L’ecopsicologia, nata nel 1989 all’interno dell’Università di Berkeley, parte dalla necessità di far dialogare ecologia e psicologia proprio alla luce della correlazione tra gli atteggiamenti che coltiviamo sul piano psicologico e quelli che mettiamo in atto su quello ambientale.
IN COPERTINA e nel testo: Woman in Red in the Forest, di Henri Rousseau
Questo testo è tratto da Ecopsicologia di Marcella Danon Ringraziamo Aboca Edizioni per la gentile concessione.
di Marcella Danon
Ogni crisi conduce a un arricchimento. Una civiltà non deve mai diventare una catena. Perciò il mio pessimismo sull’immediato futuro sfocia in un ottimismo profondo. La forza delle circostanze costringe l’uomo a inventare soluzioni nuove
René Dubos
L’uomo alla ricerca di sé
“Dove sei?”, chiede Dio ad Abramo; “Chiediti: ‘chi sono io?’”, insegna l’Advaita Vedanta; “Conosci te stesso”, ricorda Socrate dal frontone del tempio di Delfi. Un invito antico che accompagna l’essere umano nel suo percorso evolutivo. Un invito a riformulare, ogni volta, il senso del proprio esistere in termini nuovi, aderenti al sentire, all’essere e al divenire, di ogni tempo.
Indescrivibile e inafferrabile per definizione, l’idea che ci facciamo di noi stessi e della vita, è fortemente condizionata dal contesto culturale in cui nasciamo e ogni epoca ci propone la sua interpretazione. Ma per quanto bella, complessa e affascinante sia la storia che ci racconta “chi siamo”, non possiamo realmente risvegliarci alla nostra natura più autentica sino a quando non ci poniamo in prima persona la domanda, senza più accontentarci di risposte date a priori. È questo il senso dell’invito dei saggi e degli illuminati di tutti i tempi.
Le immagini di essere umano proposte di volta in volta nell’arco della storia ci raccontano molto della mentalità di ogni epoca; può essere utile, prima di partire nella propria ricerca personale, notare la stretta correlazione che si crea in ogni tempo tra cultura dominante e visione dell’essere umano. Come appare, nella storia a noi conosciuta, la concezione dell’uomo? Oscillando tra diverse polarità: da protagonista in un contesto ricco di significati, a spettatore di un intreccio casuale di eventi; da pupillo di potenze più grandi, a nullità abbandonata a se stessa nel vuoto palcoscenico dell’Universo; da entità intrinsecamente libera, a pupazzo deterministicamente vincolato. Diverse combinazioni di questi elementi, con diversi gradi di intensità, sono presenti nelle visioni di tutti i tempi.
Nell’antichità l’uomo vive immerso nella natura e se ne sente parte. Il suo riferimento è la Grande Madre, rappresentazione archetipica della Terra in tutte le culture tradizionali.
-->Nel Neolitico, almeno per quanto riguarda le regioni dell’Europa sud-orientale, la società è prevalentemente matriarcale e la donna ha un ruolo anche nella gestione della vita politica e religiosa. La figura predominante, nell’arte di quell’epoca, è femminile: rappresentazioni della Dea Madre, secondo l’archeologa Marija Gimbutas. Una civiltà senza armi da guerra, senza fortificazioni attorno agli insediamenti, con abitazioni poco diverse tra loro, che fanno pensare una società senza grandi differenze sociali, e con un’intensa attività artistica e commerciale. Una società definita gilanica, dalla sociologa Riane Eisler (dal greco gyné, donna e lyein, non vincolata, libera), per definire un modello sociologico di mutua collaborazione, contrapposto a uno di sopraffazione.
Nel V millennio a.C. arrivano in Europa, da est, da oltre il Caucaso, diverse ondate di tribù che padroneggiano l’arte di addomesticare i cavalli e portano con loro una società di stampo patriarcale e una cultura guerriera. Questi flussi migratori si susseguono fino al I millennio a.C. e impongono un nuovo sistema sociale, linguistico e religioso ai gruppi indigeni, cambiando radicalmente il volto del vecchio continente. Ultimi baluardi della precedente e più antica cultura, nell’Europa del sud, sono le isole più difficili da conquistare a cavallo: Creta, Malta e la Sardegna.
Al Pantheon femminile subentra una schiera di divinità maschili, al più antico matriarcato e alla società gilanica subentra il patriarcato e comincia ad affermarsi una cultura caratterizzata da autoritarismo e violenza, un potere imposto con la forza e con la paura, come leggiamo sui libri di storia. Interessante notare che proprio dall’incontro tra queste due diverse civiltà si consolida, nell’Europa nord-occidentale, quella che oggi chiamiamo cultura celtica. In questa, che possiamo considerare una delle principali culture native europee, le due impostazioni si fondono, creando una cultura sì guerriera, ma in cui rimane vivo il focus su arte, musica e sacralità della natura, e in cui la donna mantiene, accanto all’uomo, il suo potere e ha accesso a ruoli di comando, arte medica e sacerdozio.
