Un dialogo di Adriano Ercolani con Carlo Ossola, filologo di fama internazionale e Presidente del Comitato Dantesco Nazionale, sul senso del tempo in Dante.
In copertina: Dantis Amor, di Dante Gabriel Rossetti
di Adriano Ercolani
Cronologia, eternità e ciclicità: le tre concezioni del tempo in Dante
Un dialogo di Adriano Ercolani con Carlo Ossola, filologo di fama internazionale e Presidente del Comitato Dantesco Nazionale, sul senso del tempo in Dante.
All’inizio del suo dotto quanto godibile saggio I due volti del tempo. Su Caso e Sincronicità (Stamperia del Valentino), Alessandro Orlandi sintetizza molto bene le diverse concezioni del tempo nella riflessione filosofica greca classica: «nel mondo antico quella che oggi chiamiamo “coincidenza” veniva percepita come un’irruzione del divino, del soprannaturale, nella vita di ogni giorno. A questo proposito, i Greci distinguevano quattro tipi di tempo: Il krόnos: il tempo della quotidianità, scandito dalle stagioni e dai cicli della Natura, che per ogni essere umano ha inizio con la sua nascita e termina con la sua morte ed è caratterizzato da eventi che divengono comprensibili facendo ricorso a quelle nozioni di causa-effetto che rientrano nell’inventario della vita di ogni giorno. L’aiόn, o tempo degli Dei: il tempo straordinario che caratterizza la dimensione immutabile e trascendente degli esseri divini e delle fiabe, i cui protagonisti raggiungono velocemente uno status destinato a non mutare più (oggi vivono in questo tipo di tempo i personaggi dei fumetti). È il tempo infinito dei Manvantara, dei cicli cosmici, la cui prospettiva può essere contemplata solo dal santo, dall’uomo del Vedânta, dallo rsi, dallo yogin, dal saddhu immersi in meditazione profonda. Il suncrόnos: indica le circostanze che rendono possibile l’incontro tra i due primi tipi di tempo, il krόnos e l’aiόn, l’irruzione del divino e del soprannaturale, che illuminano con un lampo accecante il quieto mare dell’accadere quotidiano (…) Infine il kairόs, l’attimo fuggente, l’istante in cui krόnos e aiόn si incontrano, l’occasione e l’opportunità data all’uomo di cambiare il solco in cui procede ed è destinato a procedere fino alla morte, determinando il proprio destino con una scelta».
Ho sempre pensato che l’opera in cui tutte queste dimensioni siano compresenti, al massimo grado di consapevolezza intellettuale, sia La Divina Commedia.
Certo, una tale affermazione meriterebbe un saggio di proporzioni enciclopediche per essere degnamente supportata, e chissà, forse un giorno (tempo, appunto, permettendo) chi scrive ci si dedicherà, ma per ora limitiamoci ad alcune coordinate minime, per orientarci in un ambito di riflessione così vasto.
-->Dante svolge la sua narrazione cronologica in una dimensione sovrumana: in sette giorni attraversa ed esplora tre regni ultraterreni.
Lo smarrimento nella selva lo conduce, per la durata del suo viaggio spirituale, in una dimensione costante e sospesa di suncrόnos (tra la dimensione terrena del krόnos in cui vive il mortale Dante Alighieri e l’aiόn dell’Eterno Presente paradisiaco), fino al supremo kairόs della visione divina. Il paradosso di essere vivente nel regno dei morti (che, sia come catabasi che anabasi, è specchio rovesciato del mistero dell’Incarnazione) viene scontato da Dante raccontandoci costantemente lo scorrimento del tempo attraverso complesse, quanto suggestive, metafore zodiacali che rivelano precise coordinate astronomiche.
Bisogna riflettere con attenzione su questo punto.
Solo in questo modo si può comprendere uno degli errori più diffusi, anche a livello di divulgazione scolastica: ridurre Dante a “un uomo di partito” (certo, era anche quello), leggere solo l’Inferno perché più vicino all’esperienza umana, e quindi comprensibile, e qualche canto del Purgatorio, relegando il Paradiso a una mera sequenza di astruse fumoserie teologiche.
