Dalla crepa di una petra: le sante puttane di Paradiso IX

Oggi, qui su L’indiscreto, commentiamo il nono canto del paradiso dantesco. Questo commento fa parte del nostro “CCC”, cioè il progetto di Commento Collettivo alla Commedia: una revisione collettiva, in chiave contemporanea, della più importante opera letteraria mai scritta nella nostra lingua.


IN COPERTINA: anonimo, olio su tela oggi all’asta da pananti casa d’aste

di Biagio Castaldo


Con il contributo di 


 

«Sono Cunizza da Romano e lietamente a me medesma indulgo. 

Benpensanti, eletta schiera, saranno forse forti queste parole al volgare orecchio che tendete e mal si convengono al pudore della beata regione, ma vi basti sapere che refulgo nel terzo cielo del bel pianeta che d’amor conforta, tra le celesti sfere che nella luce lieta danzano. Quivi io splendo ma non mi brucio, dacché l’amorevole influsso venusiano m’ha da sempre ammansita. Mia madre bramava ben altri destini per noi figli. Al pari della regina troiana, aveva sognato di dare alla luce una facella che avrebbe incendiato la regione che si siede tra Rialto e i fiumi Brenta e Piave. Laggiù è annegata nel sangue dei tiranni la fiaccola devastatrice del demoniaco dal pelo nero, il calunniato mio fratello, terzo del suo nome, eternamente infamato dal Villani della vituperosa Cronica. E converso, la vampa della magna meretrix, con il curriculum amatorio di cotanta larghezza da non negare un’ora di passione a chiunque la desiderasse, brilla ancora tutta d’amore. Di me, il sepolcral poeta titubò che “un’adultera di infame celebrità” fosse stata promossa al Paradiso. Io non mi pento della vergognosa colpa che il Foscolo mi andava tributando, e le ragioni della mia sorte non mi nuocciono, anzi lietamente a me medesma indulgo. “Che fosse provvisorio espediente nell’attesa di una più sublime ombra?”. “No, non può essere invece che Dante si trastullasse nell’ironia facendoci fessi tutti quanti?”, ascoltavo sollazzante il Croce. In spregio ai pettegoli e in barba al vostro slut shaming, il Sommo mi ha posto qui in assoluta libertà dai pregiudizi in cui solete impantanarvi, poiché me lo meritavo. 

Fui serva del lume di esta stella – non è menzogna – e generosi mi vinsero i piaceri appassionati, ma Dio non è bigotto e i Santi non sono bacchettoni come voi! Vi basti rammentar la Maddalena piangente che mescidò gli unguenti e unse i piedi del Signore, la peccatrice penitente eletta presso la croce, evangelista chiamata per nome dall’Ascendente. Finanche colei che largì voluttuosi i seni e sparse tremiti carnali nella città cananea, la più fulgida anima che trionfò prim d’ogni altra in questo cielo, vale a dir la larga locandiera di Gerico, antenata del Cristo venturo. Ella s’era solita chiamare Raab “la meretrice santificata”, che sola sopravvisse alla caduta della matria nella dignitosa dimora, laddove s’arrischiò la vita sua per accogliere le spie in fuga, messe per comando di Giosuè. Scintillanti siamo tutte quassù, discepole raffinate di Maria Egeziaca, ché ai voraci godimenti si schiuse la disposizione naturale dei cuori nostri all’amor santo, per bearci ora dell’elevato colle. Com’è dalla crepa di una petra sul cammin dell’acqua zampilla il flusso, scrosciando senza sosta e cedevol nel tempo la consuma, così il lacerato petto mi fu squarciato all’urto del fulgore di quella gemma senza vanità che fu il Creatore.

Al voler di mio padre non potei sottrarmi e al conte Rizzardo di San Bonifacio vergine fui data, cosicché la radice da cui nacqui io e quella fiammella crescesse e si intrecciasse tra le pars che battagliavano Verona. Di quell’unione musicò il Verdi nell’Oberto e della figlia sventurata ché il folle amor rinchiuse in una cella, giacché fu abbandonata dal suo fedele amante. Allorché di me si tessevano le più dolci lodi di fidanzata avventurosa, del cielo il mio sorriso e nel cuore la virtù. Ben tosto da Verona fui strappata, ratta m’appresi alle armoniose rime del mantovan Sordello e Amor mi condusse pria a Treviso, ospite del prediletto Bonio dipoi mestamente sgozzato, e infine nella Fiorenza gaudente. Ahi Francesca, compagna sciagurata, s’io com’ella dovesse perpetuamente rammemorar la nefasta fine delle voglie mie, quanto il tuo lagrimar mi farebbe ancor sì triste e pia! “Ma qui non si pente ma si ride”, avvalora in loco il Folco provenzale, brillante di un rubino e campione libertino, che fuse della violenta smania di concupiscenza più di Dido, più di Fillide, più di Ercole. Lietamente ora cede il poeta beato alla memoria dei fasti della giovanile etade in Marsiglia, allorquando per la bella Azaleis arse servile alla medesima bramosia che ardeva i versi suoi. Il trovatore amò l’uomo per Dio, seguitando il magistero del Diligendo Deo del Bernardo di Chiaravalle, e dinanzi che potesse scuotersi dalle colpevoli macchie nel Letè, rovesciò l’amorevole rivolo nelle palme del Signore, il quale accolse misericordioso il pastore redento con la veste da vescovo nell’arcidiocesi a Tolosa.

