Dante, i palazzi della memoria e i ratti di Trondheim

Oggi su L’indiscreto pubblichiamo il primo canto del Paradiso dantesco commentato da Giorgio Vallortigara. Questo articolo è parte del Commento Collettivo alla Commedia, progetto curato da Edoardo Rialti. L’idea è quella di rivivere, con l’aiuto di cento autori contemporanei, i cento canti dell’opera.


IN COPERTINA un dipinto di william kurelek.

di Giorgio Vallortigara


Con il contributo di 


 

Nel primo canto del Paradiso, mentre procede con la descrizione dell’universo irradiato dalla luce divina, Dante fa uso di metafore spaziali: la gloria divina si muove, penetrando in una parte e in un’altra.

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.

Come ci ricorda Lina Bolzoni: «(…) nel mondo di Dante la memoria veniva addestrata a controllare gli spazi della mente e a costruirvi complicate architetture interiori» (Dante o della memoria appassionata, Lettere Italiane Anno LX, n. 2, 2008). Architetture edificate non solo perché potessimo figurarci i luoghi geografici della Commedia, ma perché le passioni e i pensieri fossero collocati nei diversi luoghi e in questo modo resi memorabili. 

Dante sa utilizzare gli strumenti della geometria. Nel Canto XIX del Paradiso impiega quest’immagine per riferirsi a Dio: «…Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto…» (Par. XIX, 40-42) Il sesto è ovviamente il compasso, mentre Dio è il geometra che traccia i confini («lo stremo») del mondo.

 Anche nel XVII canto del Paradiso, quando il suo trisavolo Cacciaguida gli annuncia l’esilio, la geometria euclidea è padrona: «O cara piota mia, che sì t’insusi, che come veggion le terrene menti non capere in triangol due ottusi, così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII, 13-18). In un triangolo non possono sussistere due angoli ottusi.

La memorabilità è un tratto essenziale nella Commedia, ma i cultori delle antiche arti della memoria – e Dante era certamente tra questi – non potevano immaginare che un giorno il rigore geometrico impiegato nei palazzi della memoria si sarebbe palesato tale e quale nell’architettura dei cervelli.

Vi sarà capitato di interrogarvi sul ruolo pervasivo delle metafore spaziali nel nostro linguaggio, in special modo quelle che descrivono il mondo in termini di relazioni topologiche, metafore di orientamento per usare la terminologia del linguista George Lakoff, come ad esempio su-giù, dentro-fuori, davanti-dietro. Questa pervasività si estende al mondo delle emozioni, delle relazioni sociali e dei valori morali: contento è su, triste è giù; salute è su, malattia è giù; condizione sociale elevata è su, bassa è giù. L’origine delle metafore d’orientamento non deriva semplicemente dalla nostra esperienza fisica dell’ambiente, ma da come il cervello la organizza.

Mary-Britt e Edvard Moser sono stati, qualche anno fa, i protagonisti di una formidabile storia di scienza. Lavorando assieme, a Trondheim in Norvegia, hanno scoperto le cosiddette «cellule griglia» (grid cells), che si trovano nella corteccia entorinale, vicino all’ippocampo. 

Nel giorno del solstizio d’inverno il sole sorge alle dieci e tramonta alle quattordici a Trondheim: quattro ore di luce. E siccome il sole si alza poco, non è che quelle quattro ore siano granché luminose. In un posto così c’è poco di meglio da fare di amoreggiare (all’epoca i Moser erano moglie e marito) e sezionare cervelli di ratto. 

Allievi di John O’Keefe – con il quale condivideranno il Premio Nobel nel 2014 – lo scienziato che aveva descritto le «cellule dei posti» (place cells) dell’ippocampo, i Moser hanno proseguito il lavoro del loro mentore scovando una nuova categoria di neuroni che organizzano l’ambiente rappresentandolo in una tassellatura regolarissima, costituita di esagoni i cui lati formano i vertici di triangoli equilateri.

 Per capire come funzionano le cellule dei posti e le cellule griglia considerate che un neurone mostra un’attività elettrica spontanea anche a riposo, ma si scuote, a tratti, aumentando all’improvviso la frequenza dei suoi potenziali di azione (i cosiddetti spike) quando certe proprietà dell’ambiente provvedono a stimolarlo. Immaginate un animale, come appunto un ratto, impegnato a esplorare un determinato ambiente. Se viene registrata l’attività cellulare nella corteccia entorinale si osserva una precisa relazione tra le posizioni che l’animale va a occupare e la frequenza di scarica di alcuni neuroni. A differenza di quanto accade per i neuroni dei luoghi di O’Keefe, che nell’ippocampo si attivano solo quando il ratto si trova in un determinato posto, i neuroni griglia mostrano un’attività diffusa in vari luoghi occupati dall’animale. Lo si nota bene tracciando una mappa dei picchi di attività della cellula in relazione alla posizione occupata dall’animale nello spazio: i picchi non sono casuali ma distribuiti secondo una geometria regolare fatta di esagoni ciascuno costituito da sei triangoli equilateri, come mostrato schematicamente qua sotto.

Disegno cortesia di Elena Lorenzi, ricercatrice nel laboratorio dell’autore all’Università di Trento

 

Ogni volta che l’animale transita in corrispondenza di uno dei vertici dei triangoli la frequenza di scarica del neurone aumenta. Neuroni diversi specificano differenti griglie con varie scale, a maglia stretta o larga, spesso sfasate le une rispetto alle altre. In pratica le cellule griglia forniscono all’animale una mappa – una metrica si dovrebbe dire più correttamente – per codificare distanze e direzioni mentre si sposta nell’ambiente. 

Le cellule griglia non si limitano a rappresentare lo spazio; codificano anche le diverse durate temporali durante le quali l’animale rimane in un certo posto. Non pare casuale perciò che il trascorrere del tempo venga espresso con metafore spaziali: il tempo «passa» e noi ci muoviamo guardando «in avanti» verso il futuro e «all’indietro» verso il passato.

Ma i palazzi della memoria, così ben descritti dalla storica Frances Yates in L’arte della memoria (Einaudi, 1997), così come la complessa architettura della Commedia, non servono solo a descrivere e ricordare l’ambiente geografico, consentono altresì la navigazione tra i concetti, in special modo quelli che hanno a che fare con la vita sociale. Nello spazio della mente vi sono gli individui con la trama delle relazioni che li lega l’uno con l’altro e con il valore che attribuiamo ai loro comportamenti. Nei modelli animali – dai ratti ai pipistrelli – sono state descritte nell’ippocampo «cellule di posizione sociale» (social place cells) che consentono di navigare seguendo il medesimo percorso osservato compiere da un compagno. Non solo: se posizioni diverse sono associate alla presenza di una ricompensa, le cellule griglia provvedono a ordinare nello spazio la distribuzione delle gratificazioni.

Nell’uomo le tecniche non invasive di risonanza magnetica funzionale sono in grado di rilevare soltanto l’attività di un grandissimo numero di neuroni. Tuttavia la presenza della firma neurale dell’attività delle cellule griglia, cioè un segnale «esa-direzionale», è stata osservata sia in compiti di tipo spaziale, quando le persone navigano in ambienti simulati con la realtà virtuale, sia quando la navigazione avviene tra le dimensioni di un concetto. 

Il sistema delle cellule a griglia è ideale per campionare il mondo come insieme di relazioni. Nella vita sociale le metafore spaziali sono pervasive – ci sentiamo «dentro» o «fuori» da un gruppo, «vicini» o «lontani» nei riguardi di un altro individuo, e le gerarchie e il rango sociale sono descritte tipicamente come qualcosa lungo cui «salire» o «scendere». Nell’Empireo i beati, che sono tali perché godono la visione della divinità, si dispongono gerarchicamente, così come gli angeli, che sono distribuiti in nove cori. Molti esperimenti suggeriscono che le distanze sociali possano essere rappresentate nel cervello secondo il codice a griglia. 

Dante ha costruito la sua architettura poetica con un riferimento costante alla scienza del suo tempo. Ha collocato il Paradiso fuori dalla Terra, in alto nel firmamento, in un luogo cui si accede passando per nove cieli o stelle o pianeti. È attraente, anche se futile, immaginare che sulla scorta di quello che stiamo imparando sulla memoria e il cervello oggi Dante avrebbe pensato a una diversa architettura geometrica per la sua Commedia e, assieme, a un più accorto ordinamento dei peccatori e dei beati.

 


Il canto, integrale

Comincia la terza cantica de la Commedia di Dante Alighieri di Fiorenza, ne la quale si tratta de’ beati e de la celestiale gloria e de’ meriti e premi de’ santi, e dividesi in nove parti. Canto primo, nel cui principio l’auttore proemizza a la seguente cantica; e sono ne lo elemento del fuoco e Beatrice solve a l’auttore una questione; nel quale canto l’auttore promette di trattare de le cose divine invocando la scienza poetica, cioè Appollo chiamato il deo de la Sapienza.

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.

Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.

Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.

O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,

vedra’ mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.

Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,

che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.

Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.

Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,

con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.

Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,

quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.

E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,

così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.

Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.

Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;

e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.

Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.

Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,

parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.

La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.

Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio

e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.

Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi”.

S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito

e dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi”.

Ond’ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,

e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.

Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;

onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;

né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’ hanno intelletto e amore.

La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ ha maggior fretta;

e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.

Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda,

così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;

e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.

Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.

Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quïete in foco vivo”.

Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.


A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.


Giorgio Vallortigara, neuroscienziato,  è stato direttore scientifico del Centro Interdipartimentale Mente e Cervello dell’Università di Trento. E’ stato insignito del premio per l’etologia Prix Geoffroy Saint Hilaire della Società Francese per lo Studio del Comportamento Animale e due volte con l’ERC Advanced Grant. Tra le sue opere ricordiamo Pensieri della mosca con la testa storta, (Adelphi, 2021), Lettere dalla fine del mondo. Dialogo tra uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore, con Massimiliano Parente (La Nave di Teseo, 2021)

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