Da dove nasce il complottismo?

Dall’antica Roma a QAnon, il complottismo presenta degli elementi ricorrenti, come il ricorso al sovrannaturale e la ferocia sui bambini. Riconoscerli ci aiuta a capirlo e a combatterlo.


In copertina, Incisione seicentesca del presunto martirio del Santo Niño de La Guardia

di Tommaso Guariento

 

Alle volte i demoni ritornano, anche se forse non come noi vorremmo. Io, in questo articolo, vorrei parlare dei demoni che s’impossessano di noi senza permesso.

Lo confesso: sono stato un complottista, ossessionato dai simboli, dalle coincidenze e dalle oscure trame che muovono il discorso occulto della storia. Circa dieci anni fa stavo conducendo delle ricerche intorno al simbolismo usato in alcuni testi dell’ultimo Heidegger, mi trovavo a Parigi, e giravo vorticosamente per biblioteche esoteriche alla ricerca di polverosi volumi di storia dell’alchimia.  Ero convinto che le parole criptiche del pensatore tedesco fossero in qualche modo riconducibili a un discorso orfico o alchemico, e che avesse lasciato delle tracce più o meno nascoste delle sue fonti. Qualche anno più tardi ho avuto modo di incontrare l’iconologia warburghiana, sempre cercando di individuare una chiave per interpretare i simboli nascosti che ormai si erano definitivamente scollegati dall’ermeneutica heideggeriana, assumendo una consistenza autonoma. Nel frattempo mi è capitato di avere una sorta di epifania rovesciata, e questo avvenne principalmente attraverso la riscoperta di un autore che avevo letto in adolescenza: Umberto Eco. Nei primi anni del liceo lessi e rilessi avidamente le pagine ingiallite di una copia de Il pendolo di Foucault appartenuta a mio padre. Lì per lì non capii bene il senso di tutte quelle lunghe discettazioni sulla massoneria, gli Illuminati, i Rosacroce e i Templari. Quando, molto più tardi, mi trovai tra le mani I limiti dell’interpretazione, compresi che la fascinazione per il simbolismo poteva affiancarsi a un metodo: un meccanismo ermeneutico che avrebbe potuto decidere razionalmente la validità o la scorrettezza di una pista interpretativa. Era il metodo di Popper e di Gombrich, una sorta di buon senso moderatamente razionalistico che prevedeva la selezione di un frame contestuale al quale subordinare i significati dei singoli simboli.

La cultura visiva e narrativa degli anni ’90 e dei primi 2000 era impregnata di conspiracy theories: le trasmissioni di Roberto Giacobbo, Twin Peaks, X Files, le avventure grafiche di Gabriel Knight, Dan Brown, i siti di ‘disinformazione’, e poi, ancora, l’11 settembre come inside job, Anonymous, Zeitgeist. Una vera e propria cultura del sospetto capillare, ma, in qualche modo, ancora innocua, eversiva ed escapista.

Nel dicembre del 2016, a seguito della vittoria alle elezioni americane di Donald Trump, scrissi un articolo per Prismo in cui cercavo di scorporare il fenomeno, allora agli albori, degli interessi esoterici dell’Alt-Right. Cinque anni dopo, Trump ha perso le elezioni, nonostante per settimane abbia dichiarato il contrario, ed il 6 gennaio un manipolo di suoi sostenitori ha cercato di compiere un assalto al parlamento. Ciò che ha infiammato questi ‘patrioti’ ha molto a che vedere con le forze oscure che hanno permesso la vittoria dell’ex presidente: la diffusione e la radicalizzazione di finzioni cospirative. La magia memetica dell’Alt-Right si è rimescolata e riconosciuta nel culto di Q, una specie di meta-cospirazione o singolarità cospirativa emersa nell’orizzonte mainstream durante i mesi centrali del 2020. Si tratta di una narrazione onnicomprensiva che rende conto dell’origine (artificiale) della pandemia, della necessaria vittoria di Trump, dell’intrinseca malvagità dei rappresentanti del partito democratico e, ancora, dei danni alla salute provocati dalle reti 5G e dai vaccini. Ho deciso di riprendere le fila di quel discorso, e anche di affrancarmi da alcune posizioni ch’io stesso ho espresso altrove in merito alla mentalità cospirativa.

Di cosa parliamo?

Innanzitutto vorrei sgombrare il campo da alcuni possibili fraintendimenti. In questo articolo non riassumerò dettagliatamente la dottrina di QAnon, né descriverò la struttura cognitiva della mentalità cospirativa. Piuttosto ho deciso di andare direttamente al centro della macchina mitologica di Q: l’antisemitismo e l’ideologia della difesa dei bambini. In secondo luogo, vorrei approcciare questo nucleo mitologico a partire da un gruppo omogeneo di romanzi incentrati sul tema della cospirazione (L’incanto del lotto 49, L’accademia dei sogni, Regno a venire, Satin Island). Gli ultimi tre, inoltre, sono caratterizzati da un’ ulteriore affinità tematica: i personaggi principali si muovono nell’ambito della pubblicità e del marketing. È possibile dimostrare che esiste, storicamente, una derivazione fra le accuse rivolte al popolo ebraico nel medioevo e in età moderna e lo sviluppo di un vero e proprio pensiero cospirativo – la teoria del complotto globale. Inoltre, se da un lato il genere letterario della detective story ha un’affinità strutturale e genealogica con le fabulazioni antisemite nella Francia del XIX secolo, il legame fra marketing e cospirazione sembra essere un tema molto più ‘post-moderno’.

L’origine della teoria del complotto giudaico-massonico, vedremo, è legata alla perversione di un discorso sulla manipolazione dell’opinione pubblica, discorso che oggi potremmo attribuire a PR e persuasori occulti. Infine, c’è una questione di tipo epistemologico, che lega l’uso politico dello storytelling pubblicitario alla costruzione di uno pseudo-ambiente informativo altamente polarizzato, nel quale le teorie cospirative sembrano aver trovato una nicchia ecologica molto fertile. Che rapporto c’è fra le nuove teorie cospirative, che gemmano negli angoli oscuri delle imageboards online e il rinascimento delle teorie della complessità?

Un’accusa millenaria

Quanto al pasto di sangue e alle consimili portate da tragedia, leggete se in qualche luogo non si trovi riferito – si legge, credo, in Erodoto – come certe nazioni il sangue versato dalle braccia dell’una e dell’altra parte e gustato – facevano servire alla conclusione di un patto. Non so qual bevanda del genere fu gustata anche per ordine di Catilina. Dicono anche che presso alcuni Gentili fra gli Sciti ogni defunto viene dai suoi mangiato. Ma mi allontano di troppo. Oggi il sangue della coscia tagliata raccolto nella mano e dato a bere rende iniziati i seguaci di Bellona. Del pari coloro che durante lo spettacolo, nell’arena, il sangue caldo dei criminali sgozzati, scorrente dalla gola raccogliendo, con avida sete bevono per guarire dal morbo comiziale, dove si trovano?” Tertulliano, Apologetico, 9, 8.

Immaginate che una setta di vampiri millenari tessa oscuramente le trame della storia. Chi sono? Cosa vogliono? Maledetti! Succhiarono il sangue agli schiavi romani, così come, nel Medioevo, ai servi della gleba. Nella società moderna si sono trasformati in ricchi borghesi e hanno continuato imperterriti a suggere il sangue dei proletari. Una storia semplice e lineare fatta di oppressori (pochi, bestiali e occultati) e oppressi (molti, sfruttati e poveri). Sembra quasi una storia vera. Anzi, a dire il vero è la storia raccontata nelle prime pagine del Manifesto del Partito Comunista, ma è anche un esercizio di apofenia storica, inventato da Rob MacDougall, chiamato, iconicamente, Paranoid Style.

Ho chiesto ad ogni partecipante di scegliere una figura storica nota. Poi ho detto loro che stavamo cercando le prove della cospirazione segreta dei vampiri che ha tirato le fila del mondo per centinaia di anni. Così abbiamo esaminato ciò che sapevamo su ciascuno dei nostri personaggi storici e abbiamo trovato le “prove” del ruolo di ciascuno a favore o contro la Grande Cospirazione dei Vampiri” (Rob MacDougall, Pastplay)

Il gioco d’immaginazione storica inventato da MacDougall e l’uso della metafora vampirica per descrivere le operazioni dei capitalisti da parte di Marx sono assimilabili a tecniche retoriche. In fondo, Marx è un materialista storico, e non crede all’esistenza di spietati demoni immortali assetati di sangue, ma fa un uso strategico della metafora: il furto di sangue è un simbolo più semplice e potente dell’estrazione del plusvalore. Il vampiro è un simbolo che connota immediatamente come non-umani i nemici contro i quali è rivolto: li rende odiosi e bestiali, ma anche oscuramente potenti.

Il mitologema dell’omicidio rituale è uno di quei demoni che, una volta evocati, seguitano ad infestare e parassitare le nostre menti. Noto agli studi storici sull’antisemitismo come ‘accusa del sangue’ esso designa “[…] ellitticamente l’accusa, rivolta contro gli ebrei, di usare il sangue dei cristiani come ingrediente dei cibi e delle bevande prescritti per le feste pasquali” (Furio Jesi, L’accusa del sangue). Nel saggio dello storico della mitologia Furio Jesi dedicato all’accusa del sangue l’omicidio rituale si mescola al tema del vampirismo nella letteratura tedesca di fine Ottocento e, tristemente, ad un processo svolto contro la comunità ebraica di Damasco nel 1840.

Le invarianti di questa accusa prevedono: una vittima (un infante), un rapimento svolto sotto compenso, un periodo connesso con attività liturgiche, degli esecutori (maschi adulti), una ‘scena del delitto’ nella quale il bambino è tenuto fermo su un altare o un tavolo, legato, ed al quale viene estratto il sangue; in seguito, il sangue viene poi raccolto e utilizzato come ingrediente per la preparazione di ostie contraffatte. Il cadavere, invece, viene fatto misteriosamente sparire. Jesi mostra inoltre come l’emergenza Medievale e Rinascimentale dei casi di processo per ‘rituali di infanticidio’ costituisca un caso particolare di costruzione del nemico e reversione mitologica.

L’accusa antica di omicidio rituale era infatti legata alla natura deicida del popolo ebraico e alla presunta volontà di poter godere, materialisticamente, del Mistero della Comunione. In luogo di consumare il sangue di Cristo, simbolicamente, nel corso della Messa, gli ebrei metterebbero in atto una falsa cerimonia, nella quale i bambini prendono il posto del corpo martirizzato di Cristo, ed il loro sangue viene connotato di funzioni mistiche e curative.

[…] gli ebrei sono così ostinati da non voler abbandonare la religione dei padri; essi però si trovano di fronte a prove irrefutabili della divinità di Cristo, vero messia, e quindi sono persuasi che un orrendo equivalente dell’eucarestia, il cibarsi di sangue cristiano, possa permettere loro di accedere alla salvezza (cristiana) nell’aldilà. In tal modo, uccidendo un cristiano e succhiandone vampiricamente il sangue durante la celebrazione della Pasqua (ebraica), essi credono di conciliare la religione di Mosè con quella di Gesù” (Furio Jesi, L’accusa del sangue)

Jesi parla di reversione del mito in relazione all’omicidio rituale perché l’accusa di far strage degli infanti era stata formulata originariamente dai pagani nei primi secoli dell’Impero contro i cristiani, e successivamente dai cristiani di nuovo contro ebrei, eretici (bogomili, templari, etc.) e streghe. Indagare la preistoria del mitologema dell’omicidio rituale è un compito difficile, perché mano a mano che si torna indietro nel tempo la confusione fra accuse, processi, superstizione e mitologia s’infittisce. Il grecista Albert Henrichs ha così riassunto la vicenda:

Le accuse di omicidio rituale, che sarebbe stato commesso da aderenti alla fede cristiana e che era noto a Plinio e Tacito, potrebbero essere state il risultato di una campagna anti-cristiana lanciata dagli ebrei romani, forse nei primi anni del regno di Nerone. Questa campagna fu un’azione di autodifesa, con la quale gli ebrei romani cercarono di sottrarsi a simili accuse che Apione (presumibilmente assieme ad altri greci alessandrini) aveva fatto circolare a Roma meno di un decennio prima” (Albert Henrichs, Pagan ritual and the alleged crimes of the early Christians: A reconsideration)

Il contenuto mitologico dell’accusa del sangue antica prevedeva, come nel caso dell’antisemitismo, una serie di elementi invarianti: l’uccisione rituale di infanti, il sangue raccolto e distribuito fra i partecipanti, il sigillo di un voto e, infine, una conclusione orgiastica. La difficoltà di ricostruire l’origine di questo rito consiste nel fatto che, sebbene tale racconto venga utilizzato come argomento d’accusa contro varie minoranze (religiose, sociali, politiche), non sembra esserci un antecedente storico contenente tutti gli elementi invarianti del racconto. In alcuni casi non ci sono bambini, in altri manca la parte orgiastica o il giuramento, in altri ancora, infine, è il sangue di animali ad essere raccolto. Henrichs riporta un documento del secondo secolo d.C. (le Phoinikika, ‘storie fenicie’ di un certo Lolliano) che contiene la scena completa, ma si tratta di un romanzo e la veridicità del rito descritto è discutibile. L’unica conclusione probabile alla quale il grecista è giunto è la delimitazione geografica dell’area di diffusione del rituale (e delle narrazioni ad esso collegate):

È probabile che il sacrificio umano a scopo rituale fosse praticato in Egitto, Siria e Nord Africa fino all’età imperiale. Questo spiegherebbe perché

1) il presunto omicidio rituale degli ebrei descritto da Apione (un nativo egiziano),

2) i riti degli gnostici egiziani (che erano completamente impregnati di mitologia pagana e pratiche di culto) descritti da Clemente Alessandrino ed Epifanio,

3) i presunti crimini cristiani descritti da Tertulliano (un nordafricano) e Minucio Felice (che conosceva un testo anticristiano di Marco Cornelio Frontone, un altro nordafricano),

4) la scena rituale dei Phoinikika (molto probabilmente da localizzare in Egitto)

ripetono uno schema rituale correlato e largamente identico” (Albert Henrichs, Pagan ritual and the alleged crimes of the early Christians: A reconsideration)

Dal punto di vista di un’archeologia dell’immaginario, che questa storia sia vera, falsa o parzialmente falsa, poco importa, quello che ci dovrebbe interessare, invece, sono gli effetti, le metamorfosi e la struttura del mitologema. Si tratta infatti di un’accusa perfetta: la vittima, il bambino, è l’immagine pura dell’innocenza alla quale si contrappone la sproporzionata violenza dell’atto criminale. È un racconto talmente efficace che l’assenza di prove non costituisce un problema, anzi, è proprio il meccanismo che rende possibile il dispiegarsi di un oscuro alone di panico e frenesia, oltre che il motore principale per le vaste indagini che ne conseguiranno. L’affaire di Damasco analizzato da Jesi rimette in scena, in un contesto moderno, le stesse dinamiche inquisitorie delle accuse antisemite antiche e medievali. Ciò che emerge da un’attenta lettura degli atti processuali è che l’omicidio rituale del frate cappuccino Tommaso, di cui furono accusati sedici ebrei, è che l’evento si svolse a seguito di un periodo di persecuzioni anticristiane condotte da estremisti islamici. In altre parole, in una situazione di crisi per la comunità cristiana in Siria ed in un contesto internazionale di progressiva ‘emancipazione’ del popolo ebraico agevolata dalle leggi napoleoniche, le arcaiche superstizioni contro la razza ‘deicida’ riemergono, oscurando il corretto svolgimento delle indagini e rendendo il processo una perversa caccia alle streghe.

Il mitologema dell’accusa del sangue ha una controparte negativa, il vampiro, che nasconde sotto le sue mostruose spoglie l’eterno nemico ebraico. L’accusa del sangue diventerà il nucleo immaginario del razzismo antisemita nei primi anni del ‘900. L’odio antiebraico non si fonda (solamente) su una presunta gerarchia delle ‘razze’, ma crede nell’esistenza di cerchie di individui malvagi e nascosti che si manifestano con un aspetto apparentemente civile ed intellettuale, mentre mascherano una natura essenzialmente malvagia e bestiale.

L’ebreo è il diverso perché possiede il denaro contante e anche quel denaro metafisico che consiste nell’Antico Testamento. Al cristiano egli impresta il denaro contante e il denaro segreto, l’oro e la Torah; ma, in cambio e con largo interesse di usura concreta e spettrale, egli protende la mano, afferra, è il diverso che afferra e trascina nel suo segreto i debitori: vittime rituali, anziché iniziati” (Furio Jesi, L’accusa del sangue)

Il contagio della follia

Esiste un mondo sotterraneo dove fantasie patologiche travestite da idee vengono sfornate da truffatori e fanatici semi-istruiti a beneficio di ignoranti e superstiziosi. Ci sono momenti in cui questo inferno emerge dalle profondità e improvvisamente affascina, cattura e domina moltitudini di persone solitamente sane e responsabili, che si congedano dalla sanità mentale e dalle responsabilità. E occasionalmente accade che questo mondo sotterraneo diventi un potere politico e cambi il corso della storia” (Norman Cohn, Licenza per un genocidio)

I tedeschi non vedevano l’ora di uscire dalla loro prigione. La sconfitta, l’inflazione, assurde richieste di riparazioni di guerra, la minaccia dei barbari che venivano dall’Est. La pazzia li avrebbe resi liberi, e quindi decisero di mettere Hitler a capo di questa battuta di caccia. È per questo che sono rimasti insieme fino alla fine. Avevano bisogno di venerare un dio psicopatico e quindi hanno preso un signor nessuno e lo hanno posto sull’altare maggiore. È così che le grandi religioni diventano cose millenarie […] La gente ha deliberatamente deciso di ritornare a uno stato primitivo. Sente il bisogno del magico e dell’irrazionale. Cose che sono state molto utili in passato e potrebbero tornare a esserlo. Vogliono di nuovo i secoli bui del Medioevo. Le luci sono accese, ma la gente si sta rifugiando in un’oscurità interiore, nella superstizione e nell’irragionevolezza. Il futuro sarà una lotta tra vasti sistemi di psicopatologie, tutte volontarie e intenzionali, che faranno parte di un tentativo disperato di fuggire dal mondo razionale e dalla noia del consumismo” (James Ballard, Regno a venire)

Fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX assistiamo all’emergenza, in Francia, di un nuovo tipo di ‘accusa del sangue’. Come rileva lo psicologo Rob Brotherton in Menti Sospettose, le teorie del complotto dell’antichità – di cui l’accusa del sangue fa parte – erano localizzate, descrivevano macchinazioni politiche e intrighi che riguardavano gli Arcani del Potere, come l’incendio di Roma attribuito a Nerone. Si trattava, inoltre, di narrazioni che, pur essendo false, risultavano verosimili – storie che si potrebbero leggere nei drammi di Shakespeare. Di diverso conio sono le cospirazioni moderne, le quali hanno un’origine molto precisa: la Rivoluzione Francese. A otto anni dallo scoppio dell’evento rivoluzionario, nel 1797, l’abate Barruel pubblica in cinque volumi le Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme. Questo libro è un esempio paradigmatico di quello che Brotherton chiama pregiudizio di proporzionalità, ovvero l’illusione per cui “[…] la grandezza di un evento sia pari alla grandezza di qualsiasi cosa l’abbia causato. Quando il risultato di un evento è significativo, importante o in qualche modo profondo, siamo inclini a pensare che deve essere stato causato da qualcosa di altrettanto significativo, epocale o profondo” (Rob Brotherton, Menti sospettose).

È difficile sottostimare il peso storico della Rivoluzione, così come il panico e la confusione prodotti dall’epoca del Terrore. La destra conservatrice e i liberali lessero questi eventi in modo catastrofico – qualcosa di troppo grande per essere riassorbito (la fine dell’Ancien Régime, il crollo delle certezze sociali, l’instabilità dello Stato, etc.) A fronte di un avvenimento così estraneo e improvviso, Barruel ricostruisce una massiccia rete storico-causale che inizia con la sopravvivenza dell’Ordine dei Templari (in realtà sciolto nel 1314) e prosegue nelle peripezie storiche che mescolano i cavalieri con tutte le congiure volte alla destabilizzazione della società, alla distruzione della gerarchia feudale e alla destituzione del potere di nobili ed ecclesiastici. Essi s’impossessarono della Massoneria nel XVIII secolo e soggiogarono i Giacobini ai loro piani di dominazione attraverso la mediazione degli Illuminati di Baviera. Questi ultimi, fondati nel 1776 da un minuscolo gruppo di studenti, destavano sospetti più per la segretezza di cui si vantavano che per gli scopi malvagi della loro associazione, la quale aveva in realtà come obiettivi la diffusione del pensiero scientifico, il culto della Ragione e la beneficenza nei confronti degli oppressi. Nelle Memorie di Barruel erano menzionati vari cospiratori, ma non c’era un’accusa diretta al popolo ebraico. Questa gli è stata suggerita in seguito da un certo Simonini, che rivela la dipendenza di Massoni, Illuminati e rivoluzionari da un misterioso concilio ebraico. Egli afferma inoltre che gli ebrei stiano preparando il tempo escatologico della venuta dell’Anticristo, un tempo di anomia e falsi profeti, e per questo, ovunque, nel mondo si associano ai nuclei del potere economico, politico e culturale.

Coloro che si identificavano con l’Ancien Régime dovevano rendere conto in qualche modo del crollo di un ordine sociale che consideravano ordinato da Dio. Il mito della cospirazione giudeo-massonica forniva loro la spiegazione che aspettavano” (Norman Cohn, Licenza per un genocidio)

Il pregiudizio di proporzionalità non è l’unico errore cognitivo compiuto da chi crede nella cospirazione globale, vi è anche una sovrastima dell’efficacia di un nemico onnicomprensivo e invisibile, e un collasso dei livelli nella spiegazione causale dei fenomeni storici. La narrazione del complotto giudaico-massonico non è affatto semplice: al contrario, essa è pletorica, barocca, articolata. Quello che è dipinto in maniera stereotipata, invece, è il movente di chi cospira: la volontà di potenza, il male assoluto, la pura espressione di una natura intrinsecamente malvagia.

Quando noi commettiamo azioni malvagie, siamo bravissimi a razionalizzare il nostro comportamento, giudicandolo un momentaneo cedimento o una reazione ragionevole e giustificata dalle circostanze. Quando sono gli altri a commetterle, però, pensiamo che sono persone cattive fino al midollo; diamo per scontato che i delinquenti agiscano principalmente per un impulso di sadismo e cattiveria, che infliggano dolore per il puro piacere di farlo, a danno di vittime del tutto innocenti” (Rob Brotherton, Menti sospettose)

Le deliranti idee di Barruel restano inascoltate per alcuni anni e riemergono con forza in Russia, Francia e Germania alla fine del XIX secolo per poi diventare il fulcro della propaganda nazista nei primi decenni del XX secolo. La storia della fabbricazione del complotto giudaico-massonico e i suoi legami con l’antico mito dell’accusa del sangue sono descritti dettagliatamente nel saggio di Norman Cohn, Licenza per un genocidio, e narrati in forma romanzata da Umberto Eco ne Il cimitero di Praga. Non è necessario in questa sede riassumere tutte le contraffazioni e le invenzioni che hanno caratterizzato questa triste vicenda di follia collettiva, quello che ci interessa è sottolineare come la reversione mitologica descritta da Jesi in rapporto all’accusa del sangue sia l’elemento centrale di tutte le teorie cospirative successive.

Il documento che più di tutti ha contribuito a una diffusione della cospirazione ebraica è un falso, una finzione narrativa opera di uno scrittore antisemita tedesco (Herrmann Goedsche) spacciata come fuga di notizie: i Protocolli dei Savi di Sion.

