Death Note: L’utopia non è innocente


Se uccidiamo tutti i cattivi, rimaniamo gli unici bastardi in circolazione? Un’analisi delle utopie a partire dal fumetto (e da poco film) Death Note, di Tsugumi Ōba.


di Andrea Cassini

Nell’epoca della post-verità, ha più senso domandarsi cosa sia vero o chiedersi perché crediamo in qualcosa, e studiare le reazioni che suscita una notizia sparsa in tutto il globo? Il caso in questione è quello del Blue Whale, gioco suicida di origine russa, in circolazione già da qualche anno ma esploso sulle principali testate, online e cartacee, solo lo scorso maggio. In un rincorrersi di bufale e smentite, il messaggio che traspare è questo: esiste una rete di ragazzi, denominati tutori, in grado di accalappiare i soggetti psicologicamente più deboli e indurli al suicidio, una missione dopo l’altra, manipolandoli a distanza.


In Death Note, Light incappa in un quaderno che condanna alla morte qualunque nome vi sia scritto, con le modalità prescelte dal possessore. A metà tra la noia e il genuino desiderio di creare un mondo migliore, decide di usarlo per eliminare i criminali.


Un modus operandi simile a quello di Light Yagami, avrà pensato qualsiasi appassionato di anime e manga che si sia lasciato affascinare da una delle storie più intriganti dello scorso decennio. In Death Note, Light incappa in un quaderno che condanna alla morte qualunque nome vi sia scritto, con le modalità prescelte dal possessore. A metà tra la noia e il genuino desiderio di creare un mondo migliore, decide di usarlo per eliminare i criminali. Nel 2003, data di uscita del primo volume, non si parlava così tanto di post-verità, ma il concetto coincide: l’esistenza del giustiziere divino è tutt’altro che conclamata, ma intorno a lui si anima un culto di proporzioni globali che inneggia a Kira, storpiatura giapponese per killer. Le connessioni non finiscono qui. Tra le poche notizie certe del caso Blue Whale  – seppure diffusa con mesi di ritardo – c’è quella dell’arresto di Philipp Budeikin, presunto studente di psicologia tra gli organizzatori del gioco. Le sue dichiarazioni non sono confermate da alcuna fonte ufficiale ma hanno fatto comunque il giro del mondo. Verità o no, s’inseriscono a pennello nella narrativa. “I ragazzi che scelgo sono scarti biologici”, avrebbe detto. “Li ho spinti al suicidio per purificare la società”. Obiettivi e disciplina sono diversi, ma sembra di rileggere il proclama di Light Yagami: “il mondo è marcio, e quelli che lo stanno rendendo tale meritano di morire”. La fiamma della popolarità si è riaccesa intorno a una storia che rischiava di finire dimenticata troppo presto: merito del film di produzione americana, atteso da anni e finalmente sbarcato su Netflix lo scorso 25 agosto. Le prime reazioni all’opera di Adam Wingard non sono entusiasmanti; esperti e fan di vecchia data lamentano la scarsa fedeltà della pellicola al manga, con annesse difficoltà nell’adattare una trama spigolosa ai più moderati gusti hollywoodiani. Ma al di là delle opinioni della critica, dopo 14 anni la storia di Death Note ha la possibilità di raggiungere un pubblico più ampio, e a chi già la conosceva si presenta l’occasione per una domanda: quanto il nostro mondo ha finito per somigliare a quello immaginato da Tsugumi Ōba e Takeshi Obata?

Nei tempi immediatamente seguenti alla pubblicazione del manga, e in misura ancora maggiore dopo i 37 episodi dell’anime, Death Note non ha mancato di far parlare di sé. Nelle pagine di cronaca, innanzitutto: più di qualche disordine ha scosso le scuole della Cina e dello stesso Giappone, con studenti che si appuntavano i nomi dei rivali sul proprio personalissimo quaderno della morte, e la fama di Kira che finiva in mezzo alle indagini di presunti serial killer – si è registrato un caso, datato 2008, persino nelle tranquille campagne del Belgio. Mentre il governo cinese reagiva colpendo Death Note col maglio della censura, in America il fumetto entrava nelle aule universitarie dalla porta principale, popolando articoli accademici.

Death Note: The killer in me is the killer in you è il titolo del contributo di Susan Napier alla raccolta Fanthropologies dove la studiosa ammette di essersi immersa nell’opera per due settimane, tra carta stampata e video. Un attestato di stima che proviene da una delle massime esperte in materia di cultura giapponese, nello specifico letteratura e cinema, autrice di approfondimenti seminali sull’arte di Hayao Miyazaki e Satoshi Kon, passando per franchise amati dalla critica come Akira e Neon Genesis Evangelion. 

Alisa Freedman torna a indagare l’impatto sociale del manga nel capitolo Death Note, Student Crimes, and the Power of Universities in the Global Spread of Manga, contenuto in The End of Cool Japan, a firma di Mark McLelland. Il dibattito però non si spinge oltre, come se il mondo contemporaneo non offrisse ancora alla critica i mezzi per una piena comprensione. L’effervescente scena del fumetto giapponese propone sempre nuovi temi a cui appassionarsi, e gli emuli di Light Yagami che si palesano a cadenza regolare contribuiscono di poco all’evoluzione del messaggio: uno dei migliori esempi è LeLouch di Britannia, protagonista di Code Geass, che guida la rivoluzione del Giappone contro un impero distopico grazie al potere di farsi obbedire con lo sguardo. La chiave di lettura dominante è stata finora quella dell’unico “vincitore” della storia: il nichilismo dello shinigami Ryuk, il dio della morte che lascia cadere il suo quaderno tra gli umani per noia e osserva divertito gli affanni di Light. La morte, sottintende col suo comportamento distaccato, è faccenda affidata al caso, che non compete né agli uomini né agli dei, e nemmeno il potente Kira è in grado di rimandare la data stabilita per la propria fine. In occasione dell’uscita del film con produzione americana, se ci sforziamo di cogliere altre inquadrature, il messaggio di Death Note sembra essersi fatto più ricco, mutato insieme alla nostra civiltà.

La società della ragione strumentale

La trasformazione di Light Yagami, studente modello annoiato dalle consuetudini, in Kira, dio di un nuovo mondo fondato sul terrore, corre sul filo sottilissimo di una morale ambigua. Lui la elegge a unica discriminante per distinguere i criminali, che meritano la morte, dai giusti; al tempo stesso l’abbandona, la rende un mero strumento di governo, divenendo egli stesso il criminale più sanguinoso di ogni epoca. L’unica misura della morale è il successo: “se Kira viene catturato è il male, se domina il mondo è la giustizia” sintetizza lo stesso Light. Il suo regime è a tutti gli effetti un’utopia, ma lo scenario è ben diverso da quello, idilliaco, a cui associamo di solito il termine. Vengono in mente le parole di Peter Sloterdijk, che ha catturato l’epoca presente in una frase: “l’utopia ha perduto l’innocenza”. In un richiamo involontario tra due dei pensatori più brillanti dei nostri giorni, Slavoj Žižek gli faceva eco a stretto giro: “se il mondo avrà un futuro, questo sarà utopistico, o non esisterà affatto”.


“La punizione non può mai essere utilizzata come mezzo per promuovere un altro tipo di bene”, scriveva Kant: “il male risiede nel potere di uccidere. Chiunque lo sfrutti, non importa con che proposito, non potrà mai condurre gli altri alla felicità”, insegna il commissario Yagami al figlio.


Congiungendo le due affermazioni si ottiene una condanna che sembra consegnarci a un destino poco differente da quello fabbricato da Light: ordinato, ma privo di riferimenti storici e morali. Non assomiglia forse quello a cui tendono le strategie comunicative di correnti politiche e non, che cavalcano l’onda della succitata era della post-verità?

Death Note non è terreno estraneo alla filosofia. A ben vedere, l’intera trama si sviluppa come un duello filosofico sul tema della giustizia. La società che Light mette in piedi si fonda sulla ragione strumentale, come teorizzata da Max Horkheimer: ogni cosa è un mezzo per giungere a un fine, e l’assunto con cui si ammaestra il popolo è lo stesso che Leo Löwenthal, per restare nella Scuola di Francoforte, aveva individuato tra i caratteri distintivi dei campi di concentramento: “una delle funzioni principali del terrore è di cancellare ogni legame razionale tra decisioni del governo e il destino individuale”. Il detective L, mente sopraffina che dà la caccia a Kira fino a giungere a stretto contatto col sospettato, vede il mondo sotto lo stesso filtro. La sua idea di giustizia è secondaria, è a sua volta piegata alla ragione: un mezzo per prevalere sull’avversario in una partita a scacchi – o a tennis, calcando la metafora che Tsugumi Ōba ha scelto per uno dei primi incontri tra i due amici/rivali. “Io sono la giustizia!” esclamano i due all’unisono, nel climax che conduce al confronto finale. All’estremo opposto troviamo l’immobilismo kantiano del padre di Light, il capo della polizia. Soichiro Yagami fa sua la posizione dello stesso Kant ne La metafisica dei costumi. “La punizione non può mai essere utilizzata come mezzo per promuovere un altro tipo di bene”, scriveva Kant: “il male risiede nel potere di uccidere. Chiunque lo sfrutti, non importa con che proposito, non potrà mai condurre gli altri alla felicità”, insegna il commissario Yagami al figlio.

Falchi, colombe e Leviatani

La biologia ci offre una sponda preziosa, con l’ottima lettura degli equilibri sociali che il neo-darwinista Richard Dawkins, tra gli altri, propone con l’esperimento computerizzato di falchi e colombe.


L’equilibrio è raggiunto quando una società annovera un buon numero di colombe, che producono beni e impediscono al gruppo di autodistruggersi, insieme a un manipolo di falchi che si contendono il potere ma respingono gli attacchi di individui esterni alla comunità.


Si tratta di un’analogia che attinge a piene mani da quella teoria dei giochi che valse un premio Nobel a John Nash e che si presta alle più varie applicazioni: la comunità umana non si comporta in maniera troppo diversa da un qualsiasi altro gruppo animale. Chiamiamo colombe quegli individui che convivono pacificamente: collaborando senza lottare per il possesso di risorse, raggiungono il massimo benessere. Sono tuttavia incapaci di difendersi dagli attacchi e basterebbe l’arrivo di un singolo falco, un individuo bellicoso che accumula risorse per sé in ogni modo possibile, per ridurre drasticamente il livello di benessere. L’equilibrio è raggiunto quando una società annovera un buon numero di colombe, che producono beni e impediscono al gruppo di autodistruggersi, insieme a un manipolo di falchi che si contendono il potere ma respingono gli attacchi di individui esterni alla comunità. Il benessere non sarà ottimale, ma il compromesso porta comunque il segno positivo. Ecco dipanarsi l’utopia del mondo che Kira si affanna a costruire: eliminando i falchi uno per uno, dissuade gli altri dall’imitarne il comportamento aggressivo fino a istituire una società di sole colombe, dove il benessere è massimo. Analizzare la questione in tali termini, anziché distinguere tra individui buoni e cattivi, sarà forse più puntuale: come si è visto, in Death Note la morale si contorce sull’idea stessa di giustizia. Ad ogni modo, qui risiede il paradosso: il garante di questa società è l’unico falco rimasto in circolazione, nessuno può proteggere le colombe dal suo giogo. In osservanza della regola originale Kira dovrebbe eliminarsi da solo, ma l’utopia ha davvero perduto la propria innocenza.


Kira incarna il Leviatano di Hobbes, accentrando il potere e proiettando il mondo in un nuovo stato di natura, dove non servono più leggi perché la bellum omnium contra omnes si è spenta.


“Se uccidi tutti i cattivi, rimarrai l’unico bastardo in circolazione” – Ryuk

Siamo di fronte a una variazione sul tema del contratto sociale: Kira incarna il Leviatano di Hobbes, accentrando il potere e proiettando il mondo in un nuovo stato di natura, dove non servono più leggi perché la bellum omnium contra omnes si è spenta. Per alcuni questo particolare Leviatano possederebbe i contorni mostruosi di un benessere falso, come presagivano le parole di V per Vendetta: “lei, l’anarchia, mi ha insegnato che la giustizia è priva di senso di fronte alla libertà. Lei è onesta. Lei non fa promesse, e non ne spezza”. Altri, invece, vi riconoscerebbero i contorni più incoraggianti che James Martel tratteggiava nella sua rilettura dell’opera di Hobbes verso la prospettiva democratica più radicale: Subverting the Leviathan teorizza una politica estranea alla sovranità, dove le colombe possono governarsi pur nell’ombra dell’unico falco.

Dio di un nuovo mondo

Torniamo per un attimo alla domanda che abbiamo posto in apertura. Nell’epoca della post-truth, dicevamo, ha più senso domandarsi cosa sia vero o chiedersi perché crediamo in qualcosa?

Gli ideatori della serie tv Black Mirror dovevano avere in mente questo dubbio quando hanno presentato il più recente emulo di Light Yagami nell’ultima puntata della terza stagione, Hated in the nation. Il killer dell’episodio è un hacker che manipola i social network e i sistemi di spionaggio governativi per allestire un gioco crudele: ogni giorno la persona più odiata dalla rete verrà giustiziata, che si tratti di una celebrità, di un criminale o di un comune cittadino. C’è che si oppone all’escalation e rincorre il colpevole, ma c’è anche chi accetta le regole d’ingaggio rassegnandosi a un mondo tenuto in ostaggio. “In fondo, basta non trovarsi mai in cima alla lista” commenta il primo ministro mentre il proprio nome risale la classifica. In Black Mirror però il gioco si ribalta, e nella sua fase finale svela il vero obiettivo del killer. Il giudizio del falco si abbatte sugli autentici colpevoli, quelli che hanno partecipato alle votazioni: nessuno ha il diritto di giudicare.