Non si può ignorare il senso di un’opera cruciale per la cultura occidentale, decapitandone il coronamento, per giustificare la propria ignoranza o per non mettere in discussione le proprie, illusorie, certezze ideologiche.
Insomma, credo che Dante avrebbe messo molti critici a mollo nella palude ribollente dello Stige nel VII dell’Inferno, come gravi peccatori di accidia intellettuale.
Chi legge Dante solo con il filtro storicista, si perde più della metà, non solo della grandezza, ma del senso stesso dell’opera. Certo, Dante è uomo profondamente immerso nel suo tempo, nel fango delle battaglie, nel tumulto della lotta politica, nella fierezza dell’appartenenza ideologica; al contempo (scuserete i costanti, spontanei bisticci col tempo che tale riflessione mi impone), è colui che ha compiuto e testimoniato, almeno in letteratura, l’itinerarium dallo scorrere della storia, l’insensato “strepito e furia” di Macbeth, alla quiete dell’Eterno Presente.
Questo spiega, anche, perché in occasione del settecentesimo anniversario dantesco si siano moltiplicate le iniziative che sottolineano “la contemporaneità”di Dante.
Tra gli innumerevoli eventi dedicati al tema, molti dei quali meritori, vorrei segnalare la serie di eventi organizzati nel maggio scorso al Teatro Argentina di Roma, Dante a Memoria.
Un programma articolato in tre fasi: le lectio affidate a esperti filologi; l’impresa notevole dell’attore Giorgio Colangeli, che in sette eventi ha recitato l’intero poema dal vivo a memoria; una serie di laboratori a cura di Piero Gabrielli, che hanno coinvolto numerose scuole della città e della regione. Ecco un esempio valido di rassegna culturale, una buona sintesi di approfondimento, contemplazione estetica e divulgazione.
Altro evento interessante per sottolineare la contemporaneità nel poema dantesco, sempre nella capitale, è la mostra ospitata nei Porticati che circondano l’incantevole chiostro del Conservatorio di Santa Cecilia: ISBN Dante e altre visioni, di Corrado Veneziano.
Una mostra (visitabile fino al 3 luglio) in cui è il percorso simbolico a rivelare la consapevolezza dell’artista: trentatré opere in cui al gioco di citazioni pittoriche (da Botticelli a Kandinskij, da Pietro Lorenzetti al geniale fumettista Moebius) si affianca un colto mosaico di riferimenti letterari.
Parliamo di maestri del Novecento come Borges, Eliot e Pound, tutti autori irrimediabilmente “danteschi”. Ecco, quindi, il bellissimo incipit originale de L’Aleph borgesiano (con il suo omaggio alla Beatrice dantesca), quello straziante tratto dai Canti Pisani di Pound (“L’enorme tragedia del sogno”, LXXIV) o quello celebre de La Terra Desolata eliotiana campeggiare sulle tele purgatoriali, prima che l’oro bizantino sopraggiunga a indicarci l’approdo in Paradiso.
Personalmente, trovo molto bello che una delle massime istituzioni musicali a livello mondiale abbia deciso di omaggiare il Sommo Poeta.
Spostandoci, però, dall’ambito delle influenze letterarie alla riflessione filosofica sul tempo in Dante, recentemente, mi è sovvenuta una conversazione avuta anni fa con Franco Cardini, pubblicata su minima&moralia.
In seguito proprio a un suo intervento, proprio al Teatro Argentina, era emerso il tema della compresenza, nel Cristianesimo, del concetto di eterno ritorno e di freccia lineare del tempo: per alcuni versi, di aiόn e krόnos.
Tutto nasceva dalla menzione del saggio di Alain Daniélou dedicato a Shiva e Dioniso, sul quale ho già avuto il piacere di intervenire, in un evento organizzato da Luigi Cinque presso la Fondazione Scelsi.
Un saggio da compulsare con discernimento affilato, traboccante di spunti straordinari quanto di derive insidiose, ma che complessivamente ha avuto il grande merito di affrontare senza dogmi l’accostamento, spontaneo, fra due manifestazioni archetipiche così importanti nella cultura d’Oriente e Occidente. Il tema non è banale, può dare adito a facili equivoci.
Lo ha affrontato bene Marco Maculotti su Axis Mundi: “uno degli appellativi di Shiva è Kāla Rudra, «il tempo che tutto divora» [Franz 13]. Secondo la sapienza śivaita, tutto ciò che nasce deve morire: il principio della vita è dunque associato al tempo, ossia al principio della morte; in altri termini, dal momento che la vita si alimenta con la morte, il dio creatore è anche il dio distruttore. Per questa ragione Shiva ha anche un aspetto terrificante (Bhairava) e viene chiamato con epiteti oscuri (Rudra, Il «Signore della Lacrime»; Mahākāla, Il «Tempo del Tempo», il «Gran Distruttore»): in questa veste, lo si venera soprattutto sotto l’aspetto dell’energia che manifesta: Kālī (da kāla, «tempo») la dea terribile dalla pelle nera. Per questo motivo, Kālī/Durgā “venne eretta a «Signora del Tempo» e dei destini umani”, in quanto rappresentante soprattutto l’aspetto distruttivo di Śiva, il «Divoratore del Tempo»”.
Eppure, citando Coomaraswamy, Maculotti ricorda come “la funzione di Śiva come «Gran Distruttore» non è meramente negativa”, anzi la “visione del dio che, attraverso i millenni e gli Eoni, danzando continuamente distrugge e ricrea daccapo il cosmo, aveva dunque anche una funzione soteriologica”.
Ecco, dunque, il legame presente tra Tempo ed Eterno, Morte e Rinascita: temi profondamente cristiani e supremamente danteschi.
Nella nostra conversazione, Cardini mi citava, a riguardo di questo tema, un intervento di Carlo Ossola, filologo di fama internazionale e Presidente del Comitato Dantesco Nazionale, sul valore del tempo ciclico nella liturgia cristiana.
Ossola ha mostrato, infatti, in diversi saggi, come nel Cristianesimo convivano la concezione del tempo lineare (la visione della storia come itinerarium dalla Creazione all’ Ultimo Giudizio che trova il suo senso nell’Incarnazione), e quella del tempo ciclico, presente, appunto, nella liturgia come rituale quotidiano di morte e resurrezione.
Con l’occasione dell’anniversario dantesco, sempre al Teatro Argentina, era in programma l’evento (per i primi di giugno, poi spostato al prossimo autunno) Dante, in sua presenza: una serie di letture in cui gli attori e le attrici dell’Accademia Silvio D’Amico, diretti da Giorgio Barberi Corsetti, interpreteranno brani danteschi accanto a citazioni di Borges, Beckett ed Edgar Lee Masters.
E durante le quali, appunto, Carlo Ossola inviterà il pubblico a riflettere sulla contemporaneità del Sommo Poeta.
È venuto, dunque, spontaneo rivolgersi a lui, uno dei filologi danteschi più noti al mondo, per dirimere la questione: come può Dante, poeta che ha fatto dell’itinerarium il più grande monumento letterario e che è poeta profondamente liturgico, riuscire a far convivere queste due dimensioni temporali nella sua potente visione allegorica?
Ossola ha spiegato:
La visione teleologica della Commedia, tutta volta alla Risurrezione al «novissimo bando» del Giudizio finale: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando» (Purg., XXX, 13-15), è bene ricapitolata da Dante nell’Epistola a Cangrande della Scala, ove illustra questo ascendere dell’umanità – attraverso i diversi gradi dell’allegoria e dei tempi – al momento finale della Gloria: «Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i versetti: “Allorché dall’Egitto uscì Israele, [In exitu Israel de Aegypto, Ps., 113, 1; e Purg., II, 46-48] e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; la nazione giudea venne consacrata a Dio; e dominio di Lui venne ad essere Israele”. Infatti se guardiamo alla sola lettera del testo, il significato è che i figli di Israele uscirono d’Egitto, al tempo di Mosè; se guardiamo all’allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo; se guardiamo al significato morale, il senso è che l’anima passa dalle tenebre e dalla infelicità del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al significato anagogico, il senso è che l’anima santificata esce dalla schiavitù della presente corruzione terrena alla libertà dell’eterna gloria» [Ep., XIII, 21]. Nella stessa Epistola è ulteriormente chiarita la finalità di una narrazione che incalza il lettore verso una “conversione alla gloria” che lo attende come disvelamento e compimento: « si può dire in breve che il fine di tutta l’opera e della parte [cioè, qui, il Paradiso] consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità» [Ep., XIII, 39]. La beltà radiosa che emana dai beati che Dante incontra nel Paradiso, non è quella ultima, poiché manca loro quel “rivestirsi della carne” che renderà i corpi perfetti e riconoscibili nella storia e negli affetti terreni: « Tanto mi parver sùbiti e accorti / e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!», / che ben mostrar disio d’i corpi morti: // forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme» (Par., XIV, 61-66). È un ascendere della creazione –direbbe Pierre Teilhard de Chardin – verso l’adesione finale alla sua “forma vera”, secondo la magnifica immagine che ci lascia sant’Ambrogio: «exspectamus Dominum Iesum, qui transfigurabit corpus humilitatis nostrae, conforme ut fiat corpori gloriae suae» [«noi aspettiamo Gesù, il Signore, che trasfigurerà il corpo della nostra umiltà perché divenga conferme al corpo della sua gloria»: De fide, cap. XV, in PL, 16, 686A).
