Cultura profetica



Cosa resterà di noi? Le società lasciano un’eredità, quando scompaiono. Un’eredità fatta di tracce e segni, anche immateriali, che hanno molto a che fare con un’azione in particolare: mentire.


Questo testo è un estratto da Cultura Profetica di Federico Campagna, ringraziamo Tlon per la gentile concessione.


In copertina “Notturno con figure”, 1992, all’asta da pananti casa d’aste


Eusa says, «Whats the diffrents if I done the acturel Bad Time
things my self or I dint?»
Orfing says, «Wel if you dint do it then it aint on you is it».
Eusa says, «And if aint on me then what?»
Orfing says, «Then youre free aint you. Nothing on you and the
worl in front of you. Do what ever you like».
Eusa says, «There you are and said it out of your oan mouf.
Which wud you rather? Have the worl in front of you and free
or have some thing hevvy on your back for ever?»

 

Che splendido momento è questo, per i produttori culturali! Non capita spesso che una manciata di generazioni abbia la possibilità di inventare, non solo un diverso presente, ma anche un passato migliore. Una volta che la nostra memoria digitale e cartacea sarà scomparsa, molto poco rimarrà che possa contraddire qualsiasi versione alternativa di questo tempo-segmento che desidereremo inventare, anche se del tutto infedele all’attuale realtà dei fatti. L’imminente fine di questo mondo offre agli abitanti della modernità occidentalizzata un’occasione unica per mentire. Per noi che abitiamo oggi dentro questa cosmologia ormai agli sgoccioli, il compito di imparare a morire bene inizia con un esercizio di falsificazione. Se anche potessimo tramandare accuratamente la forma del mondo in cui siamo cresciuti e abbiamo vissuto, un senso di dignità e di amore genitoriale nei confronti di chi verrà dopo di noi non ce lo consentirebbe. Coloro che dovranno affrontare l’arduo compito di ricostruire un mondo ex nihilo non meritano che si consegni loro la formula metafisica di una civiltà il cui impatto sul pianeta è stato tanto catastrofico. Prima che il sipario cali su questa nostra cosmologia, siamo ancora in tempo per lasciare dietro di noi qualcosa di migliore e di più fertile. Poco male se ciò comporta che la verità sul nostro mondo debba essere sacrificata: d’altronde, ogni nuova fondazione richiede un sacrificio.

Una civiltà giunta alla fine del proprio futuro non dovrebbe usare i suoi ultimi sforzi culturali per rimuginare su che cosa sarebbe dovuto succedere e non è successo, su che tipo di obiettivi si sarebbe potuto raggiungere ma sono stati mancati, su quali regole e comportamenti si sarebbe dovuto seguire. Questi esami di coscienza arrivano fuori tempo massimo per modificare il corso degli eventi e hanno poco da insegnare ai mondi futuri: troppo diversi sono i linguaggi e i paesaggi di due mondi separati. Per poter dare un vero contribuito al germogliare di nuove cosmogonie, occorre dirigersi in direzione più decisamente creativa. 

In questo senso, una menzogna offerta come terreno fertile per nuovi mondi deve essere qualcosa di più radicale anche di un’utopia. Il suo obiettivo non è di suggerire linee guida per un nuovo progetto sociale, né di correggere il sistema corrente. Essa deve consistere nella riscrittura ucronica (e dunque immaginaria) della cornice metafisica che questa nostra civiltà ha adottato per crearsi un mondo dal deserto della pura esistenza. Alla narrazione metafisica su cui si sostiene l’idea di mondo contemporanea, essa sostituisce il falso storico di una versione “redenta”, che mai davvero è stata. Solo in questo modo è possibile regalare un passato migliore a chi abiterà dopo il nostro futuro: attraverso un esercizio di fiction esistenziale che sia anche una forma di epica metafisica.

Questa libertà di reinvenzione ucronica del proprio tempo è tanto più grande, quanto più la buona sorte decide che una civiltà muoia senza lasciare altre tracce materiali della propria cultura se non i prodotti di scarto del proprio sistema tecnoeconomico. Gli scrittori e gli artisti che vivono sulla coda di un tempo così fragile, come è il nostro, hanno un’opportunità che raramente si trova fuori dai racconti di Borges: essere cosmogonicamente creativi nel senso più ampio possibile. A loro il privilegio di rendere pubblico il lavoro di worlding, come se vivessero sul pianeta Tlön, la cui struttura sgorga direttamente dalla mente dei suoi abitanti:

 

Non è esagerato affermare che la cultura classica di Tlön comprende una sola disciplina: la psicologia. Le altre le sono subordinate. Ho detto che gli abitanti di questo pianeta concepiscono l’universo come una serie di processi mentali, che non si svolgono nello spazio ma, in modo successivo, nel tempo. […] Detto con altre parole: non concepiscono che l’elemento spaziale perduri nel tempo. La percezione di una nuvola di fumo all’orizzonte e poi del campo incendiato e poi della sigaretta semispenta che ha prodotto il fuoco è considerata un esempio di associazione di idee. […] I metafisici di Tlön non cercano la verità e nemmeno la verosimiglianza: cercano la meraviglia. Ritengono che la metafisica sia un ramo della letteratura fantastica. Sanno che un sistema non è altro che la subordinazione di tutti gli aspetti dell’universo a uno qualsiasi di essi.