I Protocolli pretendono di essere gli atti del convegno segreto di un gruppo di cospiratori ebrei che pianificano un’infiltrazione della società a tutti i livelli: l’economia, la stampa, l’esercito, i partiti politici, eccetera. La vittoria di questo complotto porterà a una monarchia ebraica che dominerà sul mondo. I Protocolli sono accompagnati da un “post-scriptum del traduttore” in cui si spiega che il testo è la versione aggiornata di un progetto cospirativo ideato da Salomone e dai Savi di Sion nel 929 a.C.” (Carlo Ginzburg, Rappresentare il nemico. Sulla preistoria francese dei Protocolli)

Sebbene le notizie sulla formulazione originale dei Protocolli siano tutt’ora oggetto di discussione fra gli storici, quello che conta è che il contenuto politico della cospirazione – il controllo della stampa, dei partiti politici e dei sistemi economici – è stato letteralmente saccheggiato da un testo precedente (il Dialogo agli Inferi tra Machiavelli e Montesquieu), attribuito a Maurice Joly, un avvocato francese. Lo scopo di Joly era quello di criticare in modo ambiguo il nuovo paradigma politico instaurato da Napoleone III a seguito del colpo di stato del 2 dicembre 1851. Il testo è ambiguo perché la tesi dell’autore non è nettamente delineata: egli sembra alle volte propendere per posizioni che disapprova – quelle ciniche e manipolatorie di Machiavelli, che nei dialoghi assume il ruolo di Napoleone III. Dall’analisi dei Dialoghi che ne dà Carlo Ginzburg ricaviamo due punti essenziali che ci consentiranno di delineare più chiaramente il nesso fra manipolazione dell’opinione pubblica e teorie cospirative.

L’idea centrale dei Dialoghi è che la democrazia moderna sia una farsa: i cittadini non hanno bisogno del diritto di voto, del parlamento, delle elezioni – essi devono essere controllati e dominati da un sistema capillare di controllo mediatico e poliziesco. Il secondo elemento importante per comprendere la genesi dei Protocolli a partire dai Dialoghi di Joly è l’enorme scalpore provocato dall’affaire Dreyfus nell’Europa fin de siècle. La vicenda è nota: si trattò di un processo svolto contro il capitano alsaziano Alfred Dreyfus, ebreo, accusato di aver compiuto degli atti di tradimento e spionaggio per conto della Germania. Il centro del dibattito che divise l’Europa riguardava non solo la recente perdita dei territori dell’Alsazia e della Lorena da parte della Francia ma anche la cosiddetta ‘questione ebraica’. La domanda era posta in modo brutale: quanto ci si può fidare di una popolazione che, in seno agli stati-nazione, continua a vivere in maniera occultata, pratica strani riti incomprensibili e che annovera fra i suoi membri rappresentanti del potere politico, economico, culturale e artistico? Il processo alla comunità ebraica di Damasco e l’affaire Dreyfus evidenziano l’esistenza di un clima generale di sospetto e rabbia, ed è proprio in questo clima che vengono fabbricati i Protocolli.

È praticamente certo che i Protocolli siano stati fabbricati tra il 1894 e il 1899, molto probabilmente nel 1897 o 1898. Il paese era senza dubbio la Francia, come è dimostrato dai molti riferimenti agli affari francesi. Si può supporre che il luogo fosse Parigi e si può si può essere ancora più precisi: una delle copie del libro di Joly alla Bibliothèque Nationale porta segni che corrispondono in modo impressionante ai prestiti nei Protocolli” (Norman Cohn, Licenza per un genocidio)

Le successive vicende del ‘successo’ dei Protocolli e di simili teorie cospirative sono tristi e orribili: esse documentano la caduta nell’irrazionale di larga parte dell’opinione pubblica europea – il milieu culturale nella quale si sono radicati i totalitarismi. I Protocolli circolano nella stampa antisemita russa, francese, tedesca, polacca, italiana, inglese, spagnola e americana. Spesso sono affiancati dalla ripresa dell’accusa del sangue. Quello che rende inquietante questa vicenda di follia e contagio irrazionale è la generale indifferenza che ne ha favorito la diffusione.

Gruppi di estrema destra come le Centurie Nere russe e il partito nazional-socialista tedesco arrivarono ad assumere una posizione completamente irrazionale: anche se i Protocolli sono stati contraffatti, la cospirazione ch’essi svelano è reale. Avendo oltrepassato il limite della credibilità e della provabilità di una teoria cospirativa, si entra nel regno della reversione mitologica, quello che assume, mimeticamente, la posizione del nemico. Questo è quello che è accaduto con i Protocolli e l’idea del complotto giudaico-massonico: nel momento in cui si accetta un’ipotesi così radicata da diventare una credenza religiosa, la quale non richiede delle prove per essere dimostrata, allora è possibile impegnarsi attivamente nell’attuazione di una simile cospirazione, questa volta di senso inverso.

Adolf Hitler incorporò la visione di un apocalittico complotto ebraico nella sua piattaforma politica, usandola poi per giustificare le sue macchinazioni da vero cospiratore contro gli ebrei di tutta l’Europa. A Hitler, i Protocolli dei Savi di Sion servirono ben di più della semplice possibilità di lanciare uno sguardo nelle tattiche del nemico; essi fornirono un modello per la sua corsa la potere” (Rob Brotherton, Menti sospettose)

Il tema centrale dell’ultimo romanzo di James Ballard, Regno a venire, su cui torneremo, è la metamorfosi del tardo capitalismo in una sorta di fascismo consumista. Ambientato nelle anonime periferie britanniche, Regno a venire è un romanzo distopico che cerca di comprendere come una comunità rurale, devastata dalle trasformazioni urbanistiche e inquietata dai fenomeni migratori, possa inabissarsi in una follia neomedievale – un culto della violenza e della merce. La spiegazione elaborata da Ballard è che l’unione di nichilismo, consumismo e noia vada a creare un cocktail instabile di disaffezione e ricerca della violenza. Una violenza che s’insinua nelle menti dei cittadini come un contagio di follia, manovrato e accelerato da strategie pubblicitarie. La follia è liberatoria, poiché permette di svincolarsi dai legacci della responsabilità: è un modo per rendere attiva l’altrimenti passiva alienazione nelle merci. Norman Cohn si pone le stesse domande in relazione all’emergenza di un antisemitismo assassino in Russia, Germania ed Austria nei primi decenni del XX secolo. Che cosa ha contagiato le menti delle classi medie (piccoli commercianti, tecnici, studenti) al punto da renderle indifferenti e cieche rispetto a quanto si stava consumando? Cohn menziona uno studio condotto su una città tedesca di medie dimensioni dal ’30 al ’35: non è tanto l’estensione dell’adesione alle idee antisemite ad aver permesso la diffusione dell’ideologia nazista, ma la contemporanea presenza di un’opinione pubblica indifferente e di gruppi di fanatici estremamente convinti. In altre parole, la propaganda aveva contagiato le menti di una minoranza rabbiosa e anestetizzato quelle della maggioranza silenziosa.

[…] la maggior parte della popolazione tedesca non fu mai veramente fanatizzata contro gli ebrei, né fu ossessionata dal mito della cospirazione mondiale ebraica, e non pensava alla guerra come una lotta apocalittica contro “l’Ebraismo eterno” – ma d’altra parte si dissociò sempre di più dagli ebrei con il passare degli anni […] Nella mente della maggior parte dei tedeschi, gli ebrei cessarono del tutto di essere considerati come compatrioti, le ultime tracce di solidarietà scomparvero; per quanto riguarda gli ebrei nei paesi occupati dai tedeschi, quasi nessuno li considerava. Uno stato d’animo di passiva condiscendenza divenne generale. E nel frattempo i fanatici, non più numerosi di prima, acquisivano una nuova importanza. Sparsi tra la popolazione civile e le forze armate c’erano individui, certamente in numero di molte centinaia di migliaia, forse anche un paio di milioni, che accettavano il mito della cospirazione con tutte le sue implicazioni omicide e che erano pronti a denunciare chiunque lo mettesse in dubbio al Servizio di Sicurezza” (Norman Cohn, Licenza per un genocidio).

La scena del crimine

L’affaire di Damasco analizzato da Furio Jesi rappresenta un caso paradigmatico di manifestazione storica e giuridica di un sostrato mitologico. Il 5 febbraio 1840 padre Tommaso da Calangiano e il suo servitore scompaiono. I cristiani si rivolgono al console francese perché faccia partire un’indagine. L’ultimo posto dove il frate ed il suo servo sono stati visti, al tramonto, è il quartiere ebraico. Pochi giorni dopo la notizia viene comunicata al governatore generale della Siria e al ministro degli esteri francese. I quartieri ebraici vengono perquisiti dalla polizia, e un barbiere ebreo desta particolare sospetto. Egli aveva affisse sulla porte delle ostie (una di colore rosso) lasciate dal frate. Al barbiere vengono estorte delle confessioni attraverso ripetute fustigazioni. Il barbiere, infine, testimonierà che sette personaggi di rilevo della comunità ebraica (un rabbino e dei commercianti) gli chiesero di partecipare a un omicidio rituale, ma egli negò, anche a costo di rifiutare un compenso pecuniario. Il barbiere e il servo di un ricco commerciante accusato dettagliano in modo ancora più preciso l’omicidio rituale, affermando di aver visto una scena con un corpo legato e successivamente scannato in modo da far colare il sangue in un bacino. Infine, i resti sarebbero stati gettati nelle fogne. Le prove che porteranno all’accusa dei membri della comunità ebraica provengono da testimonianze estratte sotto tortura, e materialmente, consistono in mucchi di ossa umane reperite nelle fogne, un berretto e l’ostia.

Nel corso del processo contro Dreyfus, il principale documento utilizzato dall’accusa come prova della colpevolezza del capitano alsaziano è un testo contraffatto, il cosiddetto ‘bordereau’, contenente alcune informazioni sull’artiglieria francese da vendere ai tedeschi. A verificare la (falsa) corrispondenza fra la calligrafia di Dreyfus e quella dell’anonimo autore del bordereau è Alphonse Bertillon, il criminologo francese che ha sviluppato tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 le nuove tecniche scientifiche per l’analisi delle scene del crimine. Bertillon è noto per aver introdotto due dispositivi di indagine molto importanti: la fotografia metrica e i ritratti segnaletici. I secondi costituiscono gli antesignani dei nostri documenti d’identità, e introducono la doppia prospettiva (di fronte e di lato). Le fotografie metriche, invece, sono un dispositivo di rappresentazione e classificazione delle ‘scene del crimine’, che utilizzano una sofisticata griglia prospettica e un insieme di regole di produzione e decifrazione dell’immagine. Lo scopo della costruzione visiva della scena del crimine è quello di realizzare un archivio di tipologico di oggetti, corpi, posture, e indizi. Si tratta quindi di uno strumento che codifica le regole di abduzione del crimine, che procedono dal presente alla ricostruzione del passato.

Dietro questo esercizio dell’occhio, si profila un appello all’intelligenza e all’intuizione dell’investigatore, un ‘paradigma indiziario’ utilizzato, fra gli altri da Sherlock Holmes. Rivelando indizi o confermando sospetti, queste fotografie dovrebbero permetterci di “ricostruire nell’immaginazione” tutti i gesti dei vari protagonisti dell’evento. La scena del crimine è davvero un palcoscenico, il teatro di un dramma” (Teresa Castro, Une cartographie du crime : les images d’Alphonse Bertillon)

Il punto di vista delle scene del crimine di Bertillon è la vista dall’alto, propria delle figurazioni pittoriche dei paesaggi, della cartografia scientifica e della prospettiva divina. Come lo sguardo del narratore onnisciente, l’occhio della camera criminologica scende sopra i corpi e gli indizi, entra dentro le stanze borghesi per rivelarne gli oscuri misteri. Il sintagma ‘paradigma indiziario’ rimanda a un importante saggio di Carlo Ginzburg che descrive l’essenza del metodo dell’abduzione attraverso una genealogia medica, psicanalitica ed iconografica. Ciò che accomuna il cercatore di simboli, patologie, crimini e traumi psicologici è una struttura deduttiva basata sullo studio di casi singoli, frammenti che poi vengono ricomposti nell’immaginazione. È chiaramente anche la prerogativa di un certo tipo di storiografia, nella quale Ginzburg s’inscrive. In un recente saggio dello studioso di visual culture W.J.T. Mitchell, Method, Madness and montage il paradigma indiziario di Ginzburg è associato in generale al nostro rapporto contemporaneo con le immagini.

La forma simbolica del paradigma indiziario, dispersa fra narrazioni, figurazioni e interfacce, è l’atlante. Per ‘atlante’ Mitchell intende un qualsiasi tipo di organizzazione planare di immagini su una superficie. Il termine rinvia storicamente ai raggruppamenti biologici, medici, cartografici ed estetici di classi di immagini collegate fra loro da somiglianze di famiglia e reti causali. Una tavola che mostra le mutazioni filogenetiche di una classe di organismi è un atlante, così come lo è un albero genealogico. Ma le connessioni fra le parti non devono per forza avere una struttura arboriforme, e gemmare da un unico tronco comune, possono rappresentare anche legami di somiglianza più confusi, simili ad un campo di forze. L’esempio paradigmatico della forma simbolica dell’atlante visivo è il crazy wall: la superficie costellata di documenti, mappe e fotografie connesse da fili rossi o linee tracciate con pennarelli che compare inevitabilmente in ogni detective story.

L’atlante delle immagini sembra apparire con notevole frequenza nei film di spionaggio e di investigazione criminale. Una caratteristica standard dei film polizieschi è la scena dell’atlante murale improvvisato, con le foto di tutti i sospetti e la loro posizione in una struttura aziendale/familiare. In alternativa, c’è l’atlante cartografico a muro, che mappa i patterns nella posizione delle scene del crimine, o la serie di vittime esposte come trofei dal serial killer stesso, e imitata dall’investigatore nella raccolta delle prove. [Nella serie televisiva] True Detective (USA, 2014) il poliziotto che persiste ossessivamente nelle indagini su un omicidio accaduto vent’anni prima […] costruisce un montaggio di prove che imita la scena stessa del crimine rituale” (W.J.T. Mitchell, Method, madness and montage)

[…] i miei dossier consistevano in gran parte di ritagli appiccicati alle pareti, con linee che li collegavano e annotazioni, che solo io riuscivo a leggere, scarabocchiate a margine. Restavano appesi per un po’, poi li sostituivo con i successivi […] Ogni tanto capitava che un dossier personale si sovrapponesse all’improvviso e senza preavviso a uno di un cliente, o a diversi dossier di entrambi, in modi inattesi e sorprendenti, con analogie e coincidenze che si materializzavano tra contesti che, in superficie, sembrava non avessero niente in comune. Quando succedeva sentivo una fitta improvvisa, mi si rizzavano i peli della nuca: il rimescolarsi, il rianimarsi della fantasia che, come nei romanzi hard boiled e nei film noir, un giorno si sarebbe scoperto che tutte le varie pratiche erano sempre state in rapporto tra loro, e la loro improvvisa fusione mi avrebbe condotto a risolvere il caso” (Tom McCarthy, Satin Island)

Il crazy wall del detective è un’immagine speculare della scena del crimine. L’iconografia classica di questo atlante indiziario rimanda alla struttura visiva delle mappe e delle reti causali. La scena del crimine, invece, è spesso presentata come un enigma e come un messaggio cifrato. Chi ha compiuto l’omicidio rituale ha anche voluto lasciare una manciata di segni e impronte che si rivelano nella scena teatrale del crimine: la postura del corpo, le sue menomazioni ed escrescenze, la posizione geografica, gli oggetti che costellano l’area delle indagini.

Sia il crazy wall che la scena del crimine sono espedienti narrativi centrali nel genere noir e nelle detective stories, ma cosa succede quando la distinzione fra fatti e finzioni inizia a sfumare? L’affaire di Damasco e l’affaire Dreyfus sono accomunati dalla stessa matrice antisemita: le indagini che dovrebbero verificare la veridicità delle accuse nei confronti degli imputati ebrei sono tendenziose, incomplete e volutamente contraffatte. L’intervento di Bertillon in qualità di esperto grafologo e detentore di un sapere indiziario dimostra l’inefficienza, il razzismo e l’imprecisione della nascente criminologia.

Il mitologema dell’omicidio rituale – l’accusa del sangue rivolta contro gli ebrei – è stato oggetto di varie reinterpretazioni nel corso del ‘900. Ad esempio, è possibile mantenere la stessa scena, variando i carnefici: gli ebrei vengono sostituiti dai satanisti e l’omicidio rituale può trasformarsi in omicidio seriale. Un case study particolarmente interessante e ambiguo, che permette di tracciare questa seconda trasformazione, è quello del film M, Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang. Ambientato nell’epoca della Repubblica di Weimar, il film descrive le vicissitudini della polizia di Berlino e di un gruppo di criminali alla ricerca di un omicida seriale di bambini. Il film riprende una serie di fatti di cronaca che hanno catturato l’attenzione della stampa tedesca negli anni ’20: omicidi a sfondo pediofilo o sessuale. I film espressionisti tedeschi dei primi decenni del ‘900 hanno influenzato la genesi del cinema noir americano degli anni ’40: le forme visive e gli archetipi narrativi viaggiano assieme ai registi tedeschi e si installano ad Hollywood, Chicago e New York. M, il mostro di Düsseldorf è particolarmente importante perché costituisce un punto di contatto (involontario) fra l’accusa del sangue e la nascita dello stile paranoico. La sceneggiatura del film è firmata da Fritz Lang, che era ebreo, e da sua moglie, Thea Harbou, che invece appoggerà completamente l’ideologia nazista. L’omicida seriale protagonista del film, interpretato da Peter Lorre, ha delle caratteristiche che lo connotano inevitabilmente come un ebreo. Nella famosa scena della confessione, il killer rivela ai criminali di essere destinato a commettere quegli omicidi orribili, e, benché non riesca a ricordare gli avvenimenti, è perseguitato dai fantasmi delle colpe.

Lorre interpreta un personaggio ambiguo, frutto dell’isteria mediatica scaturita da una sequenza di eventi di cronaca nera, colpevole ed allo stesso tempo innocente, efferato e infantile, apparentemente normale e mostruoso. Il film riesca a cogliere, profeticamente, un’atmosfera di follia collettiva che sfocerà nell’antisemitismo conclamato del partito nazionalsocialista e nella volontà di violenza di una parte della classe borghese tedesca ed austriaca. L’opera di Lang, inoltre, fornirà una rappresentazione archetipica del ‘criminale ebreo’, che verrà successivamente integrata ne L’ebreo eterno (1937) un orribile documentario antisemita che preleverà a piene mani dalla retorica dell’accusa del sangue e dei Protocolli dei Savi di Sion.

 

La pista satanica

Allora apparve l’altare, un normale altare di chiesa, sormontato da un tabernacolo, in cima al quale s’innalzava una figura del Cristo modificata in maniera infame. Gli avevano rialzato il capo, allungato il collo, e rughe dipinte sulle guance facevano del volto doloroso un ceffo torto in una risata oscena. Era nudo e, al posto del panno che abitualmente gli cinge i fianchi, sorgeva da un batuffolo di crine un fallo in erezione. Davanti al tabernacolo era posato un calice coperto dalla palla: il chierichetto spianava la tovaglia dell’altare, muoveva i fianchi, si alzava su un piede come per volare, giocava al cherubino col pretesto di arrivare ai ceri neri, il cui odore di pece e di bitume si sommava ora agli effluvi pestilenziali del luogo” (Joris-Karl Huysmans, L’Abisso)

Tendaggi neri o viola, candele nere e abiti dello stesso colore, scarpe scarlatte e manufatti esoterici (un cranio umano con occhi scavati oppure pietre rosse infilate in zoccoli di animali), gocce di cera o residui di sostanza ematica. E poi le tracce grafiche e figurative: disegni raffiguranti pentacoli rovesciati e il simbolo del Bafometto e la scritta «ANATAS», ossia Satana letto al contrario” (Selene Pascarella, I Satanisti ammazzano al sabato)

L’antisemitismo è il caso storico più drammatico e documentato di panico morale, una situazione sociale di paura, inquietudine e violenza che si manifesta a seguito di eventi particolarmente disturbanti, e si rivolge contro gruppi discriminati. Abbiamo descritto l’omicidio rituale dall’interno mostrando il contenuto narrativo dell’accusa del sangue e della fantasia del complotto giudaico-massonico. Da un punto di vista esterno e genealogico, è facile constatare come l’iconografia della scena del crimine rituale possa riemergere in contesti eterogenei. I casi più rilevanti di moral panic contemporanei hanno a che vedere con il cosiddetto satanic ritual abuse (SRA).

L’SRA è assurto agli onori delle cronache nordamericane nel 1980, con il primo libro di una “sopravvissuta all’SRA”, Michelle Remembers, che descriveva orrende violenze sessuali e fisiche presuntamente subite dalla co-autrice, Michelle Smith. Smith descriveva i propri carnefici come satanisti persuasi che il dolore inflitto alle loro vittime avrebbe aumentato i loro poteri magici. [Secondo Smith] erano anche dediti al cannibalismo e a sacrifici umani. Non vi è documentazione di casi di SRA prima del 1980, ma dopo l’uscita di Michelle Remembers vi fu un’esplosione di casi del genere” (Luther Blisset, Lasciate che i bimbi)

Il legame fra satanismo, antisemitismo e pedofilia è stato meticolosamente descritto da Luther Blisset in un libro uscito negli anni ’90 (Lasciate che i bimbi) a seguito di una serie di azioni e inchieste svolte contro la stampa ultraconservatrice italiana. In seguito, il collettivo Wu Ming (costituito da una parte dei membri del progetto Blisset) tornerà più volte sulla questione nel blog Giap (ad esempio l’inchiesta di Selene Pascarella, I satanisti ammazzano al sabato) e, a breve, Wu Ming 1 pubblicherà per i tipi di Alegre una monografia su QAnon (La Q di Qomplotto) nel quale convoglieranno tutti questi elementi (accusa del sangue, fantasie del complotto, casi di panico morale, SRA).

L’epidemia di SRA, abbiamo visto, ha inizio negli anni ’80 in America, anche se evidentemente si può retrodatare ai processi per stregoneria del XVII secolo (i demoni di Loudun) e del XIX (il caso di Salem). Vi sono però dei tratti specifici nei casi contemporanei di SRA: i bambini come testimoni delle violenze, l’intermediazione di psicologi e psicologhe e il ruolo sociale degli accusati (genitori, educatori, tutori). Lo svolgimento dei fatti è inesorabilmente lo stesso, dalla California alla Bassa Modenese: c’è un paziente zero, un bambino, che rivela qualcosa di strano ai genitori o a una maestra, l’interrogatorio passa dalle mura familiari agli interrogatori giudiziari e alle perizie psichiatriche. Il bambino asserisce di essere stato oggetto di violenze, ed accusa prima una, poi un gruppo sempre più vasto di persone. Si aggiungono dettagli scabrosi: non ci sono solo abusi sessuali, ma anche scene tratte dall’immaginario horror: cimiteri, tunnel sotterranei, mattatoi, mutilazioni, rituali, maschere, simbologie sataniche. Il racconto del bambino viene confermato e ripetuto da altri testimoni, sempre bambini. Come nei processi antisemiti di Damasco e del caso Dreyfus, i SRA presentano una rivelatoria fragilità, assenza o contraffazione delle prove documentali.

