Dante weird: il pioniere dello “strano” letterario



La nuova ondata “weird” ha un nobile antecendente: Dante Alighieri. Ma nella contemporaneità sembra non esserci spazio per una salvezza trascendente.


In copertina: dettaglio da Luca Matti, Senza titolo (dalla serie “Nuagessines”, 2016), Asta pananti online.
All’interno del testo: illustrazioni tratte da Dante Shinkyoku, di Go Nagai

di Andrea Cassini

Secondo l’analisi di Mark Fisher in The Weird and the Eerie, uno degli elementi distintivi di ciò che definiamo e percepiamo come weird è la soglia; una barriera che separa due territori, provvista di una porta, che li mette in comunicazione. Talvolta permette agli abitanti di osservare ciò che accade dal lato opposto, come una parete di vetro, e talvolta apre addirittura un ingresso affinché i due mondi entrino fisicamente in contatto. L’essenza del weird, che autori come lo stesso Fisher o Thomas Ligotti recuperano da H. P. Lovecraft, sta in questo: lo scarto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che invece è.

Un’immagine familiare – il nostro mondo ribaltato, o il nostro io messo a nudo – che si fa improvvisamente inquietante perché percorsa da interferenze: non sempre così eclatanti da scatenare il panico e l’orrore, ma sufficientemente perturbanti da indurci a credere che attraverso quella porta siano passati anche dei mostri. Mostri che ci spaventano non per il loro aspetto truce, ma perché li riconosciamo come affini a noi.

Le dinamiche tra questi due piani costituiscono un motore narrativo tra i più potenti nella storia della nostra civiltà, dalla letteratura alla psicanalisi fino alla neurologia. Il visibile e l’invisibile, il reale e l’immaginato, l’emerso e il sommerso, il vero e il falso, il concreto e il simbolico. La porta è l’agente che rende possibili tali sconfinamenti e sovrapposizioni, un elemento di tale peso specifico che le narrazioni spesso non si scomodano nemmeno a mascherarlo, e lo adoperano in maniera palese: l’armadio delle Cronache di Narnia, lo specchio di Alice, il portale di Stargate. Uno dei presupposti della letteratura fantastica, del resto, nel senso più lato e nobile del termine, è proprio quello di raccontare altri mondi che ci dicano qualcosa sul nostro.

Non è un caso che la Commedia di Dante risponda in pieno all’identikit di questa allegoria. Le grandi opere sono tali anche perché continuano, col tempo, a dire ciò che hanno da dire, e non solo; in epoche e temperie diverse, comunicano sempre cose nuove. In questo caso, la Commedia ci offre un solido appoggio mentre ci addentriamo nel reame del dubbio seguendo gli sviluppi più recenti della letteratura weird. Autori come Jeff VanderMeer e Antoine Volodine sembrano dare per scontate le premesse della fantascienza distopica (Volodine definisce i suoi libri già come un post-, nel suo caso post-esotismo) e mettono al centro delle vicende l’io disgregato della contemporaneità; una tendenza che si afferma anche nel nostro paese, con contributi corposi e originali, al punto di stimolare discussioni e definizioni Quella porta che collegava i mondi, ci suggeriscono vecchi e nuovi autori weird, si è forse chiusa per sempre; o al contrario è la barriera a essere crollata. Il senso d’ordine della Commedia, invece, permane attraverso gli orrori dell’Inferno fino ai vertici del Paradiso, insieme a un’imprescindibile idea di finalità sia letteraria che filosofica. Appoggiarci al “Dante weird”, dunque, sarà un utile percorso d’analisi.

Il vantaggio di affiancarci a opere di tale valore consiste anche nella possibilità di attingere all’ingente mole di scavi storici e analitici operati in ambito accademico, e ci riferiremo in particolare a due studi pubblicati in America da ricercatrici italiane: Dante’s Tears, di Rossana Fenu Barbera (Olschki, 2017), e In the Light of the Angels, di Susanna Barsella (Olschki, 2010). Non si smette mai di scrivere sulla Commedia, e mettere la sapienza filologica italiana al servizio di una teoria della cultura pop, come quella articolata da Mark Fisher, rende giustizia alla natura di un’opera che nasce mescolando alto e basso e che viaggia per sette secoli sulle strade accidentate della cultura.