C’è un concetto che traspare, già presente nella narrazione di Death Note. Il virtuale si fa più onesto del reale, e dietro l’anonimato di una tastiera si è liberi di esprimersi senza forzature morali. Pochi si azzardano a sostenere in pubblico l’operato di Kira, ma sulla rete fiorisce un culto religioso in suo onore: in molti sono disposti ad accettare i suoi metodi violenti se la ricompensa sarà il migliore del mondi possibili. Per tornare alla filosofia, Platone raccontava di un anello magico che rendeva invisibile chiunque lo indossasse. Apparteneva al pastore Gige che lo sfruttò per diventare re, così come Light plasma il mondo a suo piacimento scrivendo nomi sul quaderno.

Light Yagami è a tutti gli effetti il dio di un nuovo mondo, come si professa dal momento in cui avvia il proprio progetto. Non il governatore celeste e irraggiungibile dei monoteismi, piuttosto una divinità antropomorfa e capricciosa, come quelle della tradizione shintoista giapponese. Se alla fine della storia esce sconfitto è perché ha peccato della stessa hybris che tradiva gli eroi delle tragedie greche; ha errato come un uomo, si è tradito affidandosi a collaboratori più fallibili di lui. L’esito, tuttavia, non muta il senso di ciò che ha creato.

È probabile che il 2017 verrà ricordato come l’anno in cui il grande pubblico si è avvicinato a temi come l’intelligenza artificiale, la fine del libero arbitrio, il transumanesimo. L’antropocene, un’intera era delineata dall’influenza dell’uomo sul mondo, è ormai un concetto familiare. Anche per questo la vicenda di Death Note ci racconta oggi qualcosa in più rispetto a quattordici anni fa. Ci parla di un Homo Deus in anticipo sui tempi, per citare il titolo del recente saggio – firmato da Yuval Noah Harari  – che ha il pregio di fissare il posto della nostra specie tra presente e futuro. Un autentico eroe dell’antropocene, tra i primi che possiamo immaginare. Gli ausili di cui si avvale Light Yagami sono di tipo sovrannaturale e non tecnologico, come suggerirebbero invece i fautori di una simbiosi tra carne e macchine, ma egli vanta nondimeno i poteri di un dio, uniti alla capacità tutta umana di errare. Aliena sé stesso e il mondo che governa dalle leggi che regolano sopravvivenza, competizione ed evoluzione.

È cruciale che simili riflessioni scaturiscano in anni già proiettati verso il futuro, eppure ancora avviluppati nel presente. Il Leviatano ci mostra le sue facce, annebbiate dal dubbio di una verità mai così fluida. I reietti del Blue Whale, gli schiavi dell’hashtag di Black Mirror e i devoti di Kira in Death Note popolano lo stesso web, ambiguo e gigantesco al punto da sovrapporsi al mondo fisico. Cosa saremmo disposti ad accettare, se a proporcelo fosse un Homo Deus come Light Yagami? La specie umana collabora da sempre, falchi e colombe, seguendo la direzione indicata dal mito: se importasse ciò che è vero, sostituirlo con un soggetto reale rappresenterebbe un balzo epocale sui gradini della scala.


Riferimenti bibliografici
Mechademia 5: Fanthropologies, Frenchy Lunning, University of Minnesota Press, 2010
From Impressionism to Anime: Japan as Fantasy and Fan Cult in the Mind of the West, Susan J. Napier, Palgrave Macmillan, 2007
The End of Cool Japan: Ethical, Legal, and Cultural Challenges to Japanese Popular Culture, Mark McLelland, Routledge, 2016
Il gene egoista, Richard Dawkins, Mondadori, 1995, traduzione di A. Serra
Subverting the Leviathan: Reading Thomas Hobbes as a Radical Democrat, James R. Martel, Columbia University Press, 2007
Homo Deus: Breve storia del futuro, Yuval Noah Harari, Bompiani, 2017, traduzione di M. Piani

Andrea Cassini Nato a Pistoia, classe 1988, filologo medievale di formazione. Si occupa di sport per La Giornata Tipo, Play.it USA e BasketInside. Scrive racconti su Spaghetti Writers e ha un romanzo in uscita con Astro Edizioni.
Copertina dall’artbook ufficiale “Blanc et noir”

0 comments on “Death Note: L’utopia non è innocente

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *