Il commento di oggi, per mano di Dario Valentini, è al canto ventisettesimo del Purgatorio. Questo articolo è parte del nostro progetto “CCC”, il Commento Collettivo alla Commedia, in cui tutti e cento i canti dell’opera dantesca vengono ripresi da altrettante firme contemporanee.
IN COPERTINA un’opera di William Blake
di Dario Valentini
Con il contributo di
Ramiel canta: un diluvio di poligoni rovesciati direttamente nel cranio. Spilli di pura luce gli feriscono gli occhi dall’interno. Porta un braccio davanti al viso, come per proteggersi. Dietro alle palpebre serrate, ruote sfolgoranti si incastrano e parlano. A Graad è l’alba, per le strade di Mitringhal la gente si spoglia tanto il sole è alto e su Loran si spiega l’immensa apertura alare della notte. Dove sono loro invece il cielo è rosso, qualcosa sta bruciando là fuori.
Quand’era bambino ha visto per la prima volta i condannati ardere alla porta orientale. A casa, tra le fortezze alte e merlate, il babbo lo ha tenuto fermo, perché potesse guardare la sua stessa faccia nelle fiamme. Rigata di cristallo. Da ragazzo, ha sentito la scintilla che salva e imprigiona. Sarebbe potuta andare diversamente? O la verità era già lì, stesa come un fine strato di petrolio, su ogni centimetro della sua vita? Sulle mura argentate, sulle cupole e sulle navate. Sul fiume che scorre piano come midollo. Su Orbin e Tiago e Soccòrro, sul vino cattivo bevuto dalla bottiglia mentre ci si dà spallate lungo Via Delle Serpi o sui gradini bianchi e verdi, così bianchi e verdi? Era solo in attesa di essere accesa? «Facci sentire il canto di un cuore che brucia», lo prendeva in giro Gemino. «Penseresti che il fuoