endel Tulving ha posto in relazione con la “coscienza autonoetica”.

Sia la teoria della mente sia la memoria episodica iniziano a essere sufficientemente sviluppate nei bambini dopo i cinque anni di età. I bambini più piccoli sono in grado di ricordare singoli eventi ma non sembrano essere capaci di ordinarli secondo una linea temporale. Dopo i cinque anni i bambini sono in grado di “viaggiare mentalmente nel tempo”, ricordare eventi passati ed elaborare piani in vista di obiettivi futuri; insieme alla memoria episodica, si sviluppano anche le funzioni esecutive e l’autocontrollo. È dunque in questo periodo che i bambini cominciano ad avere l’impressione di possedere un “osservatore interno”, un biografo in grado di narrare la propria storia, un “io” in grado di impartire ordini a se stesso.

Lo sviluppo, dopo i cinque anni di età, delle funzioni esecutive, dell’osservatore interno, della memoria episodica e del linguaggio interiore indirizza la mente dei bambini verso una modalità di funzionamento sempre più simile a quella degli adulti. Lo psicologo russo Lev Vygotskij (1896-1934) ha sottolineato il ruolo svolto dal linguaggio nella regolazione della mente e del comportamento. Vygotskij ha sostenuto che le persone dotate di maggiore competenza (cognitiva e linguistica) sono in grado di “trasferire” alle persone meno competenti (i bambini) le loro abilità mentali e comportamentali. Secondo questa prospettiva le caratteristiche cognitive degli esseri umani, inclusa l’autoconsapevolezza, sono in relazione con la natura sociale dell’essere umano, e consentono ai bambini di far propria la vita intellettuale di coloro che li circondano.

L’intelligenza sociale e l’autoconsapevolezza sono fenomeni che dipendono sia da aspetti evolutivi (ad esempio l’evoluzione del lobo prefrontale e del lobo parietale) sia da aspetti educativi. L’autoconsapevolezza presente negli adulti (in particolare nella madre) sarebbe in grado di favorire l’origine dell’autoconsapevolezza nei bambini per fenomeni di modellamento della mente. L’autocoscienza e il linguaggio, favorendo la capacità di immaginare gli stati mentali altrui (teoria della mente), facilitano lo sviluppo dell’empatia cognitiva (compassione). Queste considerazioni indicano che l’autoconsapevolezza e la coscienza fenomenica non sono capacità neurobiologiche “innate” ma dipendono da fattori educativi che possono favorirne lo sviluppo o meno. Dunque, alcuni stili di vita abbassano il livello di autoconsapevolezza, mentre altri lo favoriscono.

Gli studi di neuropsicologia clinica e quelli mediante tecniche di visualizzazione cerebrale hanno permesso di correlare l’autoconsapevolezza con due funzioni mentali: 1) la capacità di pensare a se stessi e agli altri in maniera esplicita, collegata all’attivazione di due parti della corteccia associativa mediale, ovvero la corteccia prefrontale mediale (PFC) e la corteccia parietale mediale (precuneo); e 2) la capacità di orientare l’attenzione volontaria su di un compito cognitivo (come rivolgere l’attenzione al pensiero, alle sensazioni e alle emozioni) collegata con l’attività di alcune strutture laterali del lobo frontale (polo frontale e corteccia dorso-laterale).

In ambito psicoterapeutico e spirituale sono state descritte diverse “compenti del sé”: i) il sé pensante (impegnato nei compiti di simulazione mentale, nell’immaginazione, nella risoluzione di problemi); ii) il sé concettuale (le idee che un individuo ha di se stesso che riguardano in particolare la propria personalità); iii) il sé emotivo (che si riferisce alle emozioni, ai sentimenti e agli stati d’animo); iv) il sé funzionale (collegato alle capacità esecutive e motorie). Tutte queste componenti costituiscono il “sé ordinario” che è principalmente coinvolto nella elaborazione degli obiettivi, nella messa in atto delle azioni per conseguire le mete prefissate e nella valutazione della loro efficacia.

Accanto al sé ordinario è possibile sviluppare un “osservatore interno”, che in alcune tradizioni meditative è stato definito il “testimone”. L’osservatore interno è un centro di autoconsapevolezza, equanimità e pura attenzione. Per alcune tradizioni spirituali niente è così centrale come l’osservatore interno. Il sé osservatore non può essere oggettificato. Per Arthur Deikman si tratta di un “elemento trascendente” dato che l’osservatore interno (autoconsapevolezza soggettiva) può essere percepito soltanto se si riesce a essere distanziati (disidentificati) dai contenuti della coscienza. Alla domanda “chi sono io?” il filosofo e mistico indiano Ramana Maharshi (1879-1950) ha risposto con una serie di negazioni: “Io non sono questo, non sono quello, non sono le mie sensazioni, non sono i miei pensieri, ecc.”.

Diversi percorsi meditativi, in particolare le pratiche collegate alla meditazione di consapevolezza (ānāpānasati, vipassanā e mindfulness), permettono di sviluppare un osservatore interno. La meditazione di consapevolezza cerca di sollevare gli individui dallo stato di trance e automatizzazione, tipico della vita ordinaria, a uno stato di autoconsapevolezza. Non si tratta di un compito facile. Il primo passo consiste nel rendersi conto di vivere come dei robot in un vero e proprio stato di trance e della necessità di lavorare per raggiungere l’autoconsapevolezza attraverso lo sviluppo e il rafforzamento di un osservatore interno. Questo primo lume di consapevolezza non è facile da raggiungere. Ognuno di noi affronta tanti momenti di insoddisfazione, sofferenza e dolore, che possono rappresentare il punto di partenza per riuscire a risvegliarsi e “riprendere i sensi”.

Lo sviluppo di un osservatore interno è di fondamentale importanza anche nella pratica psicoterapeutica. Tutte le persone, e in particolare quelle con problemi psicologici, tendono ad attribuire agli altri la colpa di tutte le loro difficoltà. I figli ai genitori, la moglie al marito e viceversa. Una delle tappe principali del percorso psicoterapeutico consiste nello sviluppo di un sé osservatore (una condizione chiamata “scissione terapeutica”) che permette di prendere coscienza dei punti di forza e di debolezza del proprio carattere. Per questi motivi la psicoterapia è particolarmente difficile in alcune psicopatologie, come i disturbi borderline di personalità e le psicosi, che rendono molto difficile lo sviluppo di un sé osservatore.


Franco Fabbro è nato a Pozzuolo del Friuli nel 1956. Ha compiuto studi universitari di filosofia, teologia e medicina. Si è laureato in medicina (1982) e specializzato in neurologia (1986). È stato professore ordinario di Fisiologia umana e di Neuropsichiatria infantile. Attualmente è professore ordinario di Psicologia clinica all’Università degli Studi di Udine. Dal 2013 è Affiliate Professor presso il Laboratorio di Robotica Percettiva della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. È autore di numerosi lavori scientifici e di molti libri, tra cui: The Neurolinguistics of Bilingualism (1999), Neuropsicologia dell’esperienza religiosa (2010), Le neuroscienze: dalla fisiologia alla clinica (2016), Identità culturale e violenza (2018), Che cos’è la psiche (2021). (www.francofabbro.it)

 

 

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