È ormai una pratica famosa in tutto il mondo. E sono molte migliaia le persone che la praticano: ma cosa significa, davvero, praticarla? E che effetti potrebbe avere sulla nostra collettività?
IN COPERTINA e lungo il testo opere di ernst steiner
Da dieci anni vado e vengo dalla meditazione. Mi allontano dalla meditazione e torno alla meditazione come durante una singola sessione mi distraggo e ritorno al respiro, alle sensazioni del corpo, ai rumori. Questo andare per tornare è a sua volta una forma di meditazione, quindi se guardo le cose da abbastanza lontano non ho mai smesso di meditare.
Qualche mese fa ero a cena dalle parti di King’s Cross con un collega. Stavamo festeggiando la sua decisione di tornare alla pratica del buddhismo tibetano, una tradizione a cui si era dedicato a lungo in gioventù. Questo collega, che chiamerò N., si è dottorato in un’accademia di belle arti polacca con una tesi su Jung.
Ero in vena di provocarlo, quindi gli ho ricordato ciò che diceva Jung riguardo allo yoga e al buddhismo Zen: in sostanza, che per l’uomo occidentale è bello e stimolante studiarli ma un errore praticarli.
«Jung aveva torto solo su una cosa», ha risposto N., «questa». Ma aveva davvero torto?
Mi sono accostato alle meditazione molti anni fa, a dire il vero: avevo ventidue anni e stavo cercando una soluzione all’ansia che mi tormentava dal primo anno di università. La mia ragazza mi aveva consigliato un libro di Thich Nhat Hanh, Il miracolo della presenza mentale. Leggendolo avevo capito che potevo rallentare i pensieri che correvano all’impazzata nel mio cervello concentrandomi su piccole cose: l’atto di lavare i piatti, ad esempio, o la sensazione prodotta dalla stoffa del cuscino durante le notti insonni. Aiutava, quindi avevo continuato a farlo.
A ventidue anni usavo rudimenti di mindfulness al posto degli ansiolitici che mi rifiutavo di farmi prescrivere. Nel 2007, almeno in Italia, non molti parlavano di meditazione fuori dagli ambienti esoterici, e all’epoca non frequentavo ambienti esoterici. Non avevo idea del fatto che la meditazione potesse essere qualcosa di più che una forma di automedicazione.
-->Eppure quell’incontro dettato dalla necessità aveva gettato un seme. Lessi altri libri di Thich Nhat Hanh e Jung sulle filosofie orientali, gli stessi testi che quindici anni più tardi avrei rinfacciato al mio amico. C’erano già allora momenti in cui un semplice pensiero (da dove viene la pesca che stai mangiando? non osservare solo le cose ma anche gli spazi tra le cose) mi provocava un senso di liberazione così completo e radicale da farmi girare la testa. Per un istante era come se un peso enorme mi fosse caduto dalle spalle.
Nonostante questo non avrei cominciato a meditare ancora per altri sei anni, e anche in questo caso si sarebbe trattato di un accidente.
Ero arrivato a Londra da pochi mesi e avevo appena iniziato a lavorare all’università dell’East End in cui lavoro ancora oggi. Era una bella estate e avevo preso l’abitudine di giocare a tennis con un collega uruguaiano vicino alla stazione di Bethnal Green, a una decina di minuti a piedi dal lavoro. Tornando da una di queste partite, una sera mi ero imbattuto nel portone rosso del London Buddhist Centre.
Fino a quel momento avevo avuto una sola esperienza con la pratica buddhista, ed era stata tragicomica. Quando ancora abitavo a Torino, un vicino di casa seguace della setta Soka Gakkai aveva invitato me e la mia ragazza a un incontro a casa sua, e noi più per gentilezza che altro avevamo accettato: poco dopo eravamo circondati da venti persone che urlavano il mantra nam-myoho-renge-kyo chiedendo (a chi? al Buddha? all’Universo?) le cose più disparate, da una cura per un infante malato di meningite a un aumento di stipendio. Come se non bastasse, qualche mese più tardi quello stesso vicino che mostrava una pace preternaturale di fronte ai fastidi della vita era nel cortile del palazzo a urlare una serie irripetibile di insulti misogini alla compagna, che aveva scoperto in flagrante con il bidello della scuola media in cui insegnava. La mia ragazza e io avremmo riso a lungo di questa piccola storia di spiritualità andata a male.
Spinsi il portone rosso e mi ritrovai in un cortile interno con delle piante e una fontana. Si respirava un’aria di grande calma. Sfogliai qualche libro nella piccola libreria e uscii, ma andandomene presi un volantino in cui si pubblicizzava una delle attività più popolari del Centro: le sessioni di mindfulness gratuite che si tenevano due volte alla settimana all’ora di pranzo.
***
Questo succedeva nel 2013. Nell’arco di dieci anni la mia pratica si è approfondita, ma non sono mai diventato un meditatore esperto: non ho mai fatto ritiri più lunghi di mezza giornata, ad esempio, e non sono mai andato in India. La sessione di meditazione più estesa che ho mai fatto è durata un’ora e mantenere le gambe incrociate per tutto quel tempo mi è parsa una tortura. Nel corso degli anni ho partecipato però a diversi gruppi di meditazione e ho letto molti libri sul tema. Soprattutto, ho meditato: per anni ho quotidianamente, spesso più volte al giorno. Poi c’è stata una lunga pausa. Poi ho ricominciato a meditare.
Non sono a un passo dall’illuminazione, insomma. Eppure se c’è una cosa che mi sento di dire con certezza è questa: che niente ha cambiato la mia vita in maniera così profonda e duratura come la meditazione buddhista. O meglio, quasi niente: anche la psicoterapia l’ha fatto, e in maniera forse più basilare, perché se la psicoterapia non mi avesse fatto capire che c’era qualcosa di sbagliato che doveva essere guardato nel pozzo nero del mio inconscio forse non avrei mai iniziato il viaggio che mi ha portato, tra le altre cose, alla meditazione. Ma la psicoterapia ha un limite, che è il limite delle parole. Nel suo essere intuitiva e corporale, la meditazione sembra avere meno restrizioni. Per fare solo un esempio, non ha quel limite insormontabile oltre il quale non esiste nessuna psicoterapia: l’Io.
Man mano che approfondivo la pratica e la conoscenza del pensiero buddhista, l’Occidente scopriva la mindfulness. O sarebbe meglio dire che le grandi masse di persone scoprivano la mindfulness, che era già arrivata dagli anni Sessanta con i beat e poi gli hippies e dagli anni Ottanta era entrata a far parte del grande calderone della New Age. Ma è solo negli ultimi dieci o quindici anni che la “presenza mentale” è davvero dilagata: nelle aziende e negli ospedali, nelle app e nei video di YouTube, tanto che nel 2019 Ronald Purser poteva parlarne come di una vera e propria commodity offerta dal capitalismo per mantenere il controllo sociale, un punto che merita attenzione.
Oggi la mindfulness è ovunque. Ma di cosa parliamo davvero quando parliamo di mindfulness? Esiste sul serio una mindfulness “all’occidentale”, slegata dal suo contesto storico buddhista? O aveva ragione Jung e le pratiche orientali andrebbero studiate ma non praticate?
***
Quando a ventidue anni mi concentravo sulla tazzina di caffè o sulla sensazione dell’acqua calda mentre facevo la doccia, senza saperlo stavo praticando un approccio molto popolare tra i neofiti: la mindfulness-based stress reduction inventata da Jon Kabat-Zinn, un medico e biologo che negli anni Settanta ha studiato il buddhismo Zen con, tra gli altri, proprio Thich Nhat Hanh. Quando si parla di “mindfulness” in ambito medico quasi sempre ci si riferisce alla MBSR o ai suoi derivati.
Non c’è nulla che non vada in questo approccio (in fondo mi aiutava a controllare l’ansia, che era quello di cui avevo bisogno), ma già all’epoca l’uso della meditazione per abbassare i livelli di stress mi sembrava riduttivo, e credo che non avrei continuato a praticare se non ci fossero stati quei momenti quasi mistici di pace profonda. La MBSR era la porta oltre la quale si intravedeva un mondo.