In tutta la storia del mondo antico, pur nel susseguirsi di tutte queste profonde trasformazioni, nessuno mette in discussione il profondo legame dell’essere umano con la Terra. Anche quando dei e dee sono sostituiti da un dio unico, a tinte maschili, il principio femminile è ancora saldamente al suo fianco: Maria è madre non solo del figlio di Dio, ma anche “Madre dei viventi” e “Madre della Salvezza”, come viene definita al tempo dei padri della Chiesa. Culti mariani fioriscono e sopravvivono, racchiudendo in sé una lunga eredità di divinità femminili e legate alla Terra, dall’egiziana Osiride alla sumera Inanna, dalla greca Hera alla celtica Dea, che hanno lasciato traccia profonda nella memoria dell’umanità.
Arrivati al nostro Rinascimento, quando la nostra specie si appropria di una maggiore consapevolezza del proprio potere di azione sul mondo, il rapporto con il resto della creazione è ancora vivo. L’essere umano è al centro del mondo terreno e diventa elemento attivo nella storia, nell’arte, nella scienza, ma ancora si considera parte integrante dell’universo.
È uno dei momenti della storia occidentale recente in cui l’umanità è stata massimamente valorizzata e in cui si ricrea un dichiarato equilibrio tra il maschile e il femminile: “finalmente, per ben intendere la vita sociale dei circoli più elevati del Rinascimento, è da sapere che la donna in essi fu considerata pari all’uomo”.
Viene accolta e dichiarata l’istanza della libertà dell’essere umano, libero anche di andare oltre i diktat della filosofia aristotelica, gli “ipse dixit”4 del passato.
L’immagine dell’essere umano ideale emergente è quella dell’uomo universale, incarnato per esempio da Leonardo da Vinci, genio e artista di incomparabile valore, e anche primo scienziato in senso moderno, “per cui la Natura nel suo complesso era un’entità viva. Egli considerava gli schemi e i processi del microcosmo simili a quelli del macrocosmo”.
L’umanesimo platonico e del Rinascimento riconosce infatti anche nella materia inerte un palpito del divino: “Nessuno è divino che non sia umano, nessuno è umanissimo che non sia divino” dice Marsilio Ficino, a cui fa eco Pico della Mirandola definendo l’uomo “un grande miracolo”, in quanto dotato di una natura non predeterminata in modo assoluto, libero di essere l’artefice di se medesimo. E, sulla stessa onda il pensiero di un altro filosofo italiano, Gerolamo Cardano definisce l’uomo “armonicamente connesso in un tutto”, nel suo De rerum varietate, riprendendo concetti, secondo alcuni, ispirati ai manoscritti di Leonardo.
In un certo senso, ci si avvicina alla visione filosofica indiana che riconosce una identità tra la più profonda natura umana e il divino,8 ma la direzione presa è completamente diversa: l’uomo si sente sì, parte del creato, ma comincia a servirsi degli strumenti a sua disposizione per affermare sul mondo la sua supremazia e comincia a usare la natura per i suoi fini.
In una manciata di decenni, poco più di due secoli, l’essere umano è ormai homo faber e mano a mano che acquista maggiore fiducia in se stesso e nelle sue capacità, il pensiero viene eletto a facoltà principe dell’essere, riemerge prepotentemente l’archetipo maschile dell’identità umana, si afferma il predominio del logos.
Con la riforma protestante del XVI secolo viene soppresso il culto della Santa Madre e ha inizio la desacralizzazione del mondo naturale. Entriamo nell’era del razionalismo e meccanicismo ufficializzata da René Descartes con il cogito ergo sum e la divisione della realtà in due parti diverse, spirito e materia – res cogitans e res extensa – e, nell’essere umano, anima e corpo. E pensare che questa scelta, determinante in tutta la storia del pensiero successivo, forse era stata dettata semplicemente dal desiderio di delimitare il suo campo di ricerca per non rischiare di incorrere nell’ira della Chiesa, come era successo solo pochi anni prima, nel 1632, a Galileo Galilei.
Come conseguenza di questa scissione e netta predilezione per la componente razionale e spirituale dell’umanità, rispetto a quella fisica ed emotiva, ecco che cambia anche il rapporto con il resto della creazione. L’essere umano non è più parte integrante del tutto, ma si trova in bilico tra due dimensioni, un’immacolata natura divina, da una parte, e una torbida natura istintiva, legata a un corpo colpevole di peccato primigenio, dall’altra.
“L’uomo si trova in posizione intermedia tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo”, sintetizza Blaise Pascal, cercando di indorare la pillola, ma il terreno è ormai pronto per un progressivo ridimensionamento dell’essere umano.
Nel pensiero di Thomas Hobbes, fortemente influenzato dalle vicende storiche e politiche dell’Inghilterra del suo tempo, ecco che diventiamo animale-macchina, asservito alle stesse leggi che governano la materia corpuscolare. “La condizione dell’uomo è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro”, pensa e scrive Hobbes, segnando un punto importante a sfavore della natura umana; il suo Homo homini lupus, “ogni uomo è lupo per il suo simile”, rimarrà profondamente impresso nell’inconscio collettivo della cultura occidentale.
Qualche voce antagonista grida nel deserto. Spinoza, che identifica Dio con gli uomini, la Terra, i monti, i mari, il cielo, gli animali, l’universo intero; Rousseau che invita al ritorno alla natura e afferma inascoltato che l’uomo è naturalmente buono ed è la società a corromperlo.
