Eccoci arrivati a un nuovo commento a un canto della Divina Commedia: al quindicesimo del purgatorio. Il commento, firmato da Marco Renzi, fa parte del “CCC” il progetto di Commento Collettivo alla Commedia dantesca de L’Indiscreto curato da Edoardo Rialti.
IN COPERTINA un dettaglio della rappresentazione del purgatorio.
di Marco Renzi
Con il contributo di
Nella Commedia, Dante in ogni canto ci pone dinanzi a uno o più personaggi; e poco importa se questi siano figure storiche o d’invenzione, oppure persone da lui conosciute in vita: l’effetto è sempre lo stesso, ossia il generarsi di una storia e, di conseguenza, di un ritratto etico-politico coincidente col pensiero dantesco, intrinsecamente connesso al suo tempo, alla cristianità e alla filosofia scolastica.
Tuttavia, il quindicesimo del Purgatorio costituisce in tal senso un’eccezione. Si tratta di un canto di passaggio, dove la consueta narrazione si ferma per far posto a una parentesi meditativa, senza però mettere del tutto in ombra il pathos drammatico del poema.
Il primo elemento che incontriamo è la luce, messa in rilievo, come spesso avviene nell’opera, da una precisazione astronomica.
La luce attraversa l’interno canto, tiene assieme altri temi solo all’apparenza irrelati; e in questo frangente è sia quella del sole sia, come vedremo, quella dell’angelo che indica l’uscita dal girone.
Nel canto XIV, Dante e Virgilio hanno incontrato Guido del Duca, che qui continua a suscitare nel primo alcuni interrogativi: come può una cosa posseduta da molti, domanda Dante, rendere tutti più ricchi? Al che il suo maestro, riallacciandosi a quanto verrà meglio approfondito nel Paradiso, risponde che l’amore cresce proprio quando tutti vi hanno accesso; ed essendo l’amore divino infinito, questo si moltiplica come fa la luce riflettendosi su degli specchi – ecco appunto ritornare la luce.
È qui interessante notare come Virgilio ponga un freno alla sua spiegazione, il cui carattere oltrepassa la razionalità, e faccia riferimento a Beatrice, colei che potrà davvero esaurire un simile argomento.
-->I due nel frattempo stanno ovviamente camminando, e giungono nel terzo girone, nel quale viene purgato il peccato dell’ira. Dante non riesce però a riprendere la parola poiché è abbagliato dalla luce, stavolta emanata dall’angelo: ciò causa in lui una visione estatica, che segna l’inizio della seconda parte del canto.
Dante è abbacinato dalle immagini di coloro che di fronte a un’offesa reagirono col perdono; o, per meglio dire, con un gesto amorevole che fa il paio col discorso virgiliano delle precedenti terzine. Per descrivere tali scene, il poeta ricorre alle sacre scritture inframezzandole con un personaggio derivante dal mondo classico.
Il lettore si confronterà dunque con tre vicende: quella di Maria, che anziché rimproverare il figlio smarritosi nel tempio si rivolge dolcemente a lui mettendo a nudo il suo patimento; quella di Pisistrato che, malgrado l’avversione della moglie, perdona il ragazzo reo d’aver baciato sua figlia. La sequenza culmina infine con Stefano: il martire che, lapidato, perdonerà i suoi carnefici.
Impossibile adesso non soffermarsi sui versi che con grande intensità illustrano le tre storie poste in progressione, dalla più tenue alla più straziante, tutte naturalmente in contrapposizione al girone occupato dagli iracondi.
I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. […] Al vederlo rimasero stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
Luca 2, 41-48 è senz’altro la principale fonte dantesca per l’episodio di Maria, in cui peraltro sono riportate fedelmente le parole della madre: «e una donna, in su l’entrar, con atto / dolce di madre dicer: ‘Figliol mio, / perché hai tu così verso noi fatto? / Ecco, dolenti, lo tuo padre e io / ti cercavamo’» (vv. 88-92).
È una dolcezza, quella di Maria, propria della poetica e del linguaggio del Purgatorio: non solo è opposta all’ira, ma è in antitesi con l’asprezza infernale.
Lo stesso vale per il secondo esempio di mansuetudine, proveniente dal mondo pagano e che molto probabilmente ha come fonte Valerio Massimo: la moglie chiede a Pisistrato, signore di Atene, di uccidere un giovane che per strada ha baciato la figlia; ma lui, con «viso temperato» (v. 103) replica: «Che farem noi a chi mal ne disira / se quei che si ama è per noi condannato?» (vv. 104-5).
La visione di Dante trova il suo apice con Stefano Martire, preso a pietrate e prossimo alla morte. Nonostante si trovi col corpo ormai piegato a terra, Stefano continua a tenere gli occhi rivolti al cielo: «E lui vedea chinarsi, per la morte / che l’aggravava già, inver’ la terra, / ma de li occhi facea sempre al ciel porte, / orando a l’alto Sire, in tanta guerra, / che perdonasse a’ suoi persecutori, / con quello aspetto che pietà disserra» (vv. 109-14).
Questo tragico aneddoto, la lapidazione del primo martire cristiano, proviene di certo dagli Atti degli apostoli (7, 54-60).
All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano.
Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse: «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio». Allora, gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori dalla città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E lapidavano Stefano, che pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio spirito». Poi piegò le ginocchia e gridò a gran voce: «Signore, non imputare loro questo peccato». Detto questo, morì.
Come già detto, il canto raggiunge qui il suo picco emotivo: Dante si risveglierà poi dalla sua visione e Virgilio lo esorterà a rimettersi in marcia.
A questo punto, la luce del vespero fa il suo ritorno; l’atmosfera si fa più raccolta, e i versi finali («Ed ecco a poco a poco un fummo farsi / verso di noi come la notte oscuro; / né da quello era loco da cansarsi. / Questo ne tolse li occhi e l’aere puro», vv. 142-5), con l’appropinquarsi del fumo, chiudono lo squarcio luminoso e ci introducono al canto successivo, nel quale incontreremo «l’iroso» Marco di Lombardia.
Il canto, integrale
Canto XV, il quale tratta de la essenza del terzo girone, luogo diputato a purgare la colpa e peccato de l’ira; e dichiara Virgilio a Dante uno dubbio nato di parole dette nel precedente canto da Guido del Duca, e una visione ch’aparve in sogno a l’auttore, cioè Dante.
Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
e ’l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.
E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso,
perché per noi girato era sì ’l monte,
che già dritti andavamo inver’ l’occaso,
quand’io senti’ a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m’eran le cose non conte;
ond’io levai le mani inver’ la cima
de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,
che del soverchio visibile lima.
Come quando da l’acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l’opposita parte,
salendo sù per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.
“Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia”,
diss’io, “e pare inver’ noi esser mosso?”.
“Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo”, a me rispuose:
“messo è che viene ad invitar ch’om saglia.
Tosto sarà ch’a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose”.
Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
con lieta voce disse: “Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto”.
Noi montavam, già partiti di linci,
e ’Beati misericordes!’ fue
cantato retro, e ’Godi tu che vinci!’.
Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue;
e dirizza’ mi a lui sì dimandando:
“Che volse dir lo spirto di Romagna,
e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?“.
Per ch’elli a me: “Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s’ammiri
se ne riprende perché men si piagna.
Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a’ sospiri.
Ma se l’amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;
ché, per quanti si dice più lì ’nostro’,
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro”.
“Io son d’esser contento più digiuno”,
diss’io, “che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.
Com’esser puote ch’un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?”.
Ed elli a me: “Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com’a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr’essa l’etterno valore.
E quanta gente più là sù s’intende,
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
e come specchio l’uno a l’altro rende.
E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun’altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente”.
Com’io voleva dicer ’Tu m’appaghe’,
vidimi giunto in su l’altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: “Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo”. E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario.
Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù per le gote che ’l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: “Se tu se’ sire de la villa
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto”.
E ’l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato:
“Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?”.
Poi vidi genti accese in foco d’ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: “Martira, martira!”.
E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.
Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’om che dal sonno si slega,
disse: “Che hai che non ti puoi tenere,
ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?”.
“O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
io ti dirò”, diss’io, “ciò che m’apparve
quando le gambe mi furon sì tolte”.
Ed ei: “Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve.
Ciò che vedesti fu perché non scuse
d’aprir lo core a l’acque de la pace
che da l’etterno fonte son diffuse.
Non dimandai “Che hai?” per quel che face
chi guarda pur con l’occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede”.
Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
Marco Renzi (1989) è dottore di ricerca in Italianistica. Ha scritto di musica per «Audiodrome», «TheNewNoise» e «Indieforbunnies». Ha collaborato per quattro anni alla sezione Re:Books del «Mucchio Selvaggio». Collabora con «Il Foglio», «Minima et Moralia» e «L’Eco del Nulla». Altri suoi articoli e racconti sono comparsi su «Duemilauno», «PULPLibri», «CrapulaClub», «Nazione Indiana», «In fuga dalla bocciofila», «Narrandom», «Spore», «Bomarscé» e sulle antologie I giorni alla finestra (Il Saggiatore, 2020) e Cronache dalla Quarantena (Nutrimenti, 2020).
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