Orsù, austeri postillatori, cronisti e chiosatori, non arrischiatevi a dubitare oltre sulla cagion della mia ventura alla volta del Firmamento infra gli spiriti amanti. Non fui spergiura né anco in senescenza nella città luciferina che produsse e spanse il maledetto fiore. Riesumate ordunque dagli archivi trevigiani le carte rogate da Cavalcante de’ Cavalcanti che voltarono in dignità la servitù degli uomini giusti, vergate da colei che s’assorella nell’infausta sorte d’esiliata al poeta stilnovista allor bambino. Elogiate Madonna Cunizza che con mansueto trasporto si concesse a mille opere pietose, zelante sovvenne agli indigenti e agli infermi, e redentasi volse il caritatevol ampio seno unicamente a Dio. Dottori magni, papi e cardinali ché svergognati l’avarizia per vessillo portate ognora, ma non lesinate a rivestir la casa di Pietro con perle e grandi ori, fintantoché biechi condannerete l’amor gratuito e non avrete scrupolo di abbandonar Concordati e Decretali, tra gli eretici e infedeli vi seppelliranno congiunti alle ipocrite bolle che andate declamando».

 


Il canto, integrale

Canto IX, nel quale parla madonna Cunizza di Romano, antidicendo alcuna cosa de la Marca di Trevigi; e parla Folco di Marsilia che fue vescovo d’essa.

Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni
che ricever dovea la sua semenza;

ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
sì ch’io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni.

E già la vita di quel lume santo
rivolta s’era al Sol che la rïempie
come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.

Ahi anime ingannate e fatture empie,
che da sì fatto ben torcete i cuori,
drizzando in vanità le vostre tempie!

Ed ecco un altro di quelli splendori
ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi
significava nel chiarir di fori.

Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi
sovra me, come pria, di caro assenso
al mio disio certificato fermi.

«Deh, metti al mio voler tosto compenso,
beato spirto», dissi, «e fammi prova
ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!».

Onde la luce che m’era ancor nova,
del suo profondo, ond’ ella pria cantava,
seguette come a cui di ben far giova:

«In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava,

si leva un colle, e non surge molt’ alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto.

D’una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d’esta stella;

ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo.

Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,

questo centesimo anno ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
sì ch’altra vita la prima relinqua.

E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;

ma tosto fia che Padova al palude
cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude;

e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.

Piangerà Feltro ancora la difalta
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s’entrò in malta.

Troppo sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,

che donerà questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese.

Sù sono specchi, voi dicete Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
sì che questi parlar ne paion buoni».

Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com’ era davante.

L’altra letizia, che m’era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso in che lo sol percuota.

Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista.

«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’ io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’ esser fuia.

Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,

perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».

«La maggior valle in che l’acqua si spanda»,
incominciaro allor le sue parole,
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda,

tra ’ discordanti liti contra ’l sole
tanto sen va, che fa meridïano
là dove l’orizzonte pria far suole.

Di quella valle fu’ io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.

Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’ io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.

Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui;

ché più non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al pelo;

né quella Rodopëa che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.

Non però qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch’a mente non torna,
ma del valor ch’ordinò e provide.

Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
cotanto affetto, e discernesi ’l bene
per che ’l mondo di sù quel di giù torna.

Ma perché tutte le tue voglie piene
ten porti che son nate in questa spera,
proceder ancor oltre mi convene.

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.

Or sappi che là entro si tranquilla
Raab; e a nostr’ ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.

Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta
che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’ alma
del trïunfo di Cristo fu assunta.

Ben si convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de l’alta vittoria
che s’acquistò con l’una e l’altra palma,

perch’ ella favorò la prima gloria
di Iosüè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria.

La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,

produce e spande il maladetto fiore
c’ha disvïate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.

Per questo l’Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a’ lor vivagni.

A questo intende il papa e’ cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabrïello aperse l’ali.

Ma Vaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,

tosto libere fien de l’avoltero».


A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.


Biagio Castaldo è dottorando in Letterature comparate all’Università dell’Aquila, attualmente Visiting Scholar alla New York University, dove si occupa principalmente di ricezione letteraria, estetica del melodramma e studi di genere. Scrive per giornali e riviste culturali, tra cui Il Riformista, Domani e Minima&Moralia. Di recente uscita è il suo saggio sulle malattie letterarie nella narrativa degli anni Ottanta, Nuove patologie della ricezione letteraria. Malesseri biliari e saturnini morbi, pubblicato sulla rivista di studi comparatistici “Diacritica”, che approfondisce la critica sui primi romanzi di Celati, Palandri e Tondelli, attraverso le più accreditate teorie umorali e dei temperamenti nella trattatistica medico-filosofica di età premoderna.

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