Dopo la Rivoluzione industriale, iniziano a diffondersi il razionalismo, in Francia, l’empirismo, in Inghilterra, il materialismo, in Germania. L’essere umano è diventato homo economicus, consumatore e predatore; tutto preso da un delirio di onnipotenza, si allontana sempre più da una collocazione nell’ambito del contesto naturale. La scienza diventa il linguaggio comune per la cultura, il nuovo fattore di unità della società occidentale, più forte addirittura della religione.
Si levano altre voci e gridano ancora più forte. Karl Marx, colpito dagli sconvolgimenti prodotti sull’uomo e sulla società da queste nuove modalità produttive, vede con lucidità i limiti del positivismo e lo critica con veemenza; Friedrich Nietzsche, con i suoi scritti provocatori si fa portavoce dell’inquietudine e della crisi morale di tutta un’epoca, ma la visione materialistica e utilitaristica permangono dominanti.
In questo clima nasce la psicologia.
Dopo un distacco sempre più netto dalle matrici teologiche e filosofiche della ricerca interiore, la psicologia viene insignita dello status di scienza e come tale si accinge a sezionare e analizzare la natura umana, con lo stesso atteggiamento con cui lo scibile viene esplorato al microscopio dalla cultura contemporanea. Il determinismo biologico prende il sopravvento sulla riflessione esistenziale e tutta la dinamica personale e sociale delle vicende umane viene ricondotta a meccanismi fisiologici.
Apparentemente in controtendenza, Sigmund Freud inaugura alla fine dell’Ottocento una psicologia del profondo, permettendo alla psicologia di riappropriarsi di spazi che esulano dal terreno di ricerca della biologia e ridando dignità all’esistenza di una componente non materiale nell’essere umano. Ma il modello dominante, per Freud stesso, che era prima di tutto un medico, rimane quello meccanicistico; basandosi sulle leggi della conservazione dell’energia, elabora una visione dell’inconscio paragonabile a quella di una caldaia a energia compressa, che reclama sbocchi manifesti senza i quali si creano situazioni di nevrosi e malattia.
Siamo ormai alla metà del Novecento, il mondo occidentale è disastrato da due guerre e deluso in ogni possibile romantica visione dell’essere umano. Con un approccio pragmatico fino all’estremo, c’è chi afferma che la coscienza non esiste e che la natura umana è determinata solo da eventi e circostanze esterne. Nel tentativo di costruire una psicologia sul modello delle scienze naturali, John Broadus Watson, fondatore del comportamentismo, circoscrive il campo della ricerca all’osservazione del comportamento animale e umano rifiutando ogni forma di introspezione, che per sua natura sfugge alla verifica oggettiva.
Dopo aver così toccato il fondo – giacché nessuno psicologo avrebbe mai affermato di non possedere in prima persona una coscienza – la ricerca sulla natura umana si prepara a ripartire, correggendo il tiro.
Dall’utilitarismo a una cultura della dignità umana
Un allarme sui pericoli di disumanizzazione che incombono sulla cultura europea del XX secolo vengono lanciati da più parti: Jung, Huxley, Husserl, per citarne solo alcuni. Con lo sviluppo esponenziale della tecnologia e della scienza dopo gli anni cinquanta, la concezione meccanicistica e deterministica dell’essere umano si afferma ancora di più, trasformando e condizionando profondamente la società contemporanea. Il consumismo allarga le sue basi, l’individuo diventa funzionale a un sistema produttivo che segue logiche che ben poco hanno a che vedere con i valori e i ritmi umani. La quantità diventa più importante della qualità, le cose più delle relazioni, l’ottimizzazione del tempo più della cura per lo spazio, l’apparire più dell’essere.
È il trionfo delle grandi dimensioni, della grande distribuzione, dei grandi guadagni, che inghiottono e annientano la dimensione artigianale, locale, tradizionale, a misura d’uomo. È il fine che giustifica i mezzi, è il progresso reso diktat, è il sistema che pur di vendere fa leva su alcuni aspetti elementari della natura umana – istinto sessuale, possesso, appartenenza, emulazione – e su quelli più distorti, come l’illusione di poter sostituire affetto e soddisfazione con beni materiali. È il potere economico che assume proporzioni che sfuggono al controllo di un singolo individuo, dando forma a holding di potere caratterizzate non più da una presenza, ma da un’assenza. E non è più un re, un dittatore o un capo, a opprimere le masse, ma un sistema ormai anonimo a cui i suoi stessi vassalli sono sottomessi.
Se all’essere umano viene tolta la dignità di soggetto, perché stupirsi che diventi “cosa” anche l’ambiente, con le molteplici forme di vita che ne fanno parte? Quando non c’è più il contatto con quanto di più autentico e umano c’è in ognuno, l’individuo diventa burattino, oggetto, risorsa; e, come tale, finisce col considerare merce tutto ciò che lo circonda: relazioni, persone, natura, bellezza.
Questa immagine svilita dell’uomo, affermatasi nel secolo scorso, si riflette ancora oggi in ciò che vediamo attorno a noi e, soprattutto, leggiamo sui giornali. Eppure non è questa la realtà, o almeno non è l’unica. Al di là delle apparenze, nessuno ha veramente abdicato alla propria umanità e nelle piccole cose della vita quotidiana, a volte anche in quelle un po’ più grandi, molte cose belle succedono, molti esempi di generosità, cura, dedizione, rispetto, sembrano confermare che l’essere umano non è poi tutto da buttare via. Ma i valori… non fanno vendere, le buone azioni e le belle notizie non fanno audience. La spinta a focalizzare il nostro lato peggiore si sta rivelando funzionale a una fruizione consumistica della realtà, in cui il singolo individuo finisce col sentirsi solo, in lotta contro tutti, e può consolarsi comprandosi abiti firmati o auto alla moda. L’uomo, isolato dagli altri e dal resto della realtà, perde il contatto con i valori della vita, non ama più la vita, da cui si sente escluso, e agisce, inconsapevolmente, contro la vita stessa che gli ha negato il suo abbraccio avvolgente. Questo sottile meccanismo psicologico – lo stesso che agisce nella personalità schizoide – è quello che, alle sue più estreme conseguenze, rende possibili guerre, genocidi, devastazione dell’ambiente. Tale è la potenza, nello sviluppo di una cultura e di una intera società, dell’idea che l’uomo ha di sé.
Non c’è bisogno, quindi, di cambiare l’essere umano, bisogna solo cambiare la visione che ha di sé e del suo rapporto con il mondo che lo circonda. Per contrastare il paradigma utilitaristico diventa sempre più urgente ridare solide basi a una cultura della dignità umana, a una concezione dell’uomo che ne riconosca anche le altezze e non solo le miserie, che focalizzi l’attenzione sulla promozione della salute e non solo sulla cura della patologia, che promuova i valori più autentici e allarghi la visione del concetto di “io”, per includervi anche gli altri, l’umanità, la natura, il pianeta intero. I semi per questo cambiamento sono già stati gettati.
Verso un nuovo umanesimo
Tornando al quadro storico delle concezioni dell’uomo, a metà del Novecento due sono le forze della psicologia, assuntasi di fatto l’onere e l’onore di definire la natura umana: il comportamentismo da una parte, che insiste sulla condizionabilità dell’individuo da parte dell’ambiente esterno, e dall’altra la psicoanalisi, più attenta alla sofferenza psicologica e più attrezzata per affrontarla, ma pur sempre deterministica nella sua focalizzazione sulla gestione dell’energia sessuale come elemento principale nello sviluppo del carattere.
Nel fermento culturale generatosi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, emerge una nuova visione che recupera l’alleanza della psicologia con la filosofia. Negli anni cinquanta Abraham Maslow, insoddisfatto dalla povertà e ristrettezza della dominante concezione dell’uomo, innesca un processo di rivalutazione della natura umana e di profonda fiducia nelle capacità del singolo individuo di oltrepassare i limiti imposti dai condizionamenti, ponendo le basi per quella che prenderà il nome di psicologia umanistica, detta anche “terza forza della psicologia”.
Controcorrente rispetto alle visioni deterministiche – che vedono lo sviluppo di ogni singolo essere umano dipendere ora da eventi esterni, ora dal proprio passato – la psicologia umanistica si fa interprete del bisogno di riaprirsi a una percezione più aperta e completa della natura umana in cui dare nuovamente spazio alla dignità e libertà individuale. Le motivazioni all’azione, in questa visione, non sono più riconducibili a premi e punizioni o alle pulsioni sottostanti, ma sono promosse da aspetti connaturati alla natura umana: tendenza all’autoconoscenza e al superamento dei propri limiti, azione creativa, capacità di instaurare relazioni di qualità con gli altri e, soprattutto, autorealizzazione.
Questa psicologia attinge a piene mani dalla filosofia esistenzialista e dalla fenomenologia per ridare un ruolo di primo piano all’essere umano e al suo senso di responsabilità personale e di impegno nell’azione. L’essere umano non può più essere studiato indipendentemente dal suo essere nel mondo: persona e mondo sono un tutt’uno.
Da una parte, comincia a risanarsi la frattura che ci aveva allontanati dal resto del nostro ambiente e, dall’altra, si spalancano davanti a noi le implicazioni esaltanti… e angoscianti al tempo stesso, della ritrovata libertà: “L’uomo porta in sé un numero quasi infinito di possibilità di scoprire il mondo” dice lo psichiatra svizzero Medard Boss, esponente della psicologia esistenziale che si sviluppa in Europa in quegli stessi anni. “Egli, ed egli soltanto, è responsabile della realizzazione del massimo numero di tali possibilità. Quando accetta questa responsabilità, esercita la sua libertà. L’uomo è libero di essere ciò che vuole essere.”
Il campo di osservazione e di studio dell’essere umano si amplia dal comportamento alla qualità delle relazioni, dal resoconto del passato alla progettazione del futuro, dal patrimonio genetico ai talenti inespressi, dal riflesso condizionato alla spinta creativa, dal determinismo alla libertà di scelta, dall’enfasi sugli istinti a quella sulla dimensione etica, dallo studio dell’uomo malato a quello dell’uomo sano, dalla terapia alla formazione.
Tra i principali esponenti di questa corrente troviamo il fondatore Abraham Maslow, noto per i suoi studi sulla motivazione; Rollo May, attento all’essere e al suo divenire; Viktor Frankl, che ha sottolineato l’importanza di dare un senso alla propria vita; Carl Rogers, dalla visione dell’essere umano così ottimistica, basata su libertà e responsabilità; Roberto Assagioli, che tanta attenzione ha dato alla componente spirituale dell’individuo; Fritz Perls, con la sua fiducia nella capacità di autoregolazione degli esseri umani, e tanti altri.