Attraverso tale epica metafisica, gli ultimi produttori culturali della modernità occidentalizzata potranno sia scongiurare il rischio che questa età scompaia del tutto al venir meno del suo apparato tecnoeconomico, sia depurare quello che sarebbe stato il suo autentico lascito culturale della sua intrinseca tossicità. 

Prima di giungere a tale conclusione, tuttavia, conviene che procediamo per gradi iniziando con l’osservare quale tipo di medium culturale sia abbastanza resistente da poter attraversare la tempesta di un’apocalisse. Possiamo cominciare da noi stessi, chiedendoci che tipo di media, secondo la nostra esperienza di vita, garantisca il più alto grado di sopravvivenza alle forme immateriali veicolate dalla cultura.

Se proviamo a rintracciare, dentro noi stessi, l’origine di quelle forme immateriali che più hanno plasmato la struttura profonda della nostra immaginazione, condizionando così il corso delle nostre vite, ci accorgiamo che il loro insorgere rientra per lo più in ciò che viene definito come il campo del “trauma”. La perdita di una persona amata, l’abuso perpetrato da un membro della nostra famiglia, le discriminazioni subite o di cui si è stati testimoni, l’aver assistito a eventi che abbiano dell’incredibile sono tutti momenti che mettono in crisi la nozione che un soggetto ha di sé, in quanto entità dai contorni ben definiti, e la sua fede nella stabilità dei contorni che fino a quel momento avevano delimitato la geografia del suo mondo. Sebbene il trauma sia spesso conseguenza di fatti brutali, la sua essenza non si riduce a episodi di violenza e prevaricazione. Il trauma può essere interpretato in modo più ampio come un sommovimento profondo dei fondamenti della propria metafisica. Una narrazione traumatica ha luogo sulla soglia che separa i contorni esistenziali di un singolo soggetto i confini di ciò che esso chiama “io” o “mio” e la presenza strana o inquietante di ciò che infrange tali confini. Il trauma ridefinisce l’idea del mondo e di sé che fino a quel momento il singolo soggetto ha adottato come reale. L’oblio in cui tali eventi traumatici vengono tipicamente rimossi dal soggetto, dimostra come essi non avvengano dentro la cornice del tempo, ma in un interstizio tra la fine di un tempo-segmento e l’inizio del nuovo tempo-segmento che inaugurano. Se non vengono ricordati tra i fatti che scandiscono il tempo di vita di un soggetto, è perché essi non appartengono al novero del tempo.

"Notturno con figure", 1992, all'asta da pananti casa d'aste

Gli eventi traumatici possono avere luogo in qualunque momento nella vita di un soggetto. L’occasione di un evento traumatico può manifestarsi in ogni istante in cui lo storytelling metafisico crea un mondo la cui forma e i cui confini restano sempre vulnerabili a possibili, improvvisi smottamenti. 

L’insorgere di un evento traumatico è un fenomeno relativamente semplice da gestire per chi vive all’interno di una narrazione forte della realtà, come le persone che abitano un periodo stabile nella vita di una civiltà: il tappeto delle abitudini e di un senso comune consolidato è sufficiente per coprirlo e per farlo sparire. Ma per chi ha la ventura di vivere in un periodo intermedio tra la fine di una vecchia storia-mondo e l’inizio di una nuova, la realtà è un terreno vulcanico in cui resta ben poco di stabile nella geografia dell’esistente. Ed è proprio in tale terreno traumatico, aperto alla rinegoziazione metafisica della realtà, che le nostre strutture di senso e di comportamento più profonde affondano le loro radici. 

Quelle forme immateriali che sono in grado di operare su tale terreno, modificando la modalità di worlding di un soggetto, sopravvivono a questa fase di rielaborazione rimanendo impresse nella gestalt (“forma”) della sua immaginazione condizionando in anticipo anche la logica e l’etica che da essa emergeranno. Proprio qui sta la forza del trauma come medium di trasmissione culturale: ogni qual volta la cultura non possa contare sul supporto di media materiali per la sua sopravvivenza, il trauma continua a offrire un naviglio sicuro per traghettare anche le più complesse speculazioni cosmologiche oltre la fine del mondo.