“Durante gli anni ’80 molti ufficiali di polizia si unirono all’industria dell’SRA […] Ma divenne presto evidente che non c’era alcuna prova documentale dell’esistenza di complotti satanici. Se le testimonianze dei “sopravvissuti” fossero state vere, le prove sarebbero state visibili […] Vi erano molte prove testimoniali, vale a dire i ricordi di centinaia di “sopravvissuti” bambini e decine di migliaia di “sopravvissuti” adulti. Secondo molti esperti si tratta di falsi ricordi, creati nelle menti dei bambini da scorrette procedure di interrogatorio, e in quelle degli adulti da capziose pratiche psicoterapeutiche” (Luther Blisset, Lasciate che i bimbi)

Il panico morale è l’altra faccia di due nozioni psicologiche altamente problematiche: la Recovered Memory Therapy (RMT) e l’Incest Survivor Syndrome (ISS). Nell’inchiesta di Luther Blisset viene spiegato come la costruzione delle prove testimoniali ricavate dalle deposizioni dei bambini era fondata su tecniche interrogative suggestive e ricostruzioni psicodrammatiche pilotate. Nel corso di lunghe ore di interrogatorio, si invitano i bambini a ricostruire le scene e i volti di chi li aveva abusati e, se le loro risposte risultavano confuse o contraddittorie si cercava di assemblare una narrazione coerente e tuttavia inventata che si sarebbe consolidata nella storia da confermare. Questa storia veniva usata dagli psicologi come una matrice ermeneutica fissa, e i bambini erano costretti, attraverso reiterate ripetizioni dello stesso racconto, ad esporre come propria una testimonianza che gli era stata suggerita. La pericolosità di questo procedimento risiede nel fatto che il bambino, crescendo, continuerà a credere di aver subito delle violenze reali, confondendo fra i suoi ricordi e quelli che gli sono stati impiantati nel corso degli interrogatori.

Negli anni Novanta il nostro paese sconta un forte ritardo culturale dei magistrati inquirenti, dei giornalisti e della psicologia forense. La letteratura scientifica internazionale ha già stabilito che l’SRA è una leggenda, ma alcune procure battono quella pista e istruiscono processi. I magistrati che conducono le indagini sono descritti dai mezzi di informazione come paladini che affrontano forze occulte. Eroi in lotta contro il diavolo” (Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla)

I due casi più rilevanti si svolgono in Emilia-Romagna: il primo, quello dei Bambini di Satana, non ha lasciato molte tracce mediatiche, mentre il secondo – i Diavoli della Bassa modenese – avrà una fortuna postuma, perché nel 2017 è stato oggetto di un podcast di successo, Veleno, di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, che ha contribuito, con vent’anni di ritardo, a ricostruire la rete delle responsabilità nella vicenda. La ragione per la quale il primo caso è stato dimenticato, è che gli imputati (Marco Dimitri e Piergiorgio Bonora) erano effettivamente a capo di un’associazione culturale esoterica, e, oltre a ciò, erano una coppia omosessuale. È l’ex ragazza del terzo membro dei Bambini di Satana, Gennaro Luogo, a fornire le testimonianze principali. Non solo “Simonetta” (il nome utilizzato dalla stampa) denuncia stupri a scopo rituale, ma parla anche di cadaveri sventrati, cannibalismo, e di un “terzo livello” di estensione, una vera e propria rete nazionale di pedofili che ha come nucleo centrale Bologna.

L’affaire dei Bambini di Satana è architettato da un’ambiente ultracattolico e conservatore, composto dai genitori di “Simonetta” (che non esitano a chiamare un esorcista), dal Sostituto Procuratore Lucia Musti, dal Cardinale Giacomo Biffi, dal sedicente Gruppo di Ricerca e Informazione sulle Sette e da Il Resto del Carlino. La vicenda si conclude con l’assoluzione e il risarcimento dei danni per la detenzione di Dimitri e soci. Il caso dei Diavoli della Bassa modenese, invece, lascia una ferita più incisiva sul corpo dell’opinione pubblica, perché a essere accusati non sono dei gruppi sospetti o “devianti” ma gli stessi genitori dei bambini, assieme all’amatissimo parroco, Don Giorgio Govoni, che muore d’infarto nel corso delle indagini. Dalla ricostruzione di Trincia e Rafanelli emergono delle similitudini innegabili con i casi di panico morale americano, compreso il ruolo centrale della RMT.

Separati dai genitori, affidati a nuove famiglie e interrogati da alcune psicologhe per diversi mesi, i bambini raccontano – aggiungendo sempre nuovi dettagli – di violenze sessuali, torture, infanticidi. Crimini immondi, compiuti durante cerimonie notturne in tre cimiteri della bassa. È un crescendo: processioni di decine di persone con tuniche, cappucci e maschere; fosse scavate per inscenare parodie di funerali; bambini costretti a uccidere altri bambini; neonati uccisi e il loro sangue raccolto in un catino per poi essere bevuto. Ma quei cimiteri sono poco fuori i centri urbani, a lato di strade trafficate e circondati da case abitate, e nessuno ha mai notato nulla. Tra le tombe, non c’è alcun segno di attività insolite. Quanto ai presunti omicidi, nessun corpo verrà mai trovato (Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla)

In questo caso, chi muove le fila della falsa ricostruzione sono le esperte e gli esperti dei servizi sociali, coinvolti in un conflitto di interesse fra settore pubblico (la Asl locale, che accertava la presenza di violenza su minori) e settore privato (enti come il Centro aiuto per il Bambino) che si occupava di offrire sostegno e ospitalità alle vittime. Tuttavia, la vicenda non finisce qui: nell’estate del 2019 scoppia il caso “Bibbiano”, anche a seguito del podcast Veleno, che vede coinvolti gli stessi servizi sociali che avevano stabilito le perizie psichiatriche negli anni Duemila in Emilia-Romagna. Per un effetto di triste reversione mitologica, all’oggettiva colpevolezza di una parte dei servizi sociali si sommerà una fantasia cospirativa nuovamente ordita dalle destre, nella quale viene implicato il Partito Democratico e l’insistente ‘ideologia del gender’.

Questo avviene perché Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali emiliani coinvolti nel caso di Bibbiano, è omossessuale e si è occupata di affidare dei bambini a coppie omosessuali. Dalle indagini giudiziarie alla teoria della cospirazione contro le ‘famiglie naturali’ il passo è breve. Il ciclo della reversione mitologica si è compiuto, ma l’oggetto del complotto è cambiato, anche se le vittime sono le stesse. Le stesse forze politiche e mediatiche che decenni prima hanno accusato i Bambini di Satana di una falsa organizzazione pedofila e omicida, connessa con una vasta rete di responsabilità a livello nazionale, si trovano nel 2019 di nuovo dalla parte dell’accusa (questa volta giustificata) nei confronti di un vero caso di manipolazione e corruzione del sistema di affido familiare, nel quale i colpevoli reali (Anghinolfi) e quelli immaginari (la comunità LGBTQIA) si confondono.

Qualcuno pensi ai bambini!

Alcuni scettici dell’abuso rituale hanno spiegato il panico [morale] come un semplice fallimento della ragione, un crollo improvviso e violento della capacità del paese di distinguere fatti e finzioni. Quel fallimento era reale, ed è importante, da una prospettiva forense e giudiziaria, identificarlo e porvi rimedio. Tuttavia, asserire che la gente ha sbagliato [ad interpretare] i fatti non spiega quasi nulla. La domanda più pressante ha a che fare con ciò che [ha reso possibile] scambiare un incubo decennale per la verità. L’isteria ha influenzato le paure connesse ai cambiamenti sociali che cominciarono a farsi strada nella società americana alla fine del ventesimo secolo: la riorganizzazione della vita privata e la lenta [e] inesorabile rottura della gerarchia sessuale. Le persone volevano che questi cambiamenti sociali avessero luogo realmente, anche se spesso non riuscivano a riconoscere questo desiderio, sia privatamente che pubblicamente (Richard Beck, We believe the children)

Il bambino, immerso in un’innocenza costantemente assediata, incarna una fantasia incapace di resistere alla queerness delle sessualità queer nella misura in cui promette la perpetuazione del medesimo, il ritorno, attraverso il futuro, ad un passato immaginario. Denota, in questo, l’omosessualità intrinseca al buon funzionamento dell’ordine eterosessuale: l’investimento, caricato eroticamente, nella ripetizione dell’identità che viene garantita oppositivamente e realizzata nella narrazione di un futuro riproduttivo (Lee Edelman, The Future Is Kid Stuff)

L’elemento comune a tutte le varie accuse di omicidio rituale è la presenza dei bambini nel ruolo delle vittime. È chiaro che l’innocenza e la fragilità dei bambini, unite alla forza dei legami familiari rendono questi ultimi un caso emblematico di vita da proteggere e preservare. Se ci spostiamo nel campo della psicologia sociale possiamo vedere come i bambini assumano un significato simbolico più ampio, quello della perpetuazione di un gruppo (sociale, religioso, etnico, politico, culturale). Come afferma il teorico queer Lee Edelman, i bambini sono una metonimia del futuro. Rapire, maltrattare, abusare o uccidere i bambini significa compromettere la perpetuazione di una stirpe. Essi sono il futuro della Nazione, ma anche la promessa d’immortalità delle famiglie. Sacrificati dagli ebrei e dai satanisti, rapiti dalle streghe e dagli zingari, mangiati dai comunisti, resi autistici dai virologi e abusati dagli omosessuali, i bambini rappresentano il significante fluttuante di ogni tipo di accusa e cospirazione volta alla distruzione dell’ordine vigente. Edelman parla, a tal proposito, del futuro come promessa di un ritorno ad un passato immaginario. L’ideologia dei bambini-vittima desidera disattivare l’imprevedibilità del futuro, ed è contraria ad ogni cambiamento. Per questo essa è il nucleo perverso di molte cospirazioni: la teoria razzista della sostituzione etnica (la razza bianca si sta estinguendo mentre i migranti figliano copiosamente), l’antivaccinismo (mio figlio, prima del vaccino, stava benissimo, poi è completamente cambiato), i pro-vita (non c’è bisogno di spiegarlo), il ‘popolo delle famiglie’ (gli omosessuali pervertono la struttura naturale della società, educando i loro figli a norme perverse ed arbitrarie).

L’ultima parte di Lasciate che i bimbi raccoglie una serie di testimonianze e documenti di teorici e scrittori omosessuali in merito all’eccessiva criminalizzazione della pedofilia. Fra questi, un articolo dello scrittore Aldo Busi esprime il concetto con particolare chiarezza:

Su tutti i giornali, l’ultimo Tabù del cattolicesimo – la dirompente, non ancora del tutto governabile, criminale sessualità del bambino esposto col suo culetto a quella maniacalmente veicolata dell’adulto malato – è finemente cesellato con l’acuminatezza dell’ipocrisia cattolica, tipica virtù mondana di chi ha molto da nascondere, specialmente quando il bersaglio ultimo da colpire non è la pedofilia ma, diciamolo, l’omosessualità maschile […] Il falso problema non è, dunque, la pedofilia, ma la paura dell’omosessualità, mentre siamo già in un’epoca in cui toccherà a militanti omosessuali illuminati legittimare l’eterosessualità per la conservazione di una specie in via di estinzione” (Luther Blisset, Lasciate che i bimbi)

Fra le specie in via di estinzione che la destra ultracattolica vuole preservare ci sono anche la ‘famiglia naturale’ e la norma cis-etero-patriarcale. In uno degli studi più completi sui casi di SRA, We believe the children, il giornalista Richard Beck conclude la sua ricostruzione con una riflessione sul rapporto fra antifemminismo e moral panic. In particolare, l’autore sottolinea come il periodo storico in cui i presunti abusi rituali infestano l’opinione pubblica e i tribunali americani sia stato caratterizzato da una crisi della famiglia nucleare e dei ruoli di genere, innescato dalle rivendicazioni degli anni ’60 e ’70. L’aumento del numero di donne presenti nel mercato del lavoro, la progressiva dissoluzione dei vincoli matrimoniali e la visibilità dei movimenti omosessuali avevano definitivamente cambiato l’arcaica immagine degli uomini e delle donne. Queste ultime vengono ulteriormente responsabilizzate e penalizzate: chi baderà all’educazione e alla sicurezza dei bambini se le madri sono al lavoro? Chi insegnerà loro a comportarsi da ‘veri uomini’ e ‘vere donne’ se gli orientamenti sessuali e le identità di genere si moltiplicano? È precisamente questo il nucleo psicosociale del panico morale: la volontà di coprire e trasferire su un nemico esterno le paure e i desideri connessi con la trasformazione della società.

Individuare il cattivo ti restituisce serenità, – mi ha spiegato Giuliana Mazzoni, docente di psicologia di fama internazionale e studiosa dei fenomeni di psicosi di massa. – Ti restituisce la possibilità di convivere con te stesso e di non dover dire “è colpa mia”». Tuttavia, nonostante il crescente scetticismo che queste ondate di casi avevano generato soprattutto all’interno di parte della comunità scientifica, all’inizio degli anni Novanta la paranoia americana aveva varcato i confini nazionali, investendo anche il Regno Unito. In molte località britanniche colpite, mi ha spiegato la Mazzoni, c’erano state precedentemente delle conferenze di esperti o presunti tali, i quali «fondamentalmente informavano insegnanti e genitori dell’esistenza dell’abuso sessuale collettivo di tipo satanico, e invitavano genitori, insegnanti e assistenti sociali a interrogare i bambini, senza in realtà insegnare come interrogare i bambini. Ed è curiosissimo come alcuni mesi dopo questi seminari abbiano cominciato a fioccare le denunce». (Pablo Trincia, Veleno)

La follia collettiva che ha generato e diffuso i processi per i presunti casi di SRA si è propagata in un ambiente sociale e culturale sospettoso, impaurito e precarizzato. Le dinamiche psicosociali del ‘contagio satanico’ sono simili a quelle che hanno propagandato e rafforzato l’antisemitismo nei primi decenni del Novecento. Come sottolinea Trincia, la suggestione ha giocato su due livelli: quello degli psicologi e delle psicologhe che hanno estorto le confessioni ai bambini, e quello dell’opinione pubblica, che ha accolto facilmente le narrazioni tossiche che provenivano dall’America e dal Regno Unito. La spiegazione sulle cause di quest’epidemia fornita da Richard Beck è particolarmente rilevante, perché connette la paura per i cambiamenti sociali al desiderio (forcluso) che questi avvengano. Volendo essere più precisi: nelle vicende di SRA sono in gioco vari desideri contrastanti: quello extraconiugale, spinto dalla rivoluzione sessuale, che comprende la critica della famiglia nucleare come cellula di base della società, quello infantile, che viene costantemente negato (i bambini sono pure vittime, non hanno un concorso di causa) e infine quello omosessuale, che viene costantemente condannato (sia perché perverte le nuove generazioni, sia perché può spingersi sino all’abuso). Da questo complesso campo di forze libidinali viene esclusa la famiglia, e con questa l’ideologia dell’amore genitoriale. Per Beck il panico morale è una diretta conseguenza dello scontro di questi desideri contrastanti nel quale una serie di istituzioni (la famiglia nucleare, i ruoli di genere, il senso dell’occupazione lavorativa, le ideologie politiche) entrano in una profonda crisi. Quello che i casi di RSA e moral panic segnalano, nella loro circoscritta esemplarità, è un fenomeno che verrà ripreso, in grande scala, dalle conspiracy theories del Pizzagate e di QAnon, e che, da un punto di vista genealogico, non fa altro che ripetere lo stesso intreccio di crisi, paura, sospetto e rabbia che abbiamo già descritto nel caso dell’antisemitismo.

Secondo gli adepti di QAnon i pedofili sono ovunque: nelle più alte cariche del governo e degli affari, a Hollywood, nascosti nelle case di accoglienza e nei parcheggi delle stazioni di servizio […] Il rapimento di bambini non è condotto solo per scopi sessuali. L’accusa del sangue, teoria frequentemente citata tra la comunità di QAnon, sostiene che le élite globali sentono il bisogno di procurarsi così tanti bambini per raccogliere il loro sangue. I bambini sono fonte di adrenocromo, una sostanza chimica usata per prevenire la coagulazione del sangue, facilmente reperibile online. Gli aderenti a QAnon sostengono che l’adrenocromo abbia potenti effetti allucinatori [e] che sia usato dalle élite per assicurarsi l’immortalità” (Tania Lavin, QAnon, Blood Libel, and the Satanic Panic)


Tommaso Guariento è nato a Padova (1985). Ha conseguito un dottorato in Studi Culturali all’Università di Palermo. Vive fra Padova e Parigi. Scrive per l’indiscreto, not, anti-materia, Effimera, Prismo ed Il Lavoro culturale. Si interessa di immagini, antropologia e filosofia politica. da tre anni tiene un corso di visual studies presso la scuola open source di bari.

 

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