Il demone meridiano

In Dante, la prima porta è proprio la selva oscura che fa da anticamera all’ingresso nell’Inferno. Non si tratta di una mera soluzione estetica o di un elemento simbolico sciolto. L’intera architettura di Inferno, Purgatorio e Paradiso rimanda a un regolare sistema di soglie, svelando ulteriori porte che si aprono all’interno della struttura come scatole cinesi. Quella della Città di Dite, ad esempio, che richiede l’intervento armato del messo celeste per permettere il passaggio a Dante e Virgilio, e prima ancora la vera e propria porta dell’Inferno, nel Canto III, per la quale “si va tra la perduta gente”. Si nota già come Dante abbia rielaborato e arricchito di significato il concetto delle “porte ricorsive” che le precedenti visioni infernali, sua fonte di ispirazione, presentavano in maniera asciutta: nella Visio Sancti Pauli l’Inferno ospitava un pozzo, il puteus abyssi, protetto da una botola, a sua volta serrata da sette sigilli, dalla quale proveniva un olezzo pestilenziale. Sotto di essa, un orrido infuocato del tutto simile alla gehenna biblica.

L’idea più suggestiva è che ognuna di queste soglie sottintenda un rito di passaggio per transitare di bolgia in cerchio e infine in cornice e in cielo. Dante la rinforza mettendo l’accento sull’elemento fisico e “verticale” dello spostamento, in particolar modo nell’Inferno: l’ardua camminata in salita e la ripida discesa fanno entrambi bella mostra nel Canto XXVI, quello di Ulisse:

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.

[…]

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.

Nel discutere intorno a una definizione di weird, Marco Malvestio su La Balena Bianca accenna a “un’appropriazione alta, colta, e consapevole di un genere che nasce invece e si sviluppa come popolare”. Ecco che emerge un primo trait d’union tra l’opera di Dante (peculiarmente capace di travalicare generi, stili, lingue e – di conseguenza – secoli) e quella di autori contemporanei come Jeff VanderMeer, Antoine Volodine, China Miéville: ispirati dalla letteratura di genere così come Dante si ispirava alle leggende popolari (VanderMeer teorizza il New Weird come una fusione tra fantasy, sci-fi e horror dalle particolari tinte), hanno chiamato in causa la critica letteraria più colta della nostra epoca per interpretare romanzi più penetranti di quanto non suggerisca la veste. Similmente, si potranno associare a questa tendenza quegli autori che, partendo invece da spunti realistici o da ambizioni di literary fiction, hanno saputo integrare il fantastico nella loro prosa. Le indagini sul weird italiano, nelle sue connessioni con la nobile tradizione fantastica del nostro paese, non mancano mai di elencare i nomi di Italo Calvino, Dino Buzzati, Antonio Moresco, Michele Mari, Tommaso Landolfi. Spostandoci all’estero, non sarà fuori luogo citare Salman Rushdie, Gabriel Garcìa Màrquez, Haruki Murakami.  Se tra “alta, colta e consapevole” mettiamo invece l’accento su quest’ultima parola, non può non venire in mente l’avviso che Dante rivolge al lettore in Inferno, Canto IX:

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto ‘l velame de li versi strani

L’assonanza, sebbene nel 1300 non si potesse identificare lo strano con il weird, è notevole, soprattutto se prendiamo in considerazione un’altra delle definizioni di “strano” in letteratura. Il weird si articola in horror, scrive Sarah Dillon in The Horror of Anthropocene (Journal of 21st-century Writings, 6(1): 2, pp. 1–25.), quando “giungiamo al limite della nostra capacità di raccontare storie, sia in senso letterario, sia in senso filosofico”. “A l’alta fantasia qui mancò possa” scriveva Dante in Paradiso, Canto XXXIII, e il VanderMeer di Annientamento sembra fargli eco: “Che cosa puoi fare, quando i tuoi cinque sensi non sono più abbastanza?” Non si tratta dell’unico caso in cui Dante, nei suoi continui ammiccamenti al lettore, prende atto dei limiti del linguaggio, finanche di quello elevatissimo della poesia. Nel già citato Inferno, Canto XXVI, ad esempio.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

Sulle bellissime similitudini che punteggiano la Commedia si sono scritti interi volumi, e altri se ne scriveranno, ma in questa sede merita sottolineare come, rifacendosi alla realtà quotidiana per esemplificare gli eventi oltremondani, Dante obbedisca di nuovo, e consapevolmente, a stilemi che oggi riconosciamo come propri del weird. Da un lato, costruendo paragoni diretti tra il familiare e il mostruoso, nel caso nell’Inferno, si evidenzia la disturbante vicinanza tra i due mondi. Dall’altro, Dante piega il linguaggio in direzione realistica ammettendo l’incomunicabilità dell’esperienza vissuta dal suo personaggio. Così, per restare nella nota cornice del Canto XXVI dell’Inferno:

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

O ancora, ma gli esempi sono numerosissimi, in Inferno, Canto VI:

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

Dante arriva a costruire uno “strumento poetico” che segnali il punto in cui il linguaggio viene meno – e con esso, la capacità del lettore di immaginare e quella del Dante-personaggio di sopportare l’impatto emotivo dell’esperienza. Sugli svenimenti (“e caddi, come corpo morto cade”) esiste un’ampia letteratura di approfondimento, e si è apprezzato anche come Dante li utilizzi come perni per movimentare la narrazione in flash forward e cliffhanger. Quella che Rossana Fenu Barbera ha invece indagato in un recente volume pubblicato nella Biblioteca dell’Archivum Romanicum curata da Olshcki è la poetica delle lacrime; Dante’s Tears: The Poetics of Weeping from Vita Nuova to the Commedia.

Gli scavi di Fenu Barbera, che dirige il Center of Italian Studies a Baltimora, Maryland, scaturiscono da un’osservazione: nella precisa architettura della sua opera, che abbonda di riferimenti astrologici e calendaristici, Dante indugia su menzioni all’ora nona che sono frequentemente associate al pianto, al tremore e ad altre manifestazioni fisiche della disperazione. Nella Vita Nuova, è spesso collegata alle apparizioni di Beatrice, per cui si legge, nel Capitolo XXXIX:

“… si levoe un die, quasi ne l’ora de la nona, una forte imaginazione in me; che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; […] Per questo raccendimento de’ sospiri si raccese lo sollenato lagrimare, in guisa che li miei occhi pareano due cose che desiderassero pur di piangere; e spesso avvenia che per lo lungo continuare del pianto, dintorno loro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva.”

Il responsabile è il demone della concupiscenza, la paura di peccare, perché come notava già Jacques LeGoff, “l’uomo medievale era ossessionato dal peccato”. Attraverso indagini lessicologiche Fenu Barbera dimostra come l’ora nona di Dante rechi traccia di una radice che rimane nell’inglese noon, mezzogiorno. È l’ora della morte di Cristo, secondo la tradizione, l’ora della sua discesa all’Inferno, ma è anche l’ora in cui il demone del Salmo 91,6 scocca le sue frecce disseminando peste, terrore e morte.

Le più recenti versioni della Bibbia parlano di uno “sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno”, ma la letteratura religiosa si è interrogata a lungo sull’identità di questa entità maligna che la Bibbia dei Settanta e la Vulgata chiamavano rispettivamente daimoniou mesembrinou e daemonio meridiano. Un demone di mezzogiorno, che opera alla luce del sole anziché col favore delle ombre. Per i padri del deserto rappresentava l’accidia, quella che nel corso dei secoli si è tradotta nella melanconia e che oggi identifichiamo con la depressione: uno dei mali che meglio incarna il nostro tempo e i paradossi più inquietanti della nostra coscienza – Il Demone di Mezzogiorno è anche il titolo di un saggio del giornalista David Solomon, del 2013, per metà reportage e per metà racconto autobiografico sulle oscure pieghe della depressione. Tracciando un interessante percorso comparativo, Fenu Barbera suggerisce come il demone dell’ora nona trovi un corrispettivo in altre culture mediterranee e mediorientali: le Sirene di Omero, le cicale nel Fedro di Platone, le ninfe che generano incubi nel folklore greco. La “femina balba” che Dante sogna in Purgatorio, Canto XIX, è descritta come “dolce serena, che’ marinari in mezzo al mar dismago, tanto son di piacere a sentir piena”. Virgilio la chiama “antica strega”; si tratta della cupidigia, secondo i commentatori, ma varrà la pena notare che nello stesso canto Dante si sofferma sull’acedia definendola come mancanza d’amore, e in apertura si legge “Ne l’ora che non può il calor diurno intepidar più il freddo della luna” – l’orario di caccia del demone di mezzogiorno.

È a questo punto che entrano in gioco le lacrime. Sono un segnale che lamenta l’impotenza umana di fronte all’oltremondano, ma per Dante diventano strumento di redenzione. Evagrio Pontico, asceta egiziano del quarto secolo dopo Cristo, accusava l’accidia di essere il peccato più pericoloso perché tentava i monaci del deserto, nelle lunghe ore di meditazione, allontanandoli dalla retta via; proprio come il canto di una Sirena. Per combatterlo, bisognava ricorrere alle lacrime: il dono lacrimarum, un lascito divino che serviva a manifestare al creatore la propria colpa. Dante probabilmente conosceva il pensiero di Evagrio Pontico ed è possibile che ne abbia tratto ispirazione per l’architettura del Purgatorio. Ancora più importante, attraverso le lacrime Dante-personaggio assume la colpa dei peccati propri e delle anime che lo circondano – per questo motivo si commuove per i dannati dell’inferno, quantomeno di coloro che meritano compassione. Piangendo, Dante afferma il valore dei nostri atti e alimenta lo stacco tra i due mondi. Lui, che viaggia come anima viva per l’Inferno, si redime attraverso il pianto. Le lacrime dei dannati, invece, non servono a migliorare il loro destino, anzi possono essere ingannevoli, addirittura “false lacrime” come quelle che Fenu Barbera riconosce in Inferno, Canto XX. Quando le anime si rivolgono a Dante lacrimando, si osserva, eseguono solo un vano tentativo di captatio benevolentiae. In Paradiso, invece, nessuno piange; non ve ne sarebbe motivo. “Beati quelli che piangono, perché saranno consolati”, viene in mente, e insieme a questo richiamo affiora una grande differenza tra il weird di Dante e quello contemporaneo, tra il contemptus mundi medievale e l’attuale orrore dell’antropocene. L’altra vita in cui trovare conforto, per Dante, è un Paradiso tangibile al punto da offrirsi come ambientazione per una cantica.

Persa la fede, a noi invece cosa resta? Le foreste labirintiche di Jeff VanderMeer, le distese post-nucleari di Antoine Volodine, le strade deserte di Cormac McCarthy, e molti altri esempi più o meno distopici, sono lì a suggerirci come il fantastico abbia forse perso “la speranza dell’altezza”. Ed ecco che le lacrime si asciugano e si ghiacciano, ritraendosi all’interno degli occhi come negli strati più profondi dell’Inferno, nel Canto XXXIII.

Lo pianto stesso lì pianger non lascia
e ‘l duol che truova in su li occhi rintoppo
si volge in entro a far crescer l’ambascia

chè le lafrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo
riempion sotto ‘l ciglio tutto il coppo

Ogni storia è una storia di fantasmi

Quando Dante incontra il genovese Branca Doria, nel Canto XXXIII dell’Inferno, il suo stupore è immane poiché lo credeva ancora in vita. È vivo infatti, ma presto giunge in aiuto la spiegazione: in casi di eccezionale malvagità è il demonio stesso che prende possesso del corpo fisico, che prosegue la sua esistenza terrena mentre lo spirito del colpevole è spedito anzitempo all’Inferno.

L’idea degli “spiriti viventi” non era del tutto nuova in ambito occidentale, li conoscevano anche gli antichi greci col nome di eidolon, ma è interessante rintracciare il percorso che ha condotto questo tòpos fino ai giorni nostri propagandosi parallelamente da culture molto differenti. Ogni storia di fantasmi è una storia di mancanza, che è il rovescio della medaglia di uno degli aspetti del weird: trovare qualcos’altro al posto di ciò che ci è familiare, oppure turbarci per la sua assenza.

Gli spiriti viventi sono elementi fondanti della tradizione e del folklore giapponesi; gli ikiryō, che appaiono anche come fiammelle fluttuanti, o fuochi fatui – ricordano le “fiamme cornute” della bolgia di Ulisse. In certi casi, si tratta di spiritelli fastidiosi che svolgono una funzione apotropaica: dissuadono dal frequentare certi luoghi e dall’osservare certe dannose abitudini, e comunicano col mondo dei vivi solo attraverso particolari porte. Con sviluppi più cupi, però, diventano i simulacri di anime vendicative che non riescono a raggiungere la liberazione perché ancorate alla vita dal rancore che provano. C’è una vasta serie di anime e manga che li rappresenta, da Mushishi a Kyōkai no Rinne, fino a giungere a istanze di ribaltamento come quello operato da Kiseiju: nel corpo di Shinichi si insedia un parassita alieno che si comporta tuttavia in maniera non dissimile da un ikiryō, fino a dimostrarci come il vero parassita sia l’uomo.

Prima ancora, nella letteratura classica, l’imponente Genji Monogatari (1000-1100 d. C.) racconta dello spirito vivente che emerse dall’amante del principe Genji, la Dama Rokujō, allo scopo di tormentarne la legittima moglie Aoi no Ue, fino a causare la morte della donna durante il parto – una maledizione che la Dama Rokujō perseguirà, tramutandosi in spirito maligno, anche verso le due successive mogli di Genji.

È significativo che il romanziere giapponese Haruki Murakami citi proprio questo episodio in Kafka sulla spiaggia. Il sogno, la duplicità, la tensione dubbiosa tra reale e irreale rappresentano un leitmotiv della sua produzione letteraria. La dualità tra assenza e presenza è la chiave che permette a Murakami di azzardare incursioni weird e fantastiche in un tessuto realistico, operate sempre attraverso l’ingresso di una porta. Quella prediletta è il sogno. Attraverso il sogno Kafka Tamura, il giovane protagonista, incontra una versione sedicenne della signora Saeki, suo desiderio sessuale, e infine una porta nella porta: in un’atmosfera surreale, onirica, Kafka Tamura percorre un labirinto nel bosco fino a raggiungere un villaggio paradisiaco. Un labirinto che somiglia alla interiora dispiegate di un’animale, come nelle predizioni celesti degli antichi, e nelle sue pieghe si annida in verità una natura infernale: non è un caso che Dante, in Inferno, Canto XXVIII, citi gli intestini di Maometto: “’l tristo sacco, che merda fa di quel che si trangugia”.

Le storie weird sono anche storie di fantasmi. Quelle di Murakami ne sono affollate. Il fantasma della guerra, ad esempio, e della bomba nucleare. Kafka Tamura, nel labirinto, incontra due soldati rimasti sospesi negli anni ’40, mentre il camionista Hoshino si meraviglia quando gli dicono che gli americani avevano attaccato il Giappone. Anche L’uccello che girava le viti del mondo è punteggiato da lunghe digressioni belliche, insieme a fantasmi di altro genere. Le rutilanti telefonate che accompagnano la vita di Toru Okada verso i territori del bizzarro e dell’inquietante, altro non sono che voci senza corpo, e i personaggi che incontra, altrettanto inspiegabili, lo obbligano a riferirsi a loro con nomi fittizi: sono corpi senza nome. Okada finisce per rifugiarsi in un altro mondo attraverso una porta ben tangibile. Si cala fino al fondo di un pozzo, ma in questo caso oltre il confine, anziché una nuova realtà che interferisce con quella familiare, si sprigiona un’oscurità che è metafora del nulla. Nel buio assoluto, scrive Murakami, Okada perde familiarità con la propria stessa esistenza; deve toccarsi il viso con la mano per accertarsi di avere ancora un viso, e di avere ancora una mano.

A proposito della porta del sogno, e di porte nelle porte, Dante parlava dell’anima che “sognando, desidera sognare”. Sembra di sentire Jeff VanderMeer, quando scrive: “Viviamo tutti in una sorta di sogno ininterrotto. Quando ci svegliamo, è perché qualcosa, qualche evento, anche solo una puntura d’insetto, ha disturbato i margini di ciò che abbiamo convenuto essere la realtà”. L’Area X dei suoi romanzi è un’ampia foresta che ha iniziato a comportarsi in maniera non conforme alle leggi del nostro pianeta. Il gruppo di scienziate, inviate a esplorarla, perde rapidamente traccia del proprio percorso, della propria identità e della propria memoria, fino a comprendere che non c’è percorso, non c’è identità e non c’è memoria. La natura stessa è singolarmente cangiante: forme vegetali si uniscono a quelle animali, e insieme danno vita ad ancora nuove forme, di cui l’uomo si trova a partecipare come parte organica. Il corpo che cambia è un altro esempio prettamente weird di un elemento familiare che si tramuta in perturbante. Nel Canto XXV dell’Inferno Dante eredita il tema della metamorfosi da Ovidio e, non contento, lo sfida:

Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:

[…]

Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.

Operando su un piano più introspettivo, VanderMeer scrive: “Avevo la spiacevole sensazione che il mondo naturale intorno a me fosse diventato un qualche tipo di camuffamento”, e ancora “Una volta raggiunta la nostra destinazione, non eravamo più ciò che eravamo state, e non eravamo ancora ciò che saremmo diventate”. Si respirano suggestioni eraclitee in questo passaggio, e in effetti l’Area X contrappone un tutto che scorre al nulla immobile che Toru Okada sperimentava sul fondo del pozzo. La natura della foresta è onnicomprensiva. Una volta attraversata la porta, la soglia scompare e il confine tra i due mondi svanisce. L’orrore nasce dal fatto che chi si appiglia a un’identità ormai perduta, resta dilaniato da due forze contrastanti. “Cammino eternamente lungo il sentiero che si apre dal campo base. Ci vuole molto tempo, e so che ce ne vorrà ancora di più per tornare indietro. Non c’è nessuno con me. Sono completamente sola. Gli alberi non sono alberi gli uccelli non sono uccelli e io non sono me ma solo qualcosa che sta camminando da molto, molto tempo”. In uno sprazzo di lucidità, ecco che si apre l’orrore, e in quegli alberi che non sono alberi – e uomini che non sono uomini – pare di rivedere la selva dei suicidi di Inferno, Canto XIII.

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.

Le schiere di anime dannate “che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” in Inferno, Canto III, invece, ci accompagnano verso un’altra delle grandi porte del weird: quella tra vita e morte. Dante non prova compassione per chi si è macchiato del peccato di ignavia, e si sottintende anche un colpevole sottrarsi all’attività mondana, morale e cittadina. Dice Virgilio di loro:

Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.

Ma se oltre alla fede crolla anche il sistema di riferimento, costituito appunto da impianti morali e urbani, varrà ancora la pena assumersi impegni e responsabilità? E varrà ancora la pena essere vivi, anziché morti? “A quell’epoca, io stavo cercando l’oblio, e cercavo in quei volti assenti, anonimi, anche nei più penosamente familiari, una specie di innocua fuga. Una morte che non significasse essere morti.” Così scrive VanderMeer, ma a parlare sembra che siano i soldati di Terminus Radioso, di Antoine Volodine. Dispersi nelle steppe di una Russia post-nucleare ma ostinatamente sovietica, l’idea stessa di guerra e di politica è talmente lontana da aver smarrito persino la consistenza impalpabile del fantasma. L’operazione più weird di Volodine consiste nell’aver polverizzato l’immaginario sci-fi e distopico di partenza in un delirio mistico e pienamente metafisico. Manca il contrasto e manca l’orrore. Si pensi invece a La Strada, di Cormac McCarthy. Mentre si percorrono le strade polverose di un’America dove la catastrofe ha spazzato via ogni forma di vita non umana, c’è tempo per dirsi: “Siamo i sopravvissuti” […] “Per Dio, che diamine stai dicendo? Noi non siamo i sopravvissuti. Siamo i morti viventi in un film dell’orrore”.

Kronauer e compagni, invece, sono al tempo stesso vivi, morti, immortali e morenti. Scivolano dal sonno alla veglia e dal sogno alla realtà, qualsiasi cosa essa voglia dire. Combattono una guerra che è finita ma che dura per sempre, incarnano i valori di un regime che rappresenta la loro ragion d’essere, ma al tempo stesso si muovono per inerzia senza che alcuna anima o alcun pensiero senziente muova i loro passi. “Tu credi di essere ancora vivo, e invece è finita. Sei solo un avanzo”.

Luca Matti, Senza titolo (dalla serie “Nuagessines”, 2016)

Il disprezzo del mondo

Il critico John Clute, in The Darkening Garden: A Short Lexicon of Horror, argomenta: l’orrore nasce nel momento in cui diventa possibile intendere il nostro stesso pianeta come un dramma. Questa definizione sembra viaggiare di pari passo con gli sviluppi della letteratura contemporanea, che a un orrore cosmico lovecraftiano – che appaia il senso di angoscia su scala infinitamente piccola e infinitamente classica – affianca una paura che ha ritrovato il proprio oggetto; una paura “planetaria”, come mostra il proliferare delle distopie insieme ai già citati esempi di Jeff VanderMeer, Antoine Volodine e Cormac McCarthy, a cui potremmo aggiungere anche il weird dai profondi risvolti politici (che non erano certo estranei alla Commedia) di China Miéville.

Abbiamo già accennato a come Dante, uomo prettamente medievale, desse voce nella sua opera maggiore all’ossessione degli uomini del suo tempo per il peccato e per il giudizio divino. Basterà citare uno dei dati di partenza più noti: nell’Inferno dantesco, i morti conservano memoria delle loro colpe per l’eternità, e non rinascono ad anime nuove come invece accadeva nella tradizione greca, in seguito al bagno nel Lete. Una forma di pensiero che si configura in un più ampio disprezzo per il mondo e per le cose terrene, mentre la spinta teleologica tende a collocare tutto ciò che è bello e desiderabile in un altro mondo e in un’altra vita, quella paradisiaca. Il Medioevo è affollato di opere incentrate sul contemptus mundi, da Papa Innocenzo III a Bernardo di Cluny passando per Fra’ Bartolomeo da Pisa, la cui trama sotterranea è quella suggerita dalla temperie religiosa dell’epoca: la parentesi terrena dell’uomo consiste nello scontare la colpa con cui si è nati, e il marchio che portiamo sulla fronte contagia chi ci sta intorno col seme del peccato.

Quando oggi parliamo di “orrore dell’antropocene”, recuperiamo una simile attenzione negativa nei confronti dell’operato umano, e, in una prospettiva laica, le colpe dei singoli diventano l’eredità di un’azione collettiva che ha irrimediabilmente mutato il panorama del pianeta, al punto di suggerire che un’intera era geologica prenda il nome dalla specie che l’ha dominata. La novità della riflessione contemporanea sta nel fatto che, di questo processo, cominciamo a intuire la fine. E sarà una fine, ipotizzano autori come Eugene Thacker in Tra le ceneri di questo pianeta, che si consumerà in un mondo senza l’uomo, e che per essere ragionata richiede di appoggiarsi a categorie filosofiche che di nuovo non comprendono l’intervento umano; da cui, anche la filosofia diventa un oggetto familiare che si è fatto incomunicabile, e che pertanto genera orrore.

Il piano di dialogo tra la contemporaneità e il contemptus mundi medievale espresso da Dante s’increspa quando analizziamo appunto la exit strategy. Nella Commedia c’è un chiaro senso di finalità dove l’uomo gioca una parte importante, sia nel bene che nel male. Il Paradiso è presente e tangibile, l’Inferno è straordinariamente corporeo – anche nelle scelte stilistiche e lessicali di Dante. I dannati di Terminus Radioso di Volodine, invece, si trovano a galleggiare nelle acque del Lete senza tuttavia mai immergersi del tutto: sono allo stesso tempo coscienti e non coscienti delle colpe che li hanno condotti al contrappasso, e le colpe stesse esistono e non esistono. Se l’ansia, secondo l’analisi di Freud, era una paura che ha aveva smarrito il proprio oggetto, qui è il desiderio che si ritrova privo di un luogo a cui tendere. Senza più un Paradiso da guadagnare, le cose desiderabili non precipitano sulla terra ma si volatilizzano nello spazio siderale. Ne consegue un’altra grande spaccatura, quella tra ordine e disordine. È significativo che Eugene Thacker recuperi l’esempio dell’Inferno dantesco nella sua attenta disamina della demonologia. Il diavolo rappresenta quei mostri che fuoriescono da tale spaccatura, incarnano il non-umano che può tuttavia possedere animi e corpi umani, estendendo la sua impronta anche sul paesaggio.

Se una delle cifre dell’antropocene è dunque quella del disordine, con una serie di forze che spingono in direzioni diverse, l’architettura dantesca si realizza invece in un ordine che obbedisce al paradigma divino, un dato evidente anche tra le brutalità dell’Inferno. In questo senso, è interessante affiancare i due diversi tipi di ordine tra demonologia e angelologia. Su quest’ultimo argomento, Olschki ha pubblicato nel 2010 un testo straordinariamente completo: In the Light of the Angels: Angelology and Cosmology in Dante’s Divina Commedia, a opera di Susanna Barsella, docente alla Fordham University.

Uno dei temi più attuali dell’indagine è il relazionarsi di Dante col determinismo astrologico suggerito dagli sviluppi scientifici dell’epoca. Nel dibattito tra valenza delle opere umane e il destino divino scritto nei movimenti delle stelle, ritroviamo una parte delle odierne istanze deterministiche che vedono il libero arbitrio soccombere agli studi neurologici. Si affaccia anche un altro dei temi più cari al weird del ventunesimo secolo: il sé che si frammenta nel relativismo assoluto (nell’Area X, “io non sono più io…”) e la volontà che smette di guidare le nostre scelte (i personaggi di Terminus Radioso, che si muovono da un luogo all’altro senza motivazioni logiche, e ciò influenza lo stesso spazio che percorrono).

Dante, sulla scorta di altri commentatori dell’epoca, non accetta in pieno il cambio di paradigma, attento a puntellare quelle mura che reggono la sua concezione di ordine. I movimenti celesti influenzano l’uomo tramite inclinazioni, quelle di cui parla Carlo Martello in Paradiso, Canto IX, ma il libero arbitrio rimane come garante dell’ordine divino che si traduce nel mondo terreno.

Gli angeli sono figure intermediarie, dimostra Barsella, dotati di funzioni contemplative e attive – un’altra brillante soluzione intermedia alle baruffe teologiche medievali. Gli angeli non sono infiniti, ma il loro numero è comunque maggiore di quello dei movimenti celesti che gli astrologi sono in grado di calcolare. La società ideale è perfettamente ordinata e ciascuno opera in armonia con le proprie inclinazioni; l’Inferno ribalta tale struttura ma si mantiene incasellato tra i confini di tale società, e non potrebbe essere altrimenti. “Che cos’è una mappa” scrive del resto VanderMeer, “se non una maniera di enfatizzare certe cose rendendone altre invisibili?” C’è ordine anche nel disordine; è per questo che l’impalcatura filosofica della Commedia regge e anzi sostiene i suoi momenti weird, mentre la filosofia che ispira la tendenza perturbante della letteratura contemporanea assume piuttosto la funzione di un parassita che la divora dall’interno.

Sarà colpa anche dei diavoli danteschi di cui parla Eugene Thacker? Quelli che osserviamo nel Canto V dell’Inferno possiedono aspetti peculiari. A differenza di Lucifero e dei satanassi faustiani dei Malebranche, l’aura nera o bufera infernal che avvolge le anime lussuriose di Paolo e Francesca e “di qua, di là, di giù, di sù li mena” non gode di forma corporea ma è nondimeno un demone: non-discreto e immanente, dotato di forza, al punto che Dante ne è sopraffatto e sviene. Un demone geologico e persino climatologico, scrive Thacker; di fronte a una tale pervasività la paura planetaria di cui parlavamo in precedenza non può che ingrossare la propria fiamma, e la letteratura weird mostra come, nelle bolge, nei cerchi, le cornici e i cieli della nostra mente, non si trovi un ordine angelico in grado di salvarci – né lacrime che possano condurci alla redenzione.


Andrea Cassini, classe 1988, filologo medievale di formazione, è giornalista, traduttore e consulente editoriale. Scrive di sport per FIBA, L’Ultimo Uomo, Play.it USA e altre testate. Ha pubblicato racconti su riviste letterarie e nelle antologie “Prisma Vol. 1” (Moscabianca Edizioni) e “Forme d’Autore – Cinque racconti di arte contemporanea” (L’Eco del Nulla – Associazione Essere)

2 comments on “Dante weird: il pioniere dello “strano” letterario

  1. Alfredo

    Interessantissimo

  2. Veramente acuto!

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