Torna in auge la coscienza, non perché trova una sua collocazione anatomica – da sempre cercata invano – ma perché statisticamente riscontrata. Il metodo di ricerca scientifica adottato da Maslow non è più quello deduttivo della matematica, che ipotizza a priori una legge generale e ne cerca conferma nella realtà, ma è quello induttivo della fisica, che studia una casistica reale e da quelle osservazioni deduce una legge generale. Grazie a un accurato lavoro di raccolta di questionari, test e interviste a persone che hanno sviluppato le loro potenzialità ad alti livelli, che sono soddisfatte e realizzate nei più diversi ambiti della vita quotidiana, Maslow mette in luce una comunanza di aspetti e valori: percezione della realtà più chiara ed efficace, maggiore disponibilità all’esperienza, accresciuta integrazione, globalità e unitarietà nella persona, maggiore spontaneità ed espressività; efficacia, vivacità, identità personale salda, autonomia, predisposizione all’obiettività e alla disidentificazione, recupero e attivazione della creatività, abilità nel fondere concretezza e astrazione, struttura democratica del carattere, capacità di amare. Questi aspetti vengono riconosciuti e considerati come caratteristiche potenziali insite nella natura umana.
La psicologia – e sarà questa la psicologia del futuro – comincia a emanciparsi dal suo ruolo di valletta della medicina, delegata a occuparsi di problemi non organici di salute, e acquista una nuova direzione di ricerca spostando l’attenzione dalle componenti malate dell’individuo a quelle sane. Il focus della psicologia non è più solo riportare all’equilibrio e al benessere persone affette da seri disturbi di origine psicologica, ma innalzare il livello mediamente nevrotico di quella che viene definita e accettata come normalità. Sono sempre di più i professionisti nel mondo della psicologia e della relazione di aiuto, che si danno obiettivi di crescita: rendere le persone più forti e felici, più resilienti e consapevoli, accompagnandole verso una capacità di vivere con maggior soddisfazione e pienezza i propri talenti, le relazioni, le piccole e grandi incombenze della vita quotidiana, la creazione del proprio posto nel mondo e la ricerca di un senso nella vita.
Assumere l’identità corporea
Una tappa fondamentale nel processo di riumanizzazione dell’essere umano è quella del recupero della dimensione corporea. La psicologia amplia i confini del suo campo di ricerca dall’impalpabile coscienza di esistere alla concreta percezione non solo di “avere”, ma di “essere” un corpo.
La teoria freudiana delle pulsioni è già stato un primo passo verso il riconoscimento di una interazione tra il livello psichico e quello fisico, ma è solo con un allievo di Freud, Wilhelm Reich – affrancatosi successivamente dal maestro – che si arriva a una percezione unitaria dell’organismo, a una visione dell’essere umano che supera il dualismo mente-corpo, a una psicologia che studia le relazioni tra struttura corporea e atteggiamenti di natura emozionale.
Quanto avviene in uno dei diversi livelli dell’essere – mentale, emotivo o fisico – si ripercuote immediatamente anche sull’altro ed è possibile aiutare le persone a recuperare vitalità ed equilibrio solo attraverso una visione d’insieme. Su queste basi nasce la bioenergetica, poi portata avanti da Alexander Lowen, allievo di Reich, e si aggiunge ufficialmente un elemento assolutamente nuovo alla psicoterapia: l’attenzione al corpo e il lavoro sul corpo.
Nei più recenti studi di psicosomatica, con applicazione in psicologia e in medicina, e di teoria della comunicazione, con applicazione in campo non solo terapeutico ma anche formativo e aziendale, il corpo è ora al centro dell’attenzione, considerato espressione di una più profonda realtà interiore, specchio di emozioni e pensieri, sia consapevoli sia reconditi.
È un salto di qualità, in una cultura ancora fortemente condizionata dalla divisione esercitata da Cartesio tra anima e corpo e, prima ancora, dalla concezione espressa da Platone, nel dialogo del Fedone: “Il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere… risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime”.
Riappropriarsi della capacità di sentire il proprio corpo come parte di sé, non più “somaro dell’anima”, ma rappresentazione fisica, visibile e tangibile dell’essere interiore, è un segno concreto di crescita, di capacità di espansione dei limiti del proprio io da una visione più angusta a una più estesa. Feuerbach, discepolo di Hegel, iniziatore del cosiddetto “umanesimo naturalistico” descrive bene il cambiamento avvenuto: “La vecchia filosofia aveva come proprio punto di partenza la massima seguente: io sono un essere astratto, un essere esclusivamente pensante, e il corpo non appartiene al mio essere. La nuova, invece, incomincia con quest’altra massima: io sono un essere reale, sensibile, e il corpo appartiene al mio essere, proprio nel senso che il corpo nella sua totalità è il mio stesso io, il mio stesso essere”. È l’inizio di un percorso verso una ulteriore espansione di questi limiti dell’io, che può solo partire dalla completa accettazione tra tutto ciò che siamo. Il corpo diventa l’anello di congiunzione tra noi e il mondo.
