Il fisico teorico Ignazio Licata ha di recente proposto assieme all’astrofisico Fabrizio Tamburini una nuova lettura del più grande problema matematico di tutti i tempi, l’ipotesi di Riemann. Francesco D’Isa lo intervista per noi, in quello che ben presto diventa un vertiginoso dialogo filosofico sull’infinito.
In copertina opere di damien hirst
Francesco D’Isa: Con Fabrizio Tamburini hai di recente proposto una nuova lettura di uno dei più grandi problemi matematici di tutti i tempi, l’ipotesi di Riemann. A quanto ho capito si tratta della scoperta di un inedito parallelo tra i numeri primi e la “torre di Majorana”. Potresti spiegare di cosa si tratta? Se devo essere sincero è la prima volta che sento parlare di questa torre.
Ignazio Licata: Non posso darti torto, si tratta di un’equazione poco nota anche tra i fisici, ma di cui vale la pena raccontare qualcosa. Nel 1932 le particelle note erano pochissime: elettrone, protone e neutrone. Il neutrino era ancora un’entità teorica proposta da Pauli per salvare la legge di conservazione dell’energia. Majorana fa un incredibile salto in astrazione e propone un’equazione “a infinite componenti” per particelle con spin qualsiasi. In questa teoria si considerano particelle “impilate” per livelli energetici crescenti con massa e spin, da cui il termine “torre”. È possibile pensare che si tratti dei livelli di uno stesso oggetto fondamentale, in questo senso ricorda un po’ la teoria delle stringhe. Il motivo per cui passò nel dimenticatoio fu il successo della teoria di Dirac, che comprende un mare negativo di antimateria che Ettore detestava e che fu scoperta di lì a poco. La delusione dev’essere stata forte, ma Majorana riprende in parte la sua teoria prima di scomparire, nel 1937, includendo a modo suo gli stati ad energia negativa.

FD: Purtroppo non credo di cogliere appieno l’idea. Vediamo se ne ho afferrato l’ombra: quella che immagina Majorana è un’ipotetica entità di cui le differenti particelle sarebbero proprietà? Se fosse così, la torre sarebbe un ente unico o esisterebbero diverse torri? Mi domando anche se questa teoria sia ancora una strada percorribile, e come si situa in tale contesto la vostra scoperta.
IL: L’equazione di Majorana mirava a fondere meccanica quantistica e relatività, che allora era il problema per eccellenza della fisica teorica. C’è un prezzo da pagare. Per Dirac furono le infinite soluzioni a energia negativa, che furono confermate con la scoperta del positrone nei raggi cosmici da C. Anderson e poi da Pat Blackett e Giuseppe (per tutti noi Beppo) Occhialini. Le equazioni di Dirac si concentrano sull’elettrone che ha spin (momento angolare intrinseco) 1/2. Majorana invece studia il caso della Teoria Relativistica di Particelle Con Momento Intrinseco Arbitrario (1932). Tieni presente che siamo ben lontani dalla proliferazione delle particelle “elementari” che inizia nel dopoguerra e dalla comprensione delle quattro forze che abbiamo oggi. Ad esempio entrambe le equazioni di Dirac e Majorana sono costruite su uno spazio-tempo piatto e infinito in tutte le direzioni, quello di Minkowski della relatività ristretta. Non c’è curvatura, dunque non c’è gravitazione. Majorana si concentra su massa-energia e spin, che sarebbero state sicuramente proprietà generalissime delle particelle a venire. La torre è una e le particelle possono essere viste come stati eccitati di un unico oggetto. Non è oggi un’equazione in uso ma una costruzione formale che ci dice alcune cose interessanti su come luxoni (particelle di luce), bradioni (più lente della luce) e tachioni (più veloci) sono legate alla struttura dello spaziotempo. Ora veniamo alla parte difficile. Non è necessario essere un fisico per avere ben chiaro che ci troviamo in un mondo finito, con un numero finito di particelle e dove verosimilmente c’è un limite alle foglie di cipolla della materia e dello spazio-tempo (la famosa scala di Planck). Dunque cosa esce dalle finestre (i livelli energetici) della torre? Qui entra in gioco la matrice S (scattering) che studia i livelli energetici delle interazioni tra i tre tipi di particelle. Non c’è limite alla “durezza” o alla “morbidezza” di un urto in questo schema e neppure al numero di particelle coinvolte. Con la matrice S si ottengono infiniti eventi, ognuno è un livello energetico.
