Dei e tamburi

Sin dall’antichità c’è un rapporto molto stretto tra le divinità e il suono del tamburo, perché?


In copertina e lungo il testo, “Abraxas” illustrazioni realizzate con l’intelligenza artificiale DALL E 2

Questo testo è tratto da Abraxas: la magia del tamburo, di Paolo Riberi. Ringraziamo Mimesis per la gentile concessione.


di Igor Caputo e Paolo Riberi

Con il suo tamburo a cornice, il dio gnostico Abraxas era l’erede di una tradizione antica quanto la storia stessa: a partire dal primo Neolitico, il suono di questo strumento ha regolarmente accompagnato i riti di passaggio e il culto delle divinità preposte all’ordine cosmico e ai cicli della natura. Nel mondo antico, associare un tamburo all’immagine di Abraxas significava riconoscerne il ruolo di signore e navigatore delle volte celesti, garante del ciclo solare e custode degli equilibri che regolano la vita nel cosmo inferiore. Un ruolo, peraltro, ampiamente attestato anche nei vangeli apocrifi e nelle molte formule magico-rituali di uso quotidiano che ci sono pervenute. 

Rispetto alle tradizioni sciamaniche dell’Asia centrale, che facevano del tamburo un veicolo magico per la “navigazione celeste”, nell’Europa neolitica si affermò una concezione maggiormente simbolica di questo strumento, che lo trasformava piuttosto in un attributo divino. Presso le prime civiltà del Mediterraneo, il suono delle percussioni era associato al “mistero della nascita, della morte e della rigenerazione non soltanto della vita umana, ma di tutta la vita sulla Terra e anzi nell’intero cosmo”, ossia al dominio cosmico della cosiddetta Dea-Madre o Dea-Uccello. 

Questa divinità, già venerata in epoca preistorica, era abitualmente rappresentata con prominenti attributi femminili – quali il ventre gravido e i seni prosperosi – in segno di fertilità, ma veniva anche associata a una maschera da uccello e al simbolo del serpente. Il volto piumato sanciva una connessione con il mondo celeste, mentre il rettile, con il continuo cambiamento della sua pelle, impersonava il ciclico processo di trasformazione e rinnovazione della vita, delle stagioni e dell’ordine naturale3. 

Le cerimonie in onore della Dea Madre, come ci confermano i ritrovamenti archeologici, erano sempre accompagnate dalla musica del tamburo, strumento che meglio di ogni altro rappresentava la cavità terrestre e il ventre materno, ma anche l’armoniosa transizione da un reame all’altro, da una fase biologica all’altra e da una stagione all’altra. 

Nel villaggio preistorico di Ovčarovo, in Bulgaria, sono stati rinvenuti tre tamburi cilindrici sepolti accanto a quattro statuette che raffiguravano sagome umane con le mani levate verso l’alto, decorate con i simboli della Dea-Madre. Secondo l’archeologa Marija Gimbutas, “la presenza di tali simboli suggerisce che questa scena in miniatura possa aver replicato un effettivo rituale per la Dea Uccello in cui venivano usati tamburi”. 

Analogamente, anche nella Germania settentrionale sono stati molti i ritrovamenti di tamburi ornati con decorazioni a zig-zag, triangoli, scacchiere, coppie di uncini e vortici, segni distintivi della Dea Uccello. La conferma più evidente è rappresentata dalla presenza di seni femminili, scolpiti in rilievo sulla superficie laterale della cassa, variamente utilizzati come maniglie per il suonatore e come ganci per assicurarvi la pelle del tamburo. 

Come se non bastasse, ulteriori segnali giungono anche dai reperti neolitici di Folkton Wold, in Inghilterra: qui sul pannello centrale di due tamburi è addirittura inciso il volto stesso della Dea Uccello. 

Esaminando queste e molte altre testimonianze del Neolitico europeo, l’archeologa Marija Gimbutas è giunta ad alcune constatazioni molto interessanti. In prima istanza, il ruolo cultuale del tamburo veniva spesso fatto proprio anche dalla lira o da altri strumenti a corda, sui manici dei quali venivano abitualmente incisi due cigni, simboli della Dea Uccello. Ancora una volta il tamburo e la cetra risultano strumenti rituali intercambiabili tra loro, proprio come avveniva anche nel mondo sciamanico dell’Asia centrale: non sorprende che, a distanza di secoli, lo stesso Abraxas utilizzi una kithara greca a sette corde in alternativa al tamburo. 

Con ogni probabilità – osserva Marija Gimbutas – la Dea era considerata la patrona e inventrice della musica, dal momento che era proprio una melodiosa armonia ad assicurare l’ordine naturale del cosmo: “la duratura associazione degli strumenti musicali con i simboli della Dea Uccello e con uccelli e serpenti testimonia come minimo un’interrelazione assai speciale. Una sopravvivenza del tema la si trova nella Repubblica di Platone: nella storia di Er, le sfere concentriche dei cieli ruotano attorno a un fuso come un vasto fusaiolo. Ogni sfera è associata con una sirena (Dea Uccello) che canta la propria particolare nota, originando in tal modo la musica delle Sfere”, sinfonia che mantiene in equilibrio l’universo. 

Con il passare dei secoli, l’antica Dea Madre finì poi per assumere varie identità locali a seconda delle civiltà mediterranee: Gea in Grecia, Cupra in Italia, Astarte in Libano e così via. In Turchia e in Siria, osserva lo storico Karol Kerenyi, “era venerata come Meter oreia, “madre montana”, sotto diversi appellativi formati quasi sempre da nomi di monti che indicavano la sua appartenenza a una regione montuosa, come Berecinzia, Dindimene, Idea. Nel paese dell’Asia Minore dal quale il suo culto si è diffuso ed è tornato spesso anche fra noi, cioè in Frigia, veniva chiamata Matar Kubile. Nella nostra lingua, Cibele”. 

Anche questa nuova versione della Dea Madre – inizialmente venerata nel santuario frigio di Pessinunte, e di qui poi diffusasi in tutto il mondo greco – veniva rigorosamente associata al simbolo cosmico del tamburo. Durante le processioni in onore di Cibele, che incarnava la ciclica potenza distruttrice e rigeneratrice della Natura, il carro della dea era accompagnato da numerosi suonatori di tympanon, un tamburello a cornice che veniva percosso con la mano. 

Nell’Inno omerico alla Grande Madre si afferma infatti che il suono del tympanon era particolarmente gradito alla dea, confermando l’esistenza di un solido legame tra il ruolo cosmico della dea e il simbolo del tamburo. Non a caso, anche a livello iconografico Cibele veniva abitualmente rappresentata mentre sedeva in trono, intenta a reggere solennemente un tamburo sotto il braccio sinistro. 

Dalla Frigia, il culto di Cibele passò poi alla vicina Sardi, capitale del regno di Lidia, e di qui alle numerose colonie greche dell’Asia Minore. Nel quinto secolo avanti Cristo, la dea fece il suo ingresso trionfale nella città di Atene, dove venne costruito in suo onore un Metroon, ossia un santuario della Madre. All’interno venne collocata una splendida statua realizzata da Fidia e dal suo allievo Agoracrito, mentre al Pireo iniziavano a fiorire le testimonianze popolari del nuovo culto. Sulle prime non mancarono le polemiche, dal momento che Cibele veniva avvertita come una divinità straniera, ma alla fine le processioni al ritmo di tamburo divennero un fenomeno comune in tutta la penisola greca. Nel 204 avanti Cristo, al termine della seconda guerra punica, il culto di Cibele giunse anche nell’antica Roma: la decisione fu assunta dalle massime autorità del tempo, nel tentativo di riportare pace in città dopo un periodo di continue agitazioni religiose. La decisione, sancita dai Libri Sibillini e ratificata dal santuario di Apollo a Delfi, fu ampiamente accettata da tutti: anche Catone il censore, politico ultraconservatore dell’epoca, partecipò di buon grado alle cerimonie. Da Roma, nei secoli successivi il culto di Cibele si diffuse in tutto il Mediterraneo, riunificando molte delle regioni che millenni prima avevano venerato la preistorica Dea-Uccello. 

A livello mitico, la storia di Cibele è strettamente connessa a quella del suo amante infedele, Attis: l’uomo, preso dalla follia per la cattiva azione che aveva commesso, si sarebbe evirato con le sue stesse mani per poi morire dal dolore14 e venire misericordiosamente resuscitato dalla dea15. In una versione decisamente più cupa del mito, la scelta di mutilarsi sarebbe invece stata dettata dal tentativo di sottrarsi alle invadenti pretese sessuali della dea, che si era invaghita del ragazzo. In effetti Attis si era sposato con una ninfa di cui era innamorato, ma la dea aveva fatto impazzire tutti gli invitati al matrimonio, causando anche la morte della sposa. 

Ad ogni modo, al termine della sanguinosa contesa amorosa, Attis fu risarcito della propria automutilazione venendo elevato a paraedro di Cibele, ossia al rango di suo servitore divino e controparte maschile. Molto spesso era proprio Attis a suonare il tamburo di Cibele, e a compiere per lei i riti sacri di rigenerazione del cosmo. 

Allo stesso modo, i sacerdoti di queste due divinità – conosciuti con il nome di “Galli” – durante le cerimonie erano soliti evirarsi e poi flagellarsi con bastoni, pigne e fruste appesantite da ossicini, per sperimentare in prima persona il dolore di Attis e diventare degni di servire la dea. Curiosamente, in questo rituale iniziatico compaiono sia la frusta che il tamburo, che saranno attributi di Abraxas. 

Dopo questo brutale rito iniziatico, i Galli conducevano una vita di estrema povertà: per via della loro comunione con Cibele, tuttavia, erano considerati detentori di doni ultraterreni, quali la guarigione e la divinazione. Questi poteri provenivano direttamente dal tamburo, simbolica fonte di nutrimento per l’iniziato: 

“Ho mangiato di ciò che vi è nel tamburo, ho bevuto di ciò che è nel 

cimbalo e sono divenuto parte di Attis”. 

Dopo aver “mangiato di ciò che vi è nel tamburo”, il Gallo otteneva così il permesso di suonare lo strumento, divenendo degno di maneggiarne gli straordinari poteri cosmici durante le processioni in onore di Attis e Cibele, che consentivano di rigenerare la terra e la volta celeste. 

Ancora oggi, nell’Italia meridionale, è il ritmo della tammorra – ossia del tradizionale tamburo a cornice della Campania – ad accompagnare la Juta dei femminielli di Montevergine, una bizzarra processione religiosa dedicata alla Madonna Nera o “Madonna Schiavona”, protettrice degli omosessuali. È particolarmente evidente l’assimilazione tra la dea Cibele e la Vergine Nera, così come tra i pellegrini omosessuali e gli antichi sacerdoti Galli privi del membro maschile. È evidente che il rito rappresenta una chiara sopravvivenza degli antichi rituali cosmici in onore della Dea, accompagnati, anche a distanza di duemila anni, dal suono delle percussioni e dai ritmi della tammurriata. 

Sempre in ambito greco, il tamburo era anche connesso al culto di Dioniso, dio dell’ebbrezza da cui scaturiva la frenetica corrente vitale che pervadeva l’intero universo. Anche in questi rituali, chi maneggiava il tamburo entrava in contatto con i poteri del cosmo: non a caso, l’uso del tympanon era riservato alle Menadi, le “sacerdotesse del serpente” che dedicavano la propria vita al servizio di Dioniso. Percuotendo ossessivamente la pelle dei tamburelli, le Menadi danzavano nella notte fino a raggiungere la manìa, ossia uno stato di possessione rituale che le portava in contatto diretto con la forza vitale dell’universo. 