Questo genere di approccio è anche facilmente passibile della critica che gli muove Purser: lo stesso sistema capitalista che ci rende perennemente insoddisfatti, ansiosi e depressi, fornisce una “cura” ai nostri problemi che assomiglia molto a un sedativo. La mindfulness insomma può aiutarci a sopportare una vita fondamentalmente sbagliata, e in questo può trasformarsi in uno dei tanti metodi di controllo sociale con cui il capitalismo conserva e perpetua sé stesso.
Nel corso degli anni ho letto alcuni libri di Kabat-Zinn e li ho trovati banali. Poi ho assistito a una sua lezione e l’ho trovata profonda. La stessa cosa mi è successa con un’altra divulgatrice del buddhismo in Occidente, Pema Chödrön: libri privi di grandi stimoli, lezioni illuminanti. Ecco una delle contraddizioni della meditazione: non puoi capirla senza farne esperienza, e le parole scritte contano poco. Ma d’altra parte era stato un libro a portarmi in contatto con la mindfulness la prima volta, e sarebbe stato un libro a farmi fare il passo successivo.
Avevo preso una versione inglese de L’insegnamento del Buddha di Walpola Rahula al London Buddhist Centre dopo una delle sessioni di mindfulness. Il libro è un ottimo riassunto del buddhismo della tradizione Theravada, quello più vicino agli insegnamenti di Siddhartha. Leggendolo è stato come se un fiore di loto mi si fosse spalancato nel centro del cranio: nelle parole del Buddha c’era una visione della vita così chiara e così – almeno dal mio punto di vista – palesamente vera che era impossibile non rimanerne affascinati. Nell’arco di un mese ero convertito.
Dovrei dire a questo punto che in quegli anni non me la stavo passando troppo bene, il mio umore era precario a voler essere ottimisti e spesso sprofondava in vere e proprie sacche depressive. Dunque una filosofia il cui fondamento era che “tutta la vita è dukkha” (“insoddisfazione” sarà la migliore traduzione dal Pali, ma personalmente continuo a preferire “dolore”) faceva vibrare qualche corda in me. Man mano che leggevo il Sutra del loto e il Sermone del fuoco, che approfondivo il buddhismo Mahayana e Vajrayāna, e che andavo a meditare in una scuola semiabbandonata nel gruppo di un ex marine convertitosi al buddhismo, tracciavo dentro di me una connessione profonda tra la pratica e l’inesorabile dolore karmico dell’esistenza, un dolore da cui era possibile sottrarsi grazie all’illuminazione o, più realisticamente, alle decine di micro-illuminazioni a cui conduce ogni giorno la pratica meditativa, quando seguita con costanza e serietà.
Quelli sono stati, finora, gli anni più proficui della mia vita di meditatore. Praticare quotidianamente mi ha portato benefici nella vita di tutti i giorni, ma ha anche preparato la mia mente a veri e propri momenti di “visione” che hanno riconfigurato i miei percorsi neurali in maniera duratura. Eppure quell’approccio è stata anche la ragione per cui, alla fine del 2019, dopo sei anni di pratica più o meno costante, mi sono allontanato dalla meditazione.
***
Negli anni in cui frequentavo il London Buddhist Centre, la mia pratica era influenzata dalle regole dell’istituzione religiosa in cui l’avevo imparata: prestavo molta attenzione alla postura («la postura è una forma di meditazione», diceva spesso uno degli insegnanti, una massima che riecheggia con quella di Joseph Goldstein: «siediti e sappi di essere seduto»), meditavo di solito su un cuscino o su uno sgabello nello stile seiza giapponese e mi sforzavo di rilassare i muscoli perché la calma del corpo si riflettesse nella pace interiore. Cercavo anche di mantenere salda l’attenzione sul respiro e di sostenerla il più a lungo possibile. Al Centro si meditava in una bella sala con i pavimenti in legno sotto una statua del Buddha dorata alta tre metri, e dopo veniva offerto tè verde. A volte c’erano molte persone: l’immobilità condivisa di tanti sconosciuti insieme è una sensazione incredibilmente potente, avrei scoperto.
Come dicevo, il percorso di approfondimento della pratica dalla più comune mindfulness of breathing a forme più elaborate di insight meditation (o vipassanā) si era sposato bene con l’attitudine pessimistica che avevo in quegli anni verso la vita. Un interesse particolare rivestiva per me il tema dell’anattā, il “non-sé” al cuore del pensiero buddhista. Il lettore capirà dove voglio andare a parare: meditando volevo togliere di mezzo me stesso, volevo raggiungere il vuoto al centro di tutte le cose. Nei rari casi in cui ho avuto un assaggio di questo grande vuoto, la visione è stata meravigliosa, la pace totale. E, naturalmente, non aveva nulla di pessimistico o triste.
Negli anni ho cambiato approccio alla meditazione, ma devo dire che ancora oggi medito meglio quando il mio umore tende al cupo: forse perché c’è una forma di lucidità nella tristezza, o forse semplicemente perché quando si è tristi la mente è meno propensa a saltare a destra e sinistra come una scimmia eccitata. Eppure è stata proprio la presenza dentro di me di quella scimmia eccitata, una scimmia che per molti anni non avevo voluto ascoltare, a farmi abbandonare per qualche anno il buddhismo.
***
Cosa sia successo non posso spiegarlo in poche parole, e non sarebbe comunque rilevante agli scopi di questo saggio. Diciamo che per una serie di ragioni che all’epoca comprendevo molto poco, e che ancora oggi ho compreso solo in parte, qualcosa è venuto a spazzar via la depressione che mi ero portato dietro per tanti anni, spesso senza saperlo. E quel qualcosa era un desiderio, una nicciana volontà di vivere.
Sopra ho detto che mi sono accostato alla meditazione per curare l’ansia e che questa “cura” è stata spesso criticata come una forma di sedazione offerta dalla società per rendere tollerabile ciò che è intollerabile. Ho anche detto che la mia pratica è iniziata in un contesto religioso, e anche se non mi sono mai considerato veramente buddhista, tutti sanno che il fine ultimo del buddhismo è l’estinzione del desiderio (“nirvana” significa questo, “estinzione”). Questo concetto è molto più complesso di quel che sembra a prima vista, ma non c’è dubbio che la pratica buddhista sia un modo per prendere le distanze dai desideri, non viverli in maniera reattiva e raggiungere quella “metacognizione” che ci permette di osservare i nostri contenuti mentali come oggetti che passano in un campo aperto, senza aggrapparci a ciò che ci piace né respingere ciò che non ci piace.
Il discorso sarà complesso ma rimane una verità di fondo: certamente nel mio caso specifico, ma si potrebbe forse sostenere anche nel caso della nostra società più in generale (guardate ad esempio Joker di Todd Phillips), il desiderio non era il problema: il desiderio era la cura. Come conciliare questa intuizione con una pratica che mi aveva dato molto ma che richiedeva di separarmi da quello stesso desiderio che mi faceva sentire vivo? Senza che me ne accorgessi, proprio come quando ero uno studente universitario la meditazione mi era servita anche a tenere a bada i pensieri negativi. Mi aveva fatto sentire liberato, ma allo stesso tempo mi aveva allontanato sempre di più da una parte viva di me stesso. Come nel caso della MBSR, mi aveva portato a tollerare l’intollerabile.
È chiaro che il problema qui non era la pratica: era il praticante. Eppure se avessi scelto di spiegare il vicolo cieco in cui mi trovavo solo con le mie scarse abilità di meditatore, o con la mia incomprensione del messaggio buddhista, avrei fatto un errore: magari avevo letto il testo in modo parziale, o prevenuto, ma non l’avevo inventato. E comunque la possibilità di cadere in errore era parte integrante del percorso: in un mondo fai-da-te come il nostro, in cui strumenti così potenti si imparano durante corsi aziendali e tramite video di YouTube e non in anni di meditazione silenziosa in un monastero, il rischio di perdersi in qualche interpretazione distorta del Dharma è concreto. Finire come il mio vicino della Soka Gakkai è più facile di quanto sembri.
Questo ci riporta alla nostra domanda iniziale: è possibile praticare la meditazione in Occidente? Non si rischia, come pensava Jung, sempre di fraintenderla? O meglio, la traduzione culturale non è sempre una forma di fraintendimento? D’altra parte il buddhismo è arrivato in Occidente attraverso Schopenhauer, che l’ha capito a modo suo. E se tutti noi praticanti, chi più chi meno, stessimo perpetuando questo errore di base?
Ho letto e sentito interventi di pensatori orientali, da Ryunosuke Koike a Tsoknyi Rinpoche e persino a Osho, dire cose incredibilmente illuminanti e poi perdersi in concetti che un occidentale dà per scontati, come quella volta che Tsoknyi Rinpoche ha raccontato di aver superato la sua paura dell’altezza grazie all’intuizione strepitosa che il ponte su cui doveva camminare non sarebbe davvero caduto, e che era l’ansia a fargli credere che sarebbe caduto. Quindi perché non dovrebbe essere lo stesso per noi, tanto più che, come scrive Alan Watts ne La via dello Zen, il buddhismo non può essere né insegnato né comunicato ma solo esperito?
La meditazione è come un filo sul quale si cammina sempre incerti: non sai mai dove conduce, solo che è sempre possibile cadere. Spesso quando cadi non sai nemmeno di essere caduto. Non può essere tradotta in Occidente, ma un occidentale non può comprenderla nella forma in cui viene praticata in Oriente. Viene sempre fraintesa, ma anche fraintendendola è possibile trarne dei benefici. Scivoli da una parte e soffochi il desiderio invece che sublimarlo. Scivoli dall’altra e diventa una forma di ortoressia. Scivoli dall’altra ancora ed è uno psicofarmaco gratuito che non sapevi di aver ingoiato. E la cosa peggiore è che nessuno, nemmeno i meditatori più esperti, può mai sapere davvero se sta facendo la cosa giusta, perché non c’è nessun metodo oggettivo, nessun maestro imparziale, nessun contatore geiger del tuo stato di presenza mentale: c’è solo la mente con i suoi inganni e una tradizione millenaria, elaborata e rielaborata, che getta luci incostanti nel buio.
***
Sono tornato alla meditazione un paio di anni fa grazie a un’app. Anche questa volta è stato un caso: un amico aveva ricevuto cinque abbonamenti gratuiti a Waking Up di Sam Harris, un filosofo e neuroscienziato americano che da qualche anno si occupa di meditazione e problemi collegati. Mi ha inviato un codice.
L’approccio alla mindfulness di Harris è molto diverso dalla meditazione che si praticava al London Buddhist Centre. Harris è ossessionato dall’idea di farti vedere, con le buone o con le cattive, che non c’è nessun io al centro della percezione. Pensa che non serva silenzio per meditare e mentre cerchi di concentrarti parla ininterrottamente delle sue teorie molto intellettuali e molto occidentali nel tentativo di dissipare l’illusione della personalità. Non è molto gentile e sicuramente le sue meditazioni guidate non ti aiutano a calmare l’ansia. Dopo qualche settimana mi sono stufato del suo ego che vuole convincerti a lasciar da parte l’ego, ma ne ho tratto ugualmente insegnamenti utili. Uno di questi è che se mediti per rilassarti, quantomeno nel senso più tradizionale del termine, stia praticando qualcosa di utile e magari piacevole, ma non la mindfulness.
Ecco un altro caso: proprio in quel periodo stavo rileggendo Nelle tempeste d’acciaio di Ernst Junger, che avevo deciso di riprendere in mano dopo averlo letto (e, ricordavo vagamente, amato) al liceo. Sarà stata coincidenza o junghiana sincronicità, ma l’idea di meditazione proposta da Harris era molto più vicina alla lucidità preternaturale che permea il libro di Junger, in cui l’estasi della battaglia espande i sensi rendendo ogni cosa vivida e rilucente, che alla calma serafica e alla penombra perenne delle sale del London Buddhist Centre.
Questa idea di mindfulness non ha nulla a che vedere con la riduzione dello stress né con il torpore del corpo indotto dal mantenere una stessa postura per ore, né ha lo scopo di portarti in uno stato meditativo o di coscienza alterata. Anzi, la sua difficoltà consiste proprio nell’essere brutalmente quotidiana, nell’illuminare con la luce della consapevolezza qualsiasi cosa ci sia qui e ora, che di solito non è la visione del grande vuoto al centro di tutte le cose e nemmeno un romantico desiderio di autoannichilimento ma un pensiero pornografico o un prurito alla guancia. Per questa forma attiva di mindfulness, meditare significa essere un soldato che monitora senza sosta i confini del regno della mente: il praticante è più vicino a un guerriero che a un monaco.
Naturalmente quando parlo di diversi tipi di mindfulness non sto parlando davvero di cose diverse. Il Buddha aveva previsto quanto facile fosse cadere da una parte o dall’altra del sottile filo della presenza mentale, soprattutto quando si pratica un’attività a occhi chiusi e nel buio della propria scatola cranica nella quale l’unico giudice è la stessa mente ingannevole che si vorrebbe imparare a controllare. Per questo si sforza spesso di spiegare che la mente non deve essere troppo agitata ma nemmeno troppo intorpidita, e fornisce diverse strategie per svegliarla quando si assopisce così come per calmarla quando i pensieri girano all’impazzata.
Rispetto a un tempo la mia pratica è cambiata: medito più spesso sulla sedia che sullo sgabello, ad esempio, e mescolo con più agilità forme di consapevolezza aperta e meditazione focalizzata. Mi capita più di prima di meditare a occhi aperti, e più spesso durante la giornata. Medito meglio? Sono andato più a fondo nel mio percorso di meditatore? O sono caduto in una nuova trappola? Non lo so.
Ciò che so è che ora vedo meglio di prima i tanti paradossi della pratica buddhista. Eccone un altro tra i tanti: la pratica formale, quella che si fa a casa, a occhi chiusi, serve fino a un certo punto se non si dissemina la giornata di micro-momenti di presenza mentale, eppure i micro-momenti di presenza mentale diventano spesso esercizi sterili se non sono supportati da una pratica formale più o meno quotidiana. E un altro: ci sono giorni in cui la mia mente è molto lucida, molto presente, e il mio grado di compassione ed equanimità vicino allo zero.
Sono lucido e attento, ma se avessi una mazza da baseball fracasserei volentieri il cofano dalla macchina che mi ha tagliato la strada. Altri giorni sono equanime, ma la mia mente è molle, avvolta nella nebbia. A volte non vedo l’ora di sedermi in meditazione, poi odio ogni secondo del tempo passato a praticare. A volte se supero l’odio qualcosa dentro di me si apre e mi rilasso. A volte mi rilasso troppo, e un campanello d’allarme suona dentro di me. A volte la meditazione è un rifugio, a volte uno strumento, a volte una fuga. A volte mi sembra necessaria per vivere, altre volte mi sembra una perdita di tempo. Cado continuamente dal filo ma ci risalgo sempre.
***
Dopo aver parlato di buddhismo tibetano, N. ed io siamo passati ad altri argomenti: l’arte, amici in comune, Londra, il riscaldamento globale. La cena turca era finita, finito anche il tè. Era una bella serata di agosto, ancora estiva: non mi era sfuggito il fatto che fossero passati esattamente dieci anni dal momento in cui avevo varcato la porta rossa del London Buddhist Centre per la prima volta.
Ci siamo salutati, sono andato alla stazione di King’s Cross e sono salito sulla metropolitana. Il vagone era pieno per essere le dieci di sera di un giorno infrasettimanale, ma ho trovato un posto a sedere. Senza pensarci, automaticamente, ho focalizzato l’attenzione sul respiro e ho lasciato che lo sguardo si concentrasse sulle cose, sugli spazi tra le cose, sulla percezione delle cose e degli spazi tra le cose. Qualcosa mi disturbava sottilmente.
Sono dovute passare due fermate prima che mi accorgessi di cos’era, poi l’ho visto: tutte le persone del mio vagone, senza una sola eccezione, stavano guardando uno schermo. Due o tre leggevano un e-book reader, mentre tutti gli altri scorrevano lo schermo dei loro smartphone. Alcuni ridevano o sorridevano in maniera vacua. Mi sono sentito come in quella scena all’inizio di Lei di Spike Jonze, quando Joaquin Phoenix si accorge che tutti intorno a lui ridono o piangono guardando i loro dispositivi mobili, ognuno chiuso nel suo mondo privato.
Allora mi è venuto in mente Ronald Purser e un altro paradosso della meditazione, l’ennesimo: la mindfulness può essere un sedativo economico con cui il capitalismo ci fa tollerare una realtà intollerabile, ma potrebbe essere anche l’opposto. Perché chissà cosa potrebbero fare tutte quelle persone, tutte quelle menti e tutti quei cervelli, se la loro attenzione non fosse costantemente rapita da reel e dating apps, da ricette biologiche e gattini, da partite di Candy Crush Saga e messaggi di gruppo su WhatsApp. Chissà quanto spazio ci sarebbe nelle nostre scatole craniche se potessimo disintossicarci di tutta l’immondizia di cui ci riempie la mente questo mondo intollerabile che siamo costretti a tollerare. Se potessimo vedere lo spazio vuoto tra i nostri pensieri e sentirci finalmente liberi.
Mi era già capitato di pensarlo dieci anni prima al London Buddhist Centre: l’immobilità di tante persone insieme è l’onda più forte che si possa immaginare.
Insomma alla fine il ponte non è caduto.
Questo scritto mi ha confortata, medito da anni e comprendo tutte le sfaccettature delle sue impressioni. Dovrebbe essere insegnata nelle scuole, perché di fatt diventa un mezzo concreto per restare presenti e a non farsi risucchiare gli smartphone! E dal potere cocculto che ci vuole omologati e schiavi. Non per niente ci sono i corsi di Risveglio, che inizierò a frequentare tra pochi giorni. Il bello di questa epoca è che abbiamo a disposizione insegnamenti una volta riservati a pochi eletti che dovevano attraversare continenti per apprendere esercizi esoterici! Oggi siamo una modesta ma forte élite do ricercatori guerrieri e la nostra missione è contrastare il sonno dilagante.
Avessi letto fino alla fine, avresti capito che parlava di te
Nella nostra tradizione cristiana dei padri del deserto c”e tutto anche la mediazione molti spunti si possono trovare sul sito della Comunità Mondiale di meditazione cristiana (padre Laurence Freeman) negli insegnamenti di padre Gentili e del filosofo Marco Guzzi con i gruppi Darsi Pace insomma non occorre essere buddista perché la meditazione è presente in tutte le tradizioni spirituali.
“Frequento” la meditazione con atteggiamento troppo naive e troppo incostante da troppo tempo. Ma per qualche motivo non l’abbandono mai del tutto, come se una parte di me intuisse che ha acquistato importanza nella mia vita. Il suo articolo mi ha rinfrancato ed incoraggiato a continuare in questa strada che ogni volta pone dei dubbi su dove veramente porti. Grazie
Ho iniziato a leggere interessato ma mi sono presto annoiato.
Se ciò che hai scritto è parzialmente sincero e non solo una ragnatela capisco che stavi meglio quando non meditavi!
Non posso che sentirmi affine a quanto espresso, come terapeuta junghiana interessata alle pratiche meditative. Grazie.
Ma tutto questo non si avvicina al “Nuovo Mondo” di Eckhart Tolle ?
wow
Interessante. Ho apprezzato la sua sincerità disincantata e lontano dal miracolismo