Quello che voglio dirti è di non considerare (troppo!) l’equazione di Majorana come un sistema fisico realistico, ma come una costruzione astratta basata su principi fisici. È sulla struttura formale che partiamo per cercare analogie con la funzione di Riemann.
-->
FD: Se ho capito bene da una parte abbiamo una costruzione formale che si basa su principi fisici (la torre di Majorana), dall’altra un problema matematico (l’ipotesi di Riemann) legato alla distribuzione dei numeri primi. Mi dici anche che la torre non va troppo presa come un sistema fisico realistico e che “non è necessario essere un fisico per aver ben chiaro che ci troviamo in un mondo finito”. Eppure mi pare che in questa analogia che avete scoperto l’infinito si sia avventurato un po’ al di fuori dei sistemi puramente matematici, avvicinandosi all’oggetto della fisica.
Uno dei tanti elementi della potenza esplosiva del concetto di infinito, è la differenza tra attuale e potenziale. È un problema le cui radici si trovano in Aristotele, ma che in filosofia ha perseguitato molti pensatori, da Spinoza a Hegel. Da una parte abbiamo l’idea di un infinito come una procedura (ad esempio aggiungere sempre un’unità a un numero) che non può mai essere portata a termine, un infinito legato alla temporalità, anzi inserito in essa. È un processo che prosegue inesauribile sullo sfondo di un tempo infinito. Dall’altra abbiamo l’idea di un infinito compiuto, “l’infinito-come-uno”, come lo chiama il filosofo francese Badiou. Nel caso precedente, è ad esempio l’insieme di tutti i numeri reali. Sono diversi modi di approcciarsi a un concetto che per definizione non può essere colto da esseri finiti. L’infinito attuale sembra dominio della mistica più che della matematica, eppure in un certo senso si può dire che ogni numero reale è l’infinito attuale dei precedenti; ad esempio “2” è l’infinito attuale degli infiniti numeri tra 1 e 2. Nel vostro caso, da una parte abbiamo un infinito legato al comportamento della materia, dall’altra uno puramente matematico. Per citare Wigner, “l’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali” è sempre sorprendente, è però curioso trovare collegamenti col mostro per eccellenza della matematica, l’infinito.
IL: Sì, direi che la differenza essenziale tra fisici e matematici è tradizionalmente l’infinito. Per i fisici quando viene fuori, come è accaduto più volte nella definizione di particella, è segno di cattiva salute di una teoria, ed interi territori teorici sono stati creati e sviluppati per rimuoverlo, come la teoria della rinormalizzazione, che identifica ciò che è invariante sotto la tempesta infinita. Stessa cosa per la singolarità dentro i buchi neri o all’origine del big bang. L’intera cosmologia quantistica può essere vista come un tentativo di rimuoverla e andare oltre. Anche i matematici però non hanno avuto vita facile con questo concetto, seppur siano abituati a maneggiarlo con destrezza. Forse la posizione più radicale va agli intuizionisti ed al loro leader Luitzen Brouwer, che negava l’infinito attuale assieme al suo maggior puntello, il principio del terzo escluso.
Per dirla in modo semplice (che purtroppo non è mai del tutto corretto), quando ci sono affermazioni che riguardano insiemi di cardinalità infinita si fa uso del principio tertium non datur, un assalto logico all’infinito. Per Brouwer era accettabile soltanto ciò che effettivamente si poteva costruire. Con molte dimostrazione classiche anche senza sapere nulla di una certa entità se ne poteva dimostrare l’esistenza o la non esistenza. Per l’intuizionista esiste solo ciò che può essere esplicitato in forma matematica. Sono un po’ come gli operazionisti in fisica. In alcune pagine memorabili Brouwer mise in relazione la procedura formale di costruzione dell’infinito potenziale con il tempo della fisica. Pure il principio di induzione (la tecnica di dimostrare qualcosa su un insieme infinito a partire da caratteristiche formali che riguardano un numero e il suo successore) ne risulta in qualche misura depotenziato. Anche il resto del mondo matematico però preferisce parlare di infinito potenziale. In ogni manuale di analisi la descrizione del limite, ad esempio, è fatta a partire da una grandezza epsilon “piccola a piacere”. A partire da Dedekind e Cantor però c’è una definizione dell’infinito molto efficace, che riprende un’idea di Galileo Galilei nel suo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638): “Ogni parte dell’infinito è infinita”. Riprendendo il tuo esempio i numeri reali tra 1 e 2 sono ricchi d’infinito quanto l’intero insieme R: O i punti di una retta quanto quelli di un suo segmento. Credo che le simulazioni al computer di come si svolge e si ripiega una figura frattale (tipicamente quello di Mandelbrot) possano aiutare il profano a comprendere in che modo il matematico riesce a concepire l’infinito attuale come Mozart vedeva una partitura tutta insieme. In modo molto sottile e diplomatico Ennio De Giorgi ha scritto: “La matematica è in un certo senso costretta a immergere la realtà finita e visibile in un quadro infinito sempre più esteso; l’ordine delle cose può essere concepito solo come un intreccio di relazioni tra enti materiali ed ideali che nel loro complesso formano una rete infinita”, che ricorda un po’ la coppia siepe-infinito in Leopardi.
Dal punto di vista della fisica, immersa nel tempo, non c’è dubbio che il numero di eventi nell’universo è finito, benché altissimo. Dove si colloca dunque la torre di Majorana? Come per i primi direi sul versante dell’infinito attuale. Nel caso dei numeri primi abbiamo dimostrazioni da Euclide a Hillel Furstenberg della loro infinità, e una dimostrazione è un po’ come vedere tutto con un’occhiata. Analogamente per la Torre c’è la matrice S che permette di assegnare a ogni finestra della torre un evento all’infinito. Si tratta di una costruzione sospesa tra fisica teorica e matematica: contiene la meccanica quantistica e la relatività, ma in modo estremamente stilizzato, come del resto ci si potrebbe aspettare in un lavoro degli anni ’30.
Una domanda interessante dunque può essere: perchè il mondo, come lo conosciamo tramite il modello standard, non somiglia alla torre? Infine, la questione di Wigner. Ci sono molti spunti di riflessione possibili, pur evitando tentazioni platoniste. La più semplice ci dice semplicemente che la matematica funziona perché costruiamo modelli e teorie per “reggere i fenomeni”, come un vestito ad hoc, semplificando e astraendo come fece Galilei per enunciare il primo principio della dinamica, separando una situazione inerziale ideale dall’attrito. Un’altra più sottile ci riporta all’origine comune di fisica e matematica: contare gli oggetti è già fisica, come l’aritmetica.
FD: Data la tendenza dell’infinito a generare paradossi – in genere dovuti proprio al fatto che ogni parte dell’infinito è infinita a sua volta – capisco che i fisici cerchino di espungerlo e i matematici di domarlo. Per quel che so il tentativo più notevole di cavalcare l’infinito matematico resta quello di Georg Cantor e della sua teoria dei transfiniti, in cui scopre una gerarchia di infiniti, che, a riprova del fatto che infinito e intuizione non vanno d’accordo, possono essere più piccoli o più grandi di altri. In alcune lettere raccolte in Filosofia dell’infinito, Cantor sostiene che l’infinito viene in genere considerato attraverso tre categorie, come un Assoluto divino, in concreto e in astratto. Riguardo le ultime due posizioni, il matematico si schiera così:
[…] si può affermare l’A.U. tanto in concreto quanto in abstracto; in questa posizione, che io reputo l’unica giusta, si trovano soltanto pochi; forse io sono il primo a rappresentarla nella sua piena determinatezza e con tutte le sue conseguenze, ma sono certo che non sarò l’ultimo a sostenerla!
È forse a causa della mia formazione filosofica che mi sembra più ovvia l’esistenza dell’infinito attuale, piuttosto che la sua inesistenza, dunque direi che anch’io mi schiero col team Cantor. Mi dici che dal punto di vista della fisica il numero degli eventi dell’universo è finito, sebbene altissimo, ma questo non esclude la possibilità di fenomeni inosservati, altri universi o piani di realtà. Uno degli elementi che mi fa propendere a favore dell’infinito attuale è che la finitezza mi sembra lasciare intrinsecamente spazio a una sua alterità. Provo a spiegarmi: immaginare che gli eventi siano finiti, nel passato e/o nel futuro, impone l’idea di un inizio o fine del tempo. L’emersione o la fine del tempo però (o dello spazio-tempo, o di qualcosa) è comunque un evento, in quanto pone una differenza netta tra un “prima” e un “dopo” (nulla / qualcosa). Ogni istante segna un mutamento, ma l’apparizione del tempo (dunque del mutamento) rispetto a cosa è un cambiamento? In questo senso il primo (o ultimo) istante determina un prima e un dopo tra l’esistenza e l’inesistenza del tempo, situandosi in un meta-tempo. In termini più generici, mi sembra che il finito abbia connaturato in sé un dopo/oltre il finito, quale che sia, e questo non può ovviamente essere il nulla, che non esiste.
Ok, mi rendo conto che sono scivolato nella metafisica, ma ecco, il senso del discorso è che all’ovvietà della finitezza si accompagna l’ovvietà opposta, quella dell’infinitezza. Non posso parlare della torre di Majorana, ma chissà, forse i modelli che contengono l’infinito sono più realistici di quel che sembra…
IL: Mi piace questo sconfinamento, fa parte delle più forti e antiche radici del nostro pensiero e linguaggio. Non tenteremo di nasconderlo sotto il tappeto, o spostarlo tra le cose di cui non possiamo parlare. Stando ai modelli della fisica tutti gli eventi che possiamo osservare (anche soltanto in linea di principio) sono finiti, e il multiverso frattale di Vilenkin che genera continuamente copie di sè stesso non fa eccezione. Però c’è una faccenda a proposito del prima, del dopo e della cosmologia che può consolarti come sostenitore del team Cantor. Esiste da non troppi anni una tendenza della cosmologia quantistica a descrivere l’universo come qualcosa che viene da un tessuto non locale (per intenderci , pensa all’entanglement tra due particelle ed estendilo a tutto come una sorta di colla primordiale). Ogni evento locale misurabile è come un grumo in questa colla. Questo già cambia il concetto stesso di Big Bang rendendolo un evento esteso isotropo. Si può andare oltre. Parlo di un lavoro che porto avanti con alcuni colleghi e che è la versione quantistica della cosmologia proiettiva di Giuseppe Arcidiacono. Parlo di questo perché lo conosco bene e mi impedisce di sconfinare nel lavoro altrui, anche se si tratta di un’idea che comincia ad essere abbastanza diffusa. Partendo dalle condizioni di Hartle-Hawking, forse il primo tentativo coerente di cosmologia quantistica, abbiamo ritrovato l’universo di De Sitter con costante cosmologica, responsabile dell’accelerazione dell’universo. Era l’errore più grande di Einstein e ora è diventata una delle poche cose che sappiamo con sicurezza del cosmo, scoperta premiata con il Nobel nel 2011. Questo però ha delle implicazioni teoriche che vanno ben al di là dell’osservazione. Innanzitutto non c’è più una singolarità nel tempo “a punta” come in genere si pensa il Big Bang dentro la relatività generale, ma sfuma in qualcosa simile ad una semisfera. Non c’è più un inizio del tempo ma qualcosa che ci fa pensare a un universo ed un tempo che emergono da una nebulosità quantistica. È il principio di indeterminazione di Heisenberg esteso all’universo. Noi abbiamo esteso questa semisfera e l’abbiamo chiusa, ottenendo un’ipersfera in 5 dimensioni, è un modello del vuoto non locale. Per esplorarlo abbiamo bisogno di un tempo diverso da quello degli ordinari orologi, un tempo immaginario (nel senso dei numeri complessi).

Ti risparmio i calcoli e altri ragionamenti e vado al punto: ciò che osserviamo e misuriamo con gli orologi nel tempo è un’espressione di un vuoto non locale che è aspaziale ed atemporale. Possiamo anche usare formalismi noti e trattare l’origine dell’universo come una transizione, e dunque ecco di nuovo il tuo tempo finito. Ma è più corretto dire che noi siamo una proiezione nel tempo di qualcosa di atemporale. Il non locale è l’infinito attuale della fisica, e l’universo somiglia più al libro di sabbia di Borges, cosa che i fan di Cantor dovrebbero apprezzare!
FD: Ecco il meta-tempo che mi sembrava necessario! Non voglio spingere eccessivamente l’acceleratore metafisico, ma mi piace immaginare che anche questo meta-tempo abbia un meta-meta-tempo – dico “tempo”, ma non alludo più a nulla di temporale, dovrei forse più correttamente chiamarlo sfondo, o teatro degli eventi. Uno dei paradossi meno noti (e alle nostre orecchie più ingenuo) di Zenone dice che “se tutto ciò che esiste ha un luogo, anche il luogo avrà un luogo, e così via all’infinito”. La geometria contemporanea può risolvere il paradosso con la ricorsività, ma a mio parere non scioglie definitivamente l’enigma. Qualunque individuo finito per essere tale necessita di qualcosa di altro da sé, perché privo di alterità non ha identità: cosa sono, se non ho nulla di diverso da me? Tutto o nulla, sono indefinito, dunque privo di individualità. Come ribadì Spinoza, omnis determinatio est negatio, ogni determinazione è una negazione. La totalità però, se è finita, non trova alterità nel nulla, che non esiste, né in una sua parte, perché la include (il tutto è anche ogni sua sua parte: una tavola apparecchiata non è altra da un piatto che contiene, è più del piatto e anche il piatto). Davanti a questa impasse preferisco accettare il regresso infinito che tanto spaventa chi fa filosofia – d’altra parte non ho alcun buon motivo per rifiutarlo, se non che mi sembra strano.
Oramai abbiamo perso il freno, dunque seguiamo fino in fondo questo ragionamento, se non altro per fissare le differenze tra linguaggi e “cassette degli attrezzi”. La questione è stata posta anche all’interno dello scenario più tradizionale del Big Bang: è sempre possibile che una totalità sia contenuta in un’altra totalità e così via. Ogni fisico a cui è capitato di parlare di cosmologia in pubblico sa che arriva un momento in cui qualcuno gli chiede cosa c’è oltre l’universo in espansione. Tu rilanci ed estendi questa domanda all’intero universo di De Sitter, la forma del vuoto arcaico atemporale. In effetti non è necessario pensarlo come tempo, anzi: la produzione di un universo può essere formalmente vista come un iperspazio in cui una dimensione agisce come tempo in uno spazio a dimensioni minori, che è un modo per dire il famoso principio olografico. La tentazione di introdurre qualcosa che somigli ad una formula è forte: da un’ipersfera con metrica euclidea (++++), i.e. tutte dimensioni spaziali immerse in 5 dimensioni, si deduce uno spazio-tempo come il nostro:, pseudoeuclideo ( +++-), dove il meno indica che uno spillo ha bucato l’ipersfera e dal foro è uscito uno spazio tridimensionale nel tempo come quello che sperimentiamo.
Qual è il senso della quinta dimensione? È definita dal gruppo di simmetria che definisce l’ipersfera attraverso le sue rototraslazioni. Esattamente come i gruppi di simmetria di Poincaré-Lorentz (relatività ristretta) e di Galilei (fisica classica). Come forse è possibile intuire, è un linguaggio vincolato rispetto ad ogni domanda come quelle cui abbiamo fatto riferimento. Le costruzioni della fisica nascono da un problema ben definito, non è lecito estenderle al di là del proprio dominio. Se l’ipersfera a 5 dimensioni mi permette di avere una descrizione coerente della cosmologia quantistica, non posso desiderare altro, soprattutto non devo sognare altro. I sogni speculativi in fisica teorica sono generati dai problemi. Ti faccio un altro esempio, dovuto a David Bohm che ho avuto la fortuna di avere come maestro. Quello che abitiamo, il mondo delle osservazioni e degli orologi è l’explicate order. Ma sappiamo dai “sintomi” quantistici che emerge da un dominio non locale, pre spaziale e pre temporale che lui definì implicate order. L’uno e l’altro sono realtà complementari, la fisica dell’uno e quella dell’altro sono inscindibilmente collegate. Non avrebbe senso dire che c’è un implicate dell’ implicate. Ed in effetti ciò che conta sono le relazioni formali che connettono il locale al non locale (e viceversa, visto che un evento può essere riassorbito dal vuoto). Non è neppure necessario pensare l’implicate come qualcosa di spazialmente esteso, una sorta di contenitore. Anzi, è possibile pensarlo come un punto (qualcosa di aspaziale e atemporale) che genera lo spazio e il tempo. Quello che abbiamo fatto con i colleghi è stato riprendere l’idea di Bohm dell’implicate e dargli la forma dell’ipersfera di De Sitter. Un’immagine efficace è questa, dove da una parte vediamo l’ipersfera perfettamente euclidea e dall’altra la forma temporale dell’universo di De Sitter, qualcosa che ha un raggio minimo non nullo (non ci sono singolarità, grazie alla costante cosmologica), in espansione accelerata. Sono due rappresentazioni della stessa cosa.
FD: Hai usato una bella espressione, “i sogni speculativi in fisica teorica sono generati dai problemi”; i sogni speculativi insomma nascono dagli incubi. Credo che lo stesso valga anche per la filosofia e che la differenza risieda in cosa consideriamo un “problema”. Hai citato David Bohm e sono molto felice di parlare con un suo allievo, perché ho sempre trovato la sua teoria dell’ implicate/explicate order molto interessante. Se non ricordo male è un autore che non ignorava le filosofie orientali e la tentazione di vedere la complementarietà in termini di yin/yang è forte, sebbene penso che si tratti solo di legami metaforici e immaginifici. Mi è utile però per tradurre quel che ho in mente: se ho capito bene i due ordini sono diversi ma complementari, non c’è l’uno senza l’altro e non è possibile trovare un ulteriore rovescio, come la terza faccia di una medaglia. C’è però una tendenza del pensiero – ecco il mio problema – che tende a unificare, a contare-come-uno ciò che è diverso, a dare un nome ciò che è complementare, a cercare un implicate dell’implicate/explicate, un Dao dello yin/yang. È il meccanismo mediante il quale si crea un’unità da ogni infinito, che chiama lo 0,…n come 1, l’1,…n come 2 e così via. La liceità di un’operazione mentale non implica un corrispettivo nella realtà fisica, ma non possiamo ignorare questa istanza, perché ciò che sappiamo della realtà fisica lo abbiamo dedotto o costruito attraverso i medesimi meccanismi mentali. Il problema dell’unificazione è quando questa abbraccia non tanto UNA totalità, ma LA totalità. Qui non c’è più spazio per un’alterità – non a caso “Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao”.
Ma ciò che non ha alterità – e non parlo di limiti spaziali o temporali, sebbene il linguaggio naturale riesca a esprimere solo quelli, ma di limiti in assoluto – non ha confine, è infinito. È quel che il filosofo giapponese Nishida Kitarō indica come vero nulla: non la negazione di un essere particolare, che ha comunque un valore positivo, ma lo sfondo dell’essere. Torno qui al paradosso per cui se nomino una totalità, questa necessità di un’alterità o non è individuabile (non è una e non avendo nulla d’altro è indefinita) – ma se questa alterità esiste, dovrebbe farne parte. Se la totalità esiste, ha qualcosa d’altro e non è completa, se non esiste, nulla esiste. O, come suggerisce Laozi, “non può essere detta”: ecco forse il discrimine che separa l’infinito attuale da quello potenziale, il secondo può essere nominato perché si trova sempre in un ulteriore infinito, il primo no, come il nulla.
IL: Come sai, in sanscrito ci sono due termini strettamente collegati; nama e rupa, nomi e forme. I fisici parlano di osservabili, e quando ricorrono a categorie molto generali, come certi modelli cosmologici o l’implicate order, lo fanno come dici tu mossi da un problema. Un problema, aggiungo io, definito in linguaggi strettamente vincolati di tipo operativo e formale. L’istanza del pensiero che evochi è del tutto legittima perché ogni fare umano ha le sue radici negli stessi processi mentali. Un pò trappola ed un pò possibilità, è sopratutto qualcosa di naturale. Ad esempio parlando poco fa dei linguaggi scientifici come strettamente vincolati mi è venuto in mente il testo di Hrabal “treni strettamente sorvegliati”: eccomi in pieno surrealismo praghese! E del resto se non allentassimo le briglie dei criteri di sorveglianza non riusciremmo mai a produrre pensieri autenticamente nuovi. La questione dunque non sta tanto nel concetto di “problema” perchè abitiamo lo stesso linguaggio e dunque io posso capire la tua impostazione e tu la mia. La questione risiede soprattutto nel concetto di totalità. Credo che quella dei fisici sia in effetti qualcosa di troppo (fieramente) povero rispetto alla tua. La nostra totalità è un arcipelago di teorie e modelli, ognuno edificato intorno a classi di problemi, ed ogni isola possiede, ben visibile all’imbarcadero, una cassetta con dentro un plico dove sono descritte le cose che troverai ed il modo di usarle. Nama e rupa. Il tuo interesse è rivolto non soltanto al mare che circonda l’arcipelago, che noi non riusciamo a vedere così concentrati sulle isole, ma al mondo che contiene quel mare. Lao Tze e Wittgenstein ci suggeriscono che non può essere detta. Una cura radicale, astringente, che possiamo lenire con la poesia, la musica, la letteratura. Il silenzio come forma d’ascolto, la mistica. Ma qui siamo già su un altro piano. Bohm era molto affascinato dall’emergenza e dalla potenza del linguaggio ed ha lasciato bellissimi saggi sull’argomento. Era però deluso dal rapporto con Krishnamurti. Alla fine era un Hegeliano un po’ marxista, per di più fisico teorico, dunque ebbe una serie di crisi di rigetto sempre più forti del parlare mistico dell’altro. Chi conosceva Bohm e rilegge oggi I limiti del pensiero, una trascrizione di alcuni loro dialoghi (Armando, 2013), può identificare chiaramente le linee di rottura di Bohm, negli ultimi anni non voleva parlarne. Credo che sia un magnifico esempio di uomo che sentiva la totalità ma sapeva che il rischio di uscire dall’arcipelago era grande (se non sei Borges).
Tornando all’infinito. Come sai, i matematici con Cantor hanno trovato il modo di dire l’infinito e persino le sue cardinalità. Ma questo ci ripropone ancora una volta la distinzione tra il richiamo della totalità in-definita e i linguaggi formali dell’infinito. Il risultato su Riemann-Majorana può riassumersi come la caccia all’infinito dentro le strutture formali, quelle della matematica e quelle della fisica. Detto in modo più tecnico, Riemann aveva ipotizzato che i numeri primi stanno tutti su una retta; noi abbiamo mostrato che i quanti di Majorana, impilati uno sull’altro, indicano che la congettura di Riemann è ben salda, perché le due strutture si corrispondono. Non so naturalmente se questo basti ai matematici ma a noi si, perchè quello che abbiamo intravisto della bellezza matematica ci appaga profondamente. Almeno, fino al prossimo richiamo.
Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.
Ignazio Licata è un fisico teorico, direttore scientifico dell’ISEM, Institute for Scientific Methodology per gli Studi Interdisciplinari con sede a Palermo.Si occupa di fondamenti della teoria quantistica, modelli matematici dei processi cognitivi e teoria della computazione nei sistemi fisici e biologici. Editor dell’ Electronic Journal of Theoretical Physics e di Quantum BioSystems, è autore dei volumi “Osservando la Sfinge” ( Di Renzo, Roma, 2003), e “La Logica Aperta della Mente” (Codice Edizioni, 2008), ha curato le antologie “Majorana Legacy in Contemporary Physics” ( EJTP/Di Renzo, 2006), “Physics of Emergence and Organization” (World Scientific, 2008), “ Landau Centenary” (Nova Publisher, 2009). Per la sua attività di frontiera tra fisica teorica, epistemologia e scienze cognitive gli è stato assegnato il Premio Le Veneri per la Scienza 2008.
Ti è piaciuto questo articolo? Da oggi puoi aiutare L’Indiscreto a crescere e continuare a pubblicare approfondimenti, saggi e articoli di qualità: invia una donazione, anche simbolica, alla nostra redazione. Clicca qua sotto (con Paypal, carta di credito / debito)
Ma, difficile da seguire col mio italiano Imparato nella Terza media. Se facevo fatica a compreendere “ció che é, ch’io che non è, non è” figuriamoci qua, ragazzi!
Lo che interessa intanto è questa mathesis universalis, sempre questa ricerca moderna, europeale, occidentale di spiegare il mondo per um Twitter per uma massima, sintetica e concisa frasi di effetto, uno slogan… Questa mania dei mercanti, di porre una frase per tutte le merci, altro che il libro di sabbia di Borges ma la ricerca per il fiorino d’oro 2.0 il Zahir de Borges , nel verso il massimo comun divisore ed di rovescio il minimo comune multiplo teoretico. Beh.. bella intervista!
Complesso da morire, ma affascinante!