Proprio per questa “aspettazione” finale, stride spesso, nella Commedia, il computo del tempo circolare, dei mesi, delle lune, che gli vengono profetizzati attenderlo, misura di pena e d’esilio, come nella profezia annunciata da Farinata: «e sé continüando al primo detto, / “S’elli han quell’arte”, disse, male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto. // Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna [la luna] che qui regge, / che tu saprai quanto quell’arte pesa”» (Inf., X, 76-81). Non tornerà 50 volte la luna, nel circolo dei mesi, che Dante apprenderà quanto sia difficile l’arte di tornare in patria. Per trovare conciliazione tra circolarità del tempo e finalità dell’escatologia, bisognerà attendere la sconfinata totalità, che abbraccia il sempre, del Paradiso: «e questo cielo non ha altro dove / che la mente divina» (Par., XXVII, 109-110).
A questo punto, nella nostra conversazione, non ho potuto non citare come un poeta dalla grande influenza dantesca come T.S.Eliot nei Cori “Dalla Rocca” alluda al Mistero dell’Incarnazione con dei versi memorabili: «Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo, un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato.».
Forse possiamo trovare in questa bisecazione il punto di incontro tra tempo ciclico e tempo lineare, nel senso che la creazione del tempo lineare trova il suo senso in un preciso momento storico che però rappresenta, al massimo livello simbolico, il ritmo di morte e resurrezione che è alla base del tempo ciclico.
Sollecitato su questa riflessione, Ossola ha risposto:
Certamente The Rock (1934) di T. S. Eliot è uno dei poemetti più acutamente attenti alla finalità della storia e alla critica del presente; basterebbe ricordare il Coro che inaugura la parte II: «In un’epoca che avanza progressivamente all’indietro» [«In a age which advances progressively backwards»]. E poco dopo si leva la voce dei disoccupati, ai quali il Coro risponde negli stessi termini (contro l’Usura, la Lussuria, il Potere) che avrebbe potuto impiegare Dante: «Deserto e vuoto [Waste and void]. Deserto e vuoto. E tenebre sulla superficie dell’abisso. / È la Chiesa che ha abbandonato il genere umano o è il genere umano che ha abbandonato la Chiesa? / Quando la Chiesa non viene più considerata, e nemmeno contrastata, e gli uomini hanno dimenticato / Tutti gli dèi salvo l’Usura, la Lussuria, e il Potere». Questo sguardo apocalittico diviene particolarmente acuto nelle parole del Corifeo: «Non per noi stessi piangiamo, o Roccia, ma per i non nati. / Sentiamo il gemito di anime che ancora non sono state concepite, di genitori e di nonni che ancora debbono nascere». Il Tempo e l’Eternità si incontrano nella nascita del Salvatore e, ancor più -come voleva Pascal – nella sua agonia [«Jésus sera en agonie jusqu’à la fin du monde»]: «Forse che ai figli della Luce Egli abbia promesso la pace di questo mondo? / Ma vieni, devi rivolgere ancora una volta i tuoi pensieri alla stagione della semina che è ora, / Così, con molto dolore, vedrai l’Eternità incrociare il fluire del tempo». Si le grain ne meurt… (Gide, 1924).
Ma c’è un’ulteriore lezione, pari a quella di Dante e della sua « revestita voce » al finale Giudizio; il bisogno -come lei ricordava – di essere parte dell’Incarnazione: «Visibile e invisibile, due mondi s’incontrano nell’Uomo; / Visibile e invisibile si debbono incontrare nel Suo Tempio; / Non dovete rinnegare il corpo »
Come già accennato, Dante è un poeta spesso contestualizzato storicisticamente nel suo tempo, ma il suo valore è senza dubbio universale, archetipico.
Parafrasando una frase celebre di Charles Péguy su Omero, potremmo dire: “Dante è nuovo, stamattina, e niente è forse così vecchio come il giornale di oggi”. Il progetto dell’evento organizzato per il prossimo autunno al Teatro Argentina di Roma si muove proprio in questa direzione. L’ultima domanda che ho posto a Carlo Ossola è stata proprio: come possiamo far comprendere la contemporaneità urgente, perenne e quindi sempre nuova, dell’opera di Dante?
La risposta è stata spiazzante quanto intrigante:
La messa in scena che Giorgio Barberio Corsetti propone al Teatro Argentina richiama Dante al presente di tre suoi lettori, eminenti, del XX secolo: Beckett, Edgar Lee Masters, Jorge Luis Borges. Vorrei in particolare insistere sul valore della ricerca scenica e metafisica di Beckett, il suo stare e interrogare con Belacqua, che prende nella sua opera molte vesti, e persino la postura: come l’Estragon di En attendant Godot. Quando gli fu chiesto di spiegare il senso di questa presenza costante di Dante e di Belacqua, egli richiamò il sogno interno di Murphy : «In quel momento Murphy avrebbe fatto dono di tutta la sua speranza dell’Antipurgatorio per cinque minuti nella sua culla ; avrebbe rinunciato al rifugio del masso di Belacqua e a quel riposo quasi embrionale, al di sopra del mare australe che tremolava all’alba dietro le canne, e del sorgere del sole piegando verso il nord; e a nessuna espiazione si sarebbe piegato fintanto che non avesse tutto ripassato in sogno, nel sogno libero dell’infanzia, a partire dalla spermateca sino ai forni crematori. Aveva una così alta opinione di questa situazione postuma, i suoi vantaggi si delineavano nella mente in tali dettagli che osava quasi aspirare alla longevità. Così sarebbe stato lungo il tempo ch’egli avrebbe passato a sognare, a vedere le aurore percorrere il loro zodiaco, prima della lunga ascensione al Paradiso» (Murphy, 1936).
Meditare con Dante vuol dire, precisamente questo: riavvolgere dall’eternità il tempo, come l’ultimo giorno riavvolgerà i cieli: « Il cielo si ritirò come un rotolo che si avvolge, e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: “Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?”» (Ap., VI, 14-17). Poiché parlare dalla Fine è anche parlare dentro la Fine, secondo lo sguardo agostiniano: noi siamo, in fondo, i «novissimi novissimorum» (Agostino, De fine saeculi).”.
Insomma, dalla mole di spunti presente in questa mia riflessione, abbozzata sulla base di diversi contributi altrui, si può intuire l’enorme possibilità ulteriore di scavo sul tema. Avremo modo presto per aguzzare “gli occhi al vero”, al fine di scoprire ciò che “s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani”. Speriamo solo di non smarrire la nostra “piccioletta barca”.
Adriano Ercolani (Roma, 1979) Si occupa da oltre vent’anni dei rapporti tra cultura occidentale e orientale, esplorandone le diverse manifestazioni artistiche. Tra i fondatori deI movimento internazionale Inner Peace, collabora al progetto filosofico Tlon e pubblica regolarmente interventi e approfondimenti su numerose testate (tra cui Linus, Blog del Fatto Quotidiano, minima& moralia).
Onorato.
Caro Adriano, letto tutto d’un fiato: la bellezza mi ha tolto il tempo, ma non gliene voglio. Ormai sei come una freccia scoccata dall’arco della conoscenza, ma la sua punta infuocata non colpisce bersagli ma, passando oltre nel suo testardo moto, li illumina. Per chi legge e guarda, non resta che inchinarsi al tuo folle volo.