Eppure, l’indissolubile legame tra il tamburo e le divinità che governano i cicli vitali del cosmo non si limitava soltanto alle culture del Mediterraneo. Anche nell’antica religione della valle dell’Indo, oltre i confini orientali dell’impero persiano, il tamburo era considerato un attributo del dio Šiva, che lo avrebbe usato per dare forma all’intero universo all’inizio dei tempi. Secondo i testi sacri della valle dell’Indo, i Veda, era stato proprio Šiva a governare il processo di continuo cambiamento del cosmo, trasformandosi nel demone Rudra e assumendo così la duplice funzione di creatore e distruttore. 

“Alla sua nascita – spiega lo storico delle religioni Mircea Eliade – il dio Prajāpati investì Rudra del potere sul cosmo: il suo ottuplice regno consisteva nei cinque elementi (terra, acqua, fuoco, aria e spazio) insieme ai misuratori del tempo, sole e luna, e all’officiante, o iniziato. Rudra è la totalità della manifestazione. Egli non creò il cosmo: egli divenne il cosmo, egli è il cosmo. Dio e il mondo sono una cosa sola: come il cosmo è il prodotto delle otto forme di Šiva, così è anche l’essere umano, il micro-cosmo […]. Rudra, il “dio selvaggio”, è una cosa sola con Šiva, il dio propizio e supremo il cui splendore ne avvolge la forma primordiale”. 

Dopo questa fase primordiale, Šiva, “rappresentato come un adolescente lubrico e nudo, errante nella foresta primitiva”, si dedicò alla danza: così facendo, la musica del dio iniziò a emanare e riassorbire il mondo a più riprese, dando il via all’inesorabile ciclo della vita. 

A ben vedere, il vero creatore primordiale è Prajāpati (o Brahama): tuttavia, dopo questa fase mitica in cui tutto ancora rimane immobile, sarà poi lo “Šiva danzante” (Šiva Tāņḍava) a dare realmente forma al mondo che ci circonda e ad animarlo, inaugurando così il ciclico fluire del tempo. Per ordinare il cosmo inferiore, Šiva utilizza proprio il ritmo del tamburo primordiale (ḍamaru), che non a caso viene sempre rappresentato nella sua terza mano. 

“La filosofia dei Veda – spiegano gli studiosi dell’antico induismo – fa riferimento al concetto di “suono dio”, come sorgente di ogni vibrazione nel cosmo, udibile e non udibile”. 

Anche per questo motivo, quando nel quarto secolo avanti Cristo Alessandro Magno giunse nella valle dell’Indo, gli storici greci che erano al suo seguito non esitarono a identificare immediatamente il dio Šiva con il loro Dioniso29: persino a distanza di migliaia di chilometri, il simbolo cosmico del tamburo continuava a rivestire con costanza e precisione la medesima funzione, a conferma di quanto fosse ormai profondamente radicato nella cultura eurasiatica. 

In definitiva, non sorprende che, anche nel secondo secolo dopo Cristo, il misterioso dio cosmico dei vangeli apocrifi, Abraxas, venisse sempre rappresentato nell’atto di suonare questo antichissimo strumento: solo chi sapeva maneggiare il tamburo poteva davvero governare il ciclo magico della natura, del tempo e delle stagioni, che scandisce la vita di quanti si trovano nella metà inferiore dell’universo gnostico. 


Paolo Riberi è laureato in Filologia e letterature dell’antichità e in Economia presso l’Università degli Studi di Torino. Studioso di storia antica e della letteratura delle origini cristiane, è membro della Società Italiana di Storia delle Religioni (SISR), ed è autore di alcuni saggi dedicati al mondo dei vangeli apocrifi e al pensiero degli gnostici, tra cui L’Apocalisse di Adamo (2013), Maria Maddalena e le altre (2015), Pillola rossa o Loggia nera? (2017), L’Apocalisse gnostica della Luce (2019) e Abraxas: la magia del tamburo (2021). Per le nostre edizioni è altresì autore, insieme al prof. Giancarlo Genta, di Oltre l’orizzonte (2019), uno studio sul retaggio storico-filosofico della tecnologia scientifica occidentale.

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