È precisamente questo ciò che accadde alle tre civiltà morte-e-rinate discusse nelle pagine precedenti. Ciò che sopravvisse del mondo miceneo nel racconto omerico, fu essenzialmente una meditazione sulla relazione tra la vita del singolo e Anánke, la forza cosmica della Necessità capace di cancellare e ridisegnare qualunque confine. L’intero poema dell’Iliade, che Simon Weil definì giustamente «il poema della forza», ha a che fare con questo problema: come affrontare e dare un senso alla presenza di un agente autonomo, eterno, onnipresente, le cui ragioni sono impenetrabili e la cui forza è in grado di piegare la cornice stessa del mondo?

Allo stesso modo, ciò che sopravvisse della forma-mondo romana, custodito all’interno del suo vocabolario politico-giuridico, aveva a che fare con il rapporto tra il singolo e un’altra forza di confine: la potestas, l’“autorità”. Come gli sciamani che imbrigliano i venti attraverso il canto, così le formule della burocrazia romana intervenivano al livello in cui il potere si manifesta come una dinamica sociale che sfida e ridefinisce i confini esistenziali e metafisici dei singoli soggetti.

Anche la forma-mondo dell’antico Egitto come Osiride, il cui corpo smembrato fu ricomposto come un patchwork sopravvisse al crollo della propria società solo attraverso gli elementi più liminali della sua narrazione metafisica e cosmologica. Se le testimonianze in scrittura geroglifica divennero rapidamente inaccessibili, restando tali per secoli, la sua tradizione magica si offrì invece come un potente alleato per più di una schiera di ricostruttori di mondo dall’Ellenismo al Rinascimento italiano e oltre. Il lascito vivente dell’antico mondo egizio consistette essenzialmente nella sua meditazione metafisica sul limite che esiste tra il visibile e l’invisibile, tra la vita e la morte, e nel suo racconto dei movimenti magico-divini in grado di oltrepassare tale confine ultimo.

La stessa dinamica si può ritrovare anche altrove, per esempio nella morte e rinascita della civiltà vedica del subcontinente indiano. Dopo essere durato oltre un millennio, il mondo vedico svanì lasciando dietro di sé una labile traccia archeologica. Nonostante la scarsità del suo lascito materiale, tuttavia, le parole della cultura vedica i Veda riuscirono a passare indenni l’apocalisse della loro civiltà per andare a costituire i fondamenti del futuro induismo. Trasmessi per via orale per secoli, prima di essere organicamente messi per iscritto, i Veda fornirono una complessa gamma di riti e di meditazioni sulla funzione del sacrificio, inteso come lo strumento attraverso il quale gli esseri viventi possono ristabilire i contorni di un “mondo” nell’abisso di una realtà in sé priva di senso.

In tutti questi casi, ciò che rimase delle civiltà scomparse fu innanzitutto la loro capacità di aiutare i posteri a gestire i propri limiti esistenziali di fronte alla presenza traumatica di forze come la necessità, il potere, la morte e lo svanire del senso. L’eco di queste storie-mondo continuò a risuonare nel trauma esistenziale di coloro che vennero dopo la fine del loro tempo-segmento storico, e si rivelò essenziale per la ricostruzione di un nuovo cosmo dalle rovine del vecchio. In effetti, non vi è nessun’altra “rovina” se non ciò che sopravvive all’interno della lotta quotidiana dei singoli soggetti per crearsi un “mondo” in cui poter vivere. Qualunque lascito culturale fallisca questo requisito a prescindere da quanto grande o profondo sia stato il marchio materiale che ha lasciato sull’ambiente non può essere considerato una “rovina” di un mondo perduto, ma soltanto una sua traccia escrementizia.

Torniamo così, dopo un ampio giro, alla domanda che attanaglia gli abitanti della modernità occidentalizzata: che cosa resterà di noi? A oggi, vi sono ben pochi segnali che i resti della modernità occidentalizzata potranno evitare l’oblio dovuto a un fallimento estetico, salendo al rango di “rovine”. Solo la possibilità di mentire resta come ultima opportunità per gli abitanti di questo mondo prossimo alla morte. Una possibilità di riscattare se stessi, di imparare a morire bene e di alimentare l’accensione di una nuova cosmogonia. 

Una possibilità, per quanto tenue.


Federico Campagna (1984) è un filosofo italiano residente a Londra. Il suo pensiero si muove tra la metafisica, gli studi culturali e la teologia. Insegna Filosofia all’Accademia Reale d’Arte dell’Aja (kabk) e lavora presso l’editore Verso Books. Sta concludendo un dottorato al Royal College of Art di Londra sul rapporto tra la tradizione metafisica e il design dei mondi virtuali.
Con Edizioni Tlon ha pubblicato nel 2021 Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà.

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