Assumere l’identità corporea vuol dire riconoscersi parte di un mondo che viene improvvisamente scoperto molto più simile a sé di quanto potesse fare una più limitata identificazione con la sola componente mentale dell’essere. Nel passare da “corpo oggetto” a “corpo soggetto”, la nostra componente più fisica diventa anche maestra, si rivela sintesi di tutta la storia della vita che ci ha preceduto su questo pianeta. Si rivelano interessanti parallelismi tra ontogenesi, l’insieme dei processi di sviluppo di un singolo organismo, e filogenesi, il processo evolutivo degli organismi vegetali e animali dalla loro comparsa sulla Terra a oggi: il neonato ha inizialmente una tipologia di movimento laterale, come quella dei pesci, poi acquisisce la capacità di coordinare arti inferiori e superiori, come gli anfibi e i rettili, successivamente impara a gattonare, come i mammiferi, e poi si alza finalmente in piedi, come i primati.
Ecco che la natura umana si rivela sempre più complessa, con una stretta parentela con ogni altra forma di vita sulla Terra – i più recenti studi sul genoma umano non hanno fatto che confermarlo – e un forte sviluppo delle dimensioni incorporee. Oltre a sensorialità, fisicità, istinto e pulsioni, la natura umana sviluppa anche una sfera di emozioni, peraltro condivise con gli animali più evoluti, si realizza in ambito mentale, e si avvia verso una nuova tappa evolutiva: la consapevolezza. Come non perdersi, in una tale molteplicità di stimoli, bisogni e linguaggi che si esprimono all’interno di ognuno di noi?
Il più grande problema dell’essere umano, secondo Arthur Koestler, risiede proprio nella mancanza di coordinamento tra i suoi principali livelli di percezione e di espressione: corpo, emozione e mente. Solo sviluppando una lucida presenza interiore – suggerisce il filosofo – l’individuo può cercare di favorire l’armonia tra i diversi livelli di coscienza: si tratta di farsi interprete dei diversi linguaggi – sensazioni, immagini, pensieri – con cui si esprimono i diversi aspetti del nostro essere e di assumere la responsabilità di armonizzarli tra loro. Consapevolmente.
Il baricentro interiore
La coscienza di sé diventa il punto di incontro di questa molteplicità interiore. La principale caratteristica della concezione emergente dell’essere umano, con la terza forza della psicologia, è proprio la presenza in ogni singolo individuo di un nucleo più autentico, immateriale, che ne esprime l’essenza. Questa essenza è coscienza allo stato puro.
Questo nucleo diventa il baricentro interiore da cui è possibile, per ognuno, osservare quanto avviene fuori di sé e, contemporaneamente, quanto avviene dentro di sé. “È l’unica parte di noi che rimane sempre uguale a se stessa” dice lo psicosintetista Piero Ferrucci. “È uno stato di nudità psichica in cui ci siamo tolti tutti gli abiti: pensieri, sentimenti, immagini, sensazioni fisiche e rimane soltanto il puro essere”.
Di solito questa coscienza prende spontaneamente la forma di tutto ciò con cui viene a contatto, come uno specchio, ma con la pratica – ed è questo l’obiettivo di ogni tecnica di meditazione – è possibile staccare la nostra coscienza dai contenuti con cui si identifica e permetterle di concepirsi priva di ogni contenuto. Una paziente di Ferrucci così esprime l’esperienza del baricentro interiore: “Quando dico ‘io sono’, so che ‘io sono’ prima di pensare, di sentire, di agire. Sono cosciente di essere pura possibilità”.
A seconda delle tradizioni filosofiche, religiose o psicologiche, questo baricentro assume nomi diversi: osservatore interno, testimone, nocchiero, centro di autocoscienza, adulto, io, sé, direttore d’orchestra.
È il centro unificatore da cui l’individuo consapevole può regolare e coordinare tutti gli altri elementi e funzioni della psiche: istinti, sensazioni, emozioni, immagini, pensieri. È quel punto virtuale al centro del proprio essere da cui è possibile sviluppare quella lucida presenza interiore a cui si riferiva Arthur Koestler, indicandola come l’unica soluzione alla disintegrazione e scoordinamento tra i diversi aspetti dell’essere umano.
A partire dall’esperienza del proprio centro, l’individuo può sviluppare la padronanza su molti degli automatismi che ne condizionano la vita. L’influenza di elementi esterni – familiari, educativi, sociali – non viene negata, ma viene considerata meno deterministica di quanto non fosse solo pochi decenni prima, quando il comportamentismo credeva di aver trovato “la ricetta” per forgiare le persone.
All’individuo viene lasciato un margine di azione più aperto da cui poter dare una risposta nuova agli eventi, non più dettata dall’esterno, ma dall’interno, dalla sua stessa volontà; non più visto in balia degli eventi o del passato, ha sempre e comunque la possibilità di prendere in mano le redini della propria vita e di dare risposte nuove a ogni situazione, coerentemente con le necessità contingenti.
È una vera e propria rivoluzione copernicana che ribalta la visione dell’universo intero. L’uomo torna al centro, al centro di se stesso prima di tutto, punto di partenza da cui guardarsi intorno per scegliere la propria direzione, per affermare un proprio progetto di vita. Ogni singolo essere umano viene riconosciuto nella sua originalità, gli viene attribuita una natura interiore preesistente ai condizionamenti esterni, ma che attraverso di questi si esprime e si forgia, viene considerato portatore di una sua unicità – come una ghianda, usando un concetto caro a James Hillman – che chiede di essere riconosciuta e che è già presente prima ancora di essere vissuta.
L’attenzione della psicologia si sposta dal passato al futuro, dalle presunte cause che hanno determinato la specifica situazione di ognuno alla scelta del senso da dare agli eventi, conformemente alla meta verso la quale ci si vuole dirigere. La teleologia – il tendere verso – sostituisce una causalità che nega la libertà dell’individuo. Il primato del pensiero, considerato somma attività, peculiare dell’essere umano, viene messo in discussione: pur se utilissimo nella vita quotidiana, non è necessariamente il più indicato, da solo, a fare da guida nella comprensione e nella gestione dell’esistenza. Dal cogito ergo sum si passa al sum ergo cogito, “sono, dunque – tra le altre cose – penso”. La coscienza ritrova una dignitosa collocazione nella psicologia contemporanea e il primato torna all’essere, alla consapevolezza di essere vivi e a tutti gli interrogativi che questo implica.
La coscienza diventa il baricentro interiore da cui ogni singolo individuo può intraprendere il viaggio alla ricerca della sua natura più autentica; la vita diventa un’occasione di incontro, dialogo, arricchimento e autorealizzazione, per poter lasciare un segno concreto del proprio passaggio sulla Terra, in conformità ai valori più sentiti. È questo il nostro attuale traguardo evolutivo.
La rivoluzione silenziosa
Non è solo nella psicologia e nella cultura umanistica che si annuncia una trasformazione del modo di concepire l’esperienza umana, ma anche nella medicina, nella biologia e nella stessa epistemologia – da epistemé, in greco antico, “conoscenza certa” – che studia i presupposti su cui si basa ogni altra scienza e che si occupa del modo di conoscere e sperimentare il mondo.
Le conclusioni a cui questa particolare branca della filosofia contemporanea sta giungendo sono sorprendenti per il modo comune di pensare, ma coincidono con la visione del mondo di una cultura con la quale probabilmente non avremmo mai pensato di poter avere qualcosa da spartire: la cultura sciamanica.
Quali queste conclusioni? Che la realtà non esiste. Esiste l’idea che ci facciamo della realtà. E tutto il nostro stile di vita, la qualità stessa della nostra vita, dipenderanno dall’idea che ci facciamo di noi stessi e del mondo: “Il primo compito dell’insegnante è far capire che il mondo che pensiamo di vedere è solo un’immagine, una descrizione del mondo”.
Gregory Bateson, filosofo, antropologo, psichiatra, naturalista e poeta – uno dei pilastri della Scuola di Palo Alto e del contemporaneo cambiamento di paradigma – sostiene che la psicologia umanistica è ancora fin troppo materialistica, in quanto si applica alla visione di un mondo materiale di oggetti fisici che obbediscono alle leggi di forza e dell’energia, mentre è proprio l’oggettivabilità del mondo che conosciamo, che va contestata. Attraverso lo studio del modo in cui individui e gruppi di individui conoscono le cose e pensano di conoscerle, l’epistemologia conferma l’intuizione antica di mistici e sciamani sul fatto che il modo in cui recepiamo il mondo dipende molto di più da una nostra predisposizione interiore che da una oggettiva realtà esteriore. Già Epitteto, filosofo greco del I secolo, affermava: “Siamo preoccupati dall’opinione che abbiamo delle cose più che dalle cose stesse” e, ne Il fuoco dal profondo, Castaneda spiega il pensiero del suo maestro, un indio yaqui: “La prima verità sulla consapevolezza è che il mondo che ci circonda non è in realtà come noi pensiamo. Noi pensiamo che sia un mondo di oggetti e invece non lo è”.
L’epistemologia studia in dettaglio il processo della conoscenza del mondo partendo dagli studi della psicologia della Gestalt sulla percezione, evidenziando l’importanza delle distinzioni operate nella decodifica della realtà e della punteggiatura con cui vengono ordinate tra loro le diverse sequenze percepite. Sembra solo un complicato ragionamento filosofico, ma le ripercussioni nella vita quotidiana sono immediata e facilmente individuabili. Un impiegato inglese sulla strada di ritorno verso casa nella campagna dello Yorkshire vede da lontano una massa grigia di cui non comprende la natura; solo quando si trova a distanza ormai molto ravvicinata riconosce che si tratta di un elefante. L’inammissibilità della presenza di questo animale – che si è poi rivelato essere scappato da un circo – sul margine di quella strada, non ha consentito al cervello dell’osservatore di riconoscerlo subito in quanto tale.
Gli studi sulla percezione non fanno che confermare questa priorità dell’aspettativa rispetto alla effettiva conformazione dell’oggetto o dell’evento osservato. Quello che ci aspettiamo di vedere ci influenza al punto tale da organizzare in quella direzione gli impulsi ottici ricevuti dal cervello, e non solo quelli. L’idea preconcetta che abbiamo della realtà è più forte, nel determinare la nostra esperienza, dell’esperienza stessa. È il meccanismo alla base di quelle che ormai sono comunemente riconosciute come le “profezie autorealizzantesi”. È il meccanismo sul quale lavora la psicologia cognitivista, consapevole dell’effetto potente delle credenze patogene che finiscono col condizionare l’intera esistenza a prescindere dai messaggi positivi che l’esperienza eventualmente fornisce.
Ma cosa è quello che chiamiamo realtà e cosa vuol dire “reale”, allora?
Come minimo diventa indispensabile prendere in considerazione due ordini di realtà: il mondo esterno, la realtà oggettiva; e il mondo interiore, la realtà soggettiva. Sempre Bateson afferma: “Penso che tutto sommato sia più salutare credere che l’universo fisico sia illusorio e che la mente sia reale, anziché credere che la mente sia un illusione e l’universo fisico una realtà. Ma naturalmente, nel complesso, nessuno dei due atteggiamenti è giusto. Ma credere nella realtà della mente è già qualche cosa di meglio che credere nella realtà dell’universo fisico”.In sintesi, ancora con parole di Bateson, “la punta della sonda è sempre nel cuore dell’osservatore”.
Quali sono le implicazioni di questo ragionamento? Sono molteplici, saranno di fatto il tema dell’intero libro. Diventa chiaro che il mondo interiore ha la stessa importanza del mondo esteriore; anche superiore, suggerisce l’epistemologo. Questo vuol dire che la concezione che l’uomo ha di sé condiziona fortemente il suo atteggiamento nei confronti della vita e il suo operato. Ma vuol dire anche che l’individuo può avere un ruolo attivo nei confronti della realtà materiale, quella in cui opera quotidianamente, attraverso una maggior attenzione alla sua interiorità. Ogni cambiamento sulla realtà oggettiva può essere prima seminato nel “mondo delle idee”, all’interno di ognuno di noi. La capacità di focalizzarsi su un baricentro interiore diventa così un esercizio indispensabile per poter osservare contemporaneamente dentro e fuori di sé, per poter cogliere contemporaneamente la visione cosiddetta oggettiva e quella soggettiva delle cose, entrambe ingredienti di ciò che chiamiamo realtà.
Libertà diventa così, partendo da questi presupposti in cui filosofia e psicologia nuovamente si incontrano, prima di tutto, libertà di pensiero, espressione e azione, libertà da pregiudizi, condizionamenti inutili, sensi di colpa ingiustificati e dipendenza. Nella misura in cui acquisiamo dimestichezza con il nostro “spazio interno” – fatto di emozioni, pensieri, fantasie, ricordi, desideri – impariamo a scegliere e a decidere come agire in ogni circostanza; prendiamo coscienza che il nostro comportamento innesca a sua volta una catena di reazioni e contro-reazioni; acquisiamo una maggiore capacità di plasmare in maniera creativa elementi ed eventi della vita.
Dalla libertà nasce la creatività e, con essa, si attiva l’immaginazione per elaborare proposte nuove ed efficaci. Se impariamo a guardarci “dentro” e “attorno” con attenzione e apertura, possiamo attivare la capacità di cogliere la realtà non solo per quello che si suppone sia, ma anche per quello che potrebbe diventare.
Libertà e creatività si accompagnano poi indissolubilmente alla capacità di assumerci la responsabilità delle nostre scelte, allo sviluppo della consapevolezza che gran parte del nostro destino viene anche costruitoscuno di noi, con il nostro modo di pensare e quindi di agire, con l’atteggiamento nei confronti degli altri e delle diverse situazioni, con il modo di comunicare e di presentarci.
Interdipendenza e responsabilità individuale sono i due cardini di questa rivoluzione silenziosa. La prima, predispone con maggior apertura all’incontro e al dialogo con gli altri e con l’ambiente circostante; la seconda, attribuisce un ruolo molto importante all’essere umano e al singolo individuo, riconoscendogli un potenziale ruolo attivo nell’ideazione del mondo e nel conseguente modellamento di questo.
Sono queste le basi per un nuovo umanesimo che vuole rispondere a un’esigenza sempre più sentita. La visione attuale dell’essere umano, che ancora impera e impregna lo stile di vita contemporaneo e molta della comunicazione mediatica e pubblicità, è arida, meccanicistica e utilitaristica. Il malessere che ne deriva – frustrazione, depressione, mancanza di valori – degenera sempre più spesso in una serie di comportamenti di ben bassa natura, che ben lungi di essere la prova della “cattiva natura dell’uomo” sono invece solo l’effetto di una “cattiva concezione dell’uomo”.
A partire da una diversa visione dell’essere umano si può innescare tutta una serie di cambiamenti che, se all’inizio riguardano solo i singoli individui, a poco a poco si riflettono sulle relazioni interpersonali, sull’organizzazione del lavoro, sulla qualità dell’educazione, sulla gestione della società, su scelte politiche ed economiche e su strategie ambientali.
La psicologia parte lavorando con l’individuo ma arriva a coinvolgere nel suo lavoro – impostato su nuove basi – il pianeta intero e in questo suo impegno incontra un’altra scienza che le viene incontro seguendo un percorso inverso: l’ecologia. Pur lavorando una sul particolare e l’altra sul generale, una sull’individuo e l’altra sull’ambiente, queste due scienze insieme hanno molto da dirsi e da darsi per raggiungere entrambe lo stesso obiettivo: garantire un futuro all’essere umano e alla Terra. Le basi per una reale sostenibilità si consolidano qui, in questo incontro tra psicologia ed ecologia.
Gregory Bateson, un grandissimo precursore. Ho incontrato la sua grande, profonda intelligenza attraverso Capra e non ho potuto che approfondire la conoscenza del suo pensiero. Un’ esperienza illuminante.
Molto interessante.
Io sono convinto che la realtà, oltre agli elementi misurabili oggettivamente, dipende dall’osservatore.