Di astri di carne e luce al bar del Paradiso

Oggi su L’indiscreto pubblichiamo il secondo canto del Paradiso dantesco commentato dal Kollektiv Ulyanov. Questo articolo è parte del Commento Collettivo alla Commedia, progetto curato da Edoardo Rialti. L’idea è quella di rivivere, con l’aiuto di cento autori contemporanei, i cento canti dell’opera.


IN COPERTINA, Paradiso (1909), di Mikalojus Konstantinas Čiurlionis

di Kollektiv Ulyanov


Con il contributo di 


Sovente capitava, al bar del Paradiso, d’assistere a eventi inusuali. Una volta, dicevano, che l’arrotino del Purgatorio, che s’aggirava strepitante nei sentieri battuti dei nugoli divini, che veniva chiamato nel regno dei giusti a molare i coltelli, che non servivano, e gli ombrelli, che non servivano, un giorno l’avevano convocato ad aggiustare un ombrello bulgaro. Solo che lui, in Bulgaria, mai c’era stato, e l’ombrello bulgaro, poi, neanche era di sua competenza. Sta di fatto che, l’arrotino, ligio al dovere e devoto al proprio mestiere, s’era impegnato a riparare l’ombrello, bulgaro. Georgi Markov, bulgaro, che con quell’ombrello già una brutta esperienza l’aveva avuta, era passato per sbaglio di fronte alla bicicletta dell’arrotino, davanti al bar del Paradiso, e s’era quasi preso un coccolone e aveva esclamato: «No! L’ombrello ancora, no!». Markov aveva tentato d’avvertire l’arrotino che, affaccendato nella delicata faccenda di arrotinamento, si era distratto un attimo, aveva infilato il dito nel punto sbagliato del meccanismo dell’ombrello, che aveva lasciato partire una capsula velenosa. L’infame proiettile era andato a colpire per fatalità Oleg Kalugin, in permesso premio in Paradiso, perché lui, lì, non ci poteva sempre stare. Nell’inframezzo doveva stare ancora per molto, a purgare. Il Kalugin, così, era morto. L’arrotino era sbiancato. Di lì, allora, era passato l’Alighieri, ch’aveva mormorato: «Contrappasso». Kalugin, com’è ovvio, non morì. Però, in seguito, quando gli ispettori della gendarmeria del Paradiso avevano scoperto che era stato lo stesso Kalugin a chiamare l’arrotino per riparare l’ombrello bulgaro con l’intenzione di ammazzare di nuovo il Markov, era scattato il daspo: per il Kalugin 777,77 giorni standard distante dal Paradiso. E dall’Alto era tuonato: «Niente veleni nel regno dei giusti».

Un’altra volta, dicevano, che alle porte del bar del Paradiso, s’era presentato uno che diceva di venire dalla città di NN. L’uomo aveva una valigia sgangherata, era di passaggio, diceva. Aveva l’aria di uno che in vita aveva posseduto un centinaio d’anime di contadini. Era uno dalla faccia arcigna, ma non troppo. Magro, ma non troppo. Alto, ma non troppo. Vecchio, ma non troppo. Aveva detto d’essersi smarrito. Losco, però sì, quello era. Sta di fatto che, nel regno dei giusti, perdersi non si poteva. Comunque, l’uomo era sì interessante, anche se non troppo, ma ciò che aveva attirato davvero l’attenzione degli avventori del bar, era la valigia. Grossa, serrata con legacci tirati che parevano sul punto di saltare, da un momento all’altro. Dentro, era piena di fagotti che facevano capolino a lembi dagli orli sbuffanti. In tre, un tempo americani, erano rimasti a guardare la valigia, che aveva quattro ruote, una però era andata persa, quindi erano tre anche le ruote. Uno per ruota, insomma. Il più alto dei tre, un vecchio scrittore dallo sguardo magnetico, aveva detto agli altri: «Oh, che l’avete vista la valigia?». E i due, uno alto e uno basso, anche se uno non era troppo alto o l’altro troppo basso, di altezza media entrambi, insomma, a far la media, avevano risposto, in coro: «Sì, sì, la valigia». E il primo: «Secondo voi, quelle ruote, ci arrivano dove questo deve andare?». Uno, quello più basso degli altri due, aveva detto: «Bah, secondo me, mica c’arriva.» E quello alto: «Bah, secondo me, c’arriva.» E lì, la conversazione era finita. Dopo un po’, s’era scoperto che il viandante trafficava dall’Inferno fagotti di anime bugiarde che andavano clandestinamente in cerca di redenzione e di una vita eterna migliore in Paradiso. L’Altissimo, magnanimo, si era prodigato, tramite il ministro degli esteri dei cieli, a trattare con il Signore degli Inferi per tenere Lassù i bugiardi rifugiati. Il Maligno, desideroso di togliersi un po’ di lavoro dalla groppa, li aveva ceduti volentieri, pur riservando una frecciatina alla somma controparte: «Vedi che per me, quelli lì, te li puoi anche tenere… ma Laggiù, quelli che ti pregano, sono un tantino stitici ad accogliere… Dio di qua, Signore di là, la festa della Madonna… E poi li aiutano a casa loro, loro… Sta’ a vedere che sono sempre io quello a imbarcare gente, ma quelli li aspetto. Oh, se li aspetto». L’Altissimo, perennemente consapevole, aveva tentato con diversi mezzi di persuadere gli uomini a cambiar d’atteggiamento. Questi, però, dopo ogni piaga, intemperia o virulenta, tornavano subito a essere come prima. E il viandante con la valigia continuava il suo lavoro.

Un’altra volta, dicevano, che al bar del Paradiso s’era disputata la più grande partita di scacchi dell’oltrestoria (che è la storia che vien dopo la storia), tra Bobby Fischer e Michail Botvinnik. Il finale, di donna, era durato venti anni standard. L’aveva spuntata Fischer, con un matto. E lì, su quel tavolo, un giorno standard era chino un uomo dal naso aquilino, le dita ad artiglio per muovere un pezzo. La guarnacca scarlatta spiccava sul biancore del tutt’intorno. Sì, perché al bar del Paradiso era tutto scontatamente bianco. I tavoli, bianchi. Il bancone, bianco. Le sedie, bianche. I lampadari per fare luce che non serviva, bianchi. E il barista…

Bianco?

No, era san Zeno, perché era stato vescovo a Verona e di vini ne sapeva. 

Così, a staccare sul candore in quel giorno standard, erano la guarnacca rossa dell’Alighieri e l’inseparabile cappotto marrone scuro dell’avversario, Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij, detto Bogdanov. I due erano all’alba della partita e prima d’entrare nel vivo, il Bogdanov domandò all’Alighieri il motivo dell’invito.

«Compagno Alighieri, kakoe ragione per chiamare me a igrat’ quest’oggi?».

Il Dante, che rimirava la tastiera, rispose sovrappensiero: «Più che il doppiar degli scacchi s’immilla.»

Il Bogdanov, stizzito, ribatté: «Nu, che non načinaem a govorit’ in sta maniera, che sejčas non siamo qua a perder vremja…»

Allora, intervenne un altro uomo, che stava lì a guardare, lo stesso scrittore americano che osservava le ruote della valigia. «Eh no, caro il mio Bogdanov, che non ti credi di cominciare a parlare in questo mezzo russo incomprensibile, che qua, la gente, deve capire. Alighieri, pure tu, datti na moderata.»

Al che, il Bogdanov: «Chorošo, chorošo».

E l’americano, sigaro in bocca, gli lanciò un’occhiata cagnesca.

Allora il Bogdanov si adeguò: «Va bene, va bene. Che poi, Alighieri, è troppo presto per la frase di prima. Quella l’hai scritta nel XXVIII, invece tu m’hai chiamato qui a parlare del II, Paradiso, da

L’americano guardò il russo, con un sorriso. «Dai, questa te la passo.»

D’un tratto, arrivò di corsa un altro americano, folta barba bianca, dolcevita gialla, giacca di velluto marrone e pantaloni verdi. «Lo sapevo, lo sapevo!» E allungò al tizio col sigaro un foglio terreno, un articolo di giornale. L’altro lesse: “Scienziati del politecnico della Virginia stanno per mettere a punto una tuta in grado di riconoscere le molecole…” Si fermò e gettò uno sguardo torvo a quello con la barba bianca. Poi continuò. “… lasciar passare il vapore acqueo… canali ionici…” «Senti, Frank, è inutile che stai sempre a cercare di essere stato più avanti degli altri…» gli disse.

«Senti, Ernest, se non avessi fatto installare il plaz intorno a questo bar, dovreste sempre starvene qui a sbevazzare e giocare sotto le intemperie» ribatté il barbuto.

«Frank, il plaz non esiste, e poi qui non tira neanche il vento» disse Ernest, quello col sigaro.

Frank, indispettito, aggrottò la fronte e se ne andò con passo da Sardaukar.

Il Bogdanov si guardò intorno a cercare la platz, la piazza, in tedesco. «Che ha detto quello?» rivolto a Ernest. Questo rispose: «Ma, niente, è uno intrippato con… le dune. Quando stava lassotto, ha scritto una roba ambientata nel deserto, lande desolate, c’era di mezzo un eletto, il destino dell’umanità. Ronald mi ha detto che non gli è piaciuto, per niente…»

«Va bene, adesso ci lasci discutere in pace, che abbiamo anche una partita da giocare, noi?»

«Bah, comunque, ve l’ho mai raccontata quella del vecchio che pescava da solo su una barchetta nella corrente del Golfo e da ottantaquattro giorni non pigliava un pesce?»

«Mille volte, almeno. Ma puoi andare a raccontarla a qualcun altro» disse il Bogdanov.

«Di certo non mi metto a parlare con gli altri tuoi compatrioti. Fëdor sta ancora in battaglia coi demòni e Nikolaj è in un loop di scrivi-brucia che dura da un secolo e mo’…»

«Oh, accidenti!» esclamò il Bogdanov.

«Ma voi, di cos’è che stavate parlando?» chiese l’uomo col sigaro, che mai si consumava.

«Paradiso, II, roba sua. Dentro c’è tutto un discorso di macchie lunari» rispose il Bogdanov.

«Ah, sì, me lo ricordo. Alighieri, era quello dove iniziavi dicendo ai lettori che se non capivano di teologia potevano raccogliere la loro roba e sciacquarsi dai coglioni? E c’entrava anche il mare, giusto? Ve l’ho mai…» domandò Ernest.

Alighieri lo troncò, subito. «A dire il vero, il mio era solo un ammonimento. Allora percorrevo una rotta nuova, perigliosa a chi non era ben preparato a seguirla. Si rischiava di smarrirsi, insomma. Ma chi avrebbe avuto l’ardire, si sarebbe trovato di fronte a meraviglia granda, come gli Argonauti alla vista di Giasone divenuto bifolco» spiegò l’Alighieri.

«Ah, Giasone, gli Argonauti, i tori dalle unghie di bronzo, i denti di serpente, il vello d’oro, il mare. Ve l’ho mai raccontata quella del vecchio che pescava da solo su una barchetta nella corrente del Golfo e da ottantaquattro giorni non pigliava un pesce?» chiese Ernest.

«Ancora…» affermò il Bogdanov, che ignorò la domanda dell’americano e si picchiettò la testa in direzione dell’Alighieri, a dire “Codesto l’è un po’ tocco. Il cervello gliel’han fritto, con la scossa.” Ernest, poi, s’allontanò, vecchio, pesci e tutto.

O voi che siete in piccioletta barca,

desiderosi d’ascoltar, seguiti

dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, ché forse,

perdendo me, rimarreste smarriti.

Poi, il Bogdanov, tornò a rivolgersi all’Alighieri: «Dunque, mi dicevi che tu e Beatrice ascendevate verso l’Empireo, al I Cielo della Luna, e l’aspetto dell’astro t’ha lasciato stupito.» Trangugiò un po’ di brandy armeno e Dante prese qualche sorso di vino, forte, amarone, scelto da Zeno.

«Sì, e Beatrice m’ha detto di ringraziare Iddio per avermi permesso di salire in quel Cielo, che m’appariva come una nube densa e rilucente, a mo’ di un diamante illuminato dal sole.»

“Drizza la mente in Dio grata”, mi disse,

“che n’ ha congiunti con la prima stella”.

Parev’a me che nube ne coprisse

lucida, spessa, solida e pulita,

quasi adamante che lo sol ferisse.

«E poi veniva il discorso delle macchie solari. Se c’hai qualche dubbio, possiamo chiamare Schiapparelli, ma quello s’intende più di Marte, di canali. Ho letto anch’io qualche suo lavoro quando ho scritto Krasnaja Zvezda

«Nella Comedia, Marte viene poi e non è in questione, ora. Ma aspetta, ora ti spiego.» E Dante, allora, attaccò la solfa.

La luna, nel sistema tolemaico, è il primo dei pianeti. Nella cosmografia cinquecentesca, l’orbita lunare è nel primo cielo, subito contigua alla Terra, prima della seconda sfera mercuriale. Nella Comedia, la luna, poi, determina molte fasi del viaggio. Dante, sovente, ne annota le qualità. La vede fredda, nebulosa, diamantina, rischiarata da luce abbacinante che dà agli uomini l’aspetto di spettri. Allo stesso modo d’altri astri, nella concezione dantesca, risplendenti e compatti. Ma è la superficie irregolare, sono quei segni misteriosi, le macchie, ad attirare le riflessioni del sommo, fino all’ultima sfera. Una questione, quella delle macchie, che porta Dante a interrogarsi. E il sommo, com’è abitudine sua, intesse e districa arazzi. Le macchie, difatti, sono parte di un intreccio sconfinato, fili di metafisica delle influenze celesti e un riesame della causalità divina del cosmo permeano il Canto II del Paradiso. Dante soppesa sapienza, l’indagine prima dei fenomeni, e scienza, empiricità, la valenza dei sensi, l’induzione della percezione. Il sommo confutare non vuole l’importanza dell’esperienza, intende meglio stabilire il limite della comprensione razionale, punta a mettere in guardia dall’erroneità che può esser causata dall’insufficienza data dalla sensazione. Ricorrere anche alla teologia non è male, insomma.  La questione è non cadere nell’inghippo del volgo che pensa di scorgere Caino nella luna, con in spalla un fascio di spina, solo per frutto della superstizione.

Io rispuosi: “Madonna, sì devoto

com’esser posso più, ringrazio lui

lo qual dal mortal mondo m’ ha remoto.

Ma ditemi: che son li segni bui

di questo corpo, che là giuso in terra

fan di Cain favoleggiare altrui?”.    

E Dante, che vede la diversità tra parti chiare e oscure degli astri causate dalla rarità e densità dei corpi, richiamando la dottrina averroistica, trova sempre in Beatrice la guida, il lume. Le stelle hanno quindi diversa virtù. Fosse la densità a causare le macchie, la luna sarebbe una massa di strati paragonabili agli strati di grasso e magro nella carne. In tal caso, nelle eclissi, la luce del sole trasparirebbe. In secondo luogo, per confutare l’ipotetica difformità del raro nello spessore dell’astro, basta prendere tre specchi, porli a dissimile distanza da una sorgente luminosa e notare che la luce riflessa è la medesima, stessa qualità ma minore intensità, non quantità. L’esperienza dimostra. La teoria del raro e del denso, dunque, non c’azzecca (sic!). 

Tre specchi prenderai; e i due rimovi

da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,

tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso

ti stea un lume che i tre specchi accenda

e torni a te da tutti ripercosso. 

Fugati gli abbagli, Beatrice dà la soluzione. La virtù, l’influsso celeste, la luminosità dei corpi, il moto, dipende dalle intelligenze angeliche, che fanno differire gli astri, allo stesso modo in cui l’arte del martello è guidata dalla mente del fabbro. E come l’anima umana è una, si diffonde nei diversi organi atti all’esercizio delle loro funzioni, così l’intelligenza delle stelle manifesta le proprie virtù dispiegandosi negli astri, dando origine a virtù diverse, pur una rimanendo.

Virtù diversa fa diversa lega

col prezïoso corpo ch’ella avviva,

nel qual, sì come vita in voi, si lega.

Il Bogdanov, affascinato dalla spiegazione dell’Alighieri, gettò un attimo gli occhi intorno nel bar del Paradiso. E, spaurito e rassegnato, nel biancore colse con lo sguardo due figuri avvicinarsi, uno col sigaro in bocca, che mai si consumava, e l’altro, con la barba bianca e un foglio in mano. Di colpo, mormorò al Dante: «Zitto, zitto, guarda la scacchiera. Eccoli che tornano. C’è pure quello appassionato di piazze tedesche…»

Ernest si avvicinò al tavolo degli scacchi e disse: «Ve l’ho mai raccontata quella del vecchio che pescava da solo su una barchetta nella corrente del Golfo e…»

L’Alighieri lo interruppe con un sorriso e proseguì: «da ottantaquattro giorni non pigliava un pesce?». 


Il canto, integrale

Canto secondo, ove tratta come Beatrice e l’auttore pervegnono al cielo de la Luna, aprendo la veritade de l’ombra ch’appare in essa; e qui comincia questa terza parte de la Commedia quanto al proprio dire.

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.

Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,

metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.

La concreata e perpetüa sete
del deïforme regno cen portava
veloci quasi come ’l ciel vedete.

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,

giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,

volta ver’ me, sì lieta come bella,
“Drizza la mente in Dio grata”, mi disse,
“che n’ ha congiunti con la prima stella”.

Parev’a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.

Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.

S’io era corpo, e qui non si concepe
com’una dimensione altra patio,
ch’esser convien se corpo in corpo repe,

accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s’unio.

Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sé noto
a guisa del ver primo che l’uom crede.

Io rispuosi: “Madonna, sì devoto
com’esser posso più, ringrazio lui
lo qual dal mortal mondo m’ ha remoto.

Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?”.

Ella sorrise alquanto, e poi “S’elli erra
l’oppinïon”, mi disse, “d’i mortali
dove chiave di senso non diserra,

certo non ti dovrien punger li strali
d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
vedi che la ragione ha corte l’ali.

Ma dimmi quel che tu da te ne pensi”.
E io: “Ciò che n’appar qua sù diverso
credo che fanno i corpi rari e densi”.

Ed ella: “Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l’argomentar ch’io li farò avverso.

La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.

Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto.

Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.

Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno

esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ’l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.

Se ’l primo fosse, fora manifesto
ne l’eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto.

Questo non è: però è da vedere
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
falsificato fia lo tuo parere.

S’elli è che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi;

e indi l’altrui raggio si rifonde
così come color torna per vetro
lo qual di retro a sé piombo nasconde.

Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.

Da questa instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arti.

Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.

Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch’igualmente risplenda.

Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,

così rimaso te ne l’intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.

Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l’esser di tutto suo contento giace.

Lo ciel seguente, c’ ha tante vedute,
quell’esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute.

Li altri giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.

Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.

Riguarda bene omai sì com’io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.

Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri;

e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l’image e fassene suggello.

E come l’alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,

così l’intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.

Virtù diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch’ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.

Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.

Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,

conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro”.


A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.


Kollektiv Ulyanov è un collettivo di scribacchini e trasportatori di opere da una lingua all’altra (in gergo, traduttori). Parte della Wu Ming Foundation, collabora in solitario e collettivo, con Mondadori, HarperCollins Italia, Odoya, AbEditore e altri. È ideatore, traduttore e curatore della collana di fantascienza sovietica Solaris di Agenzia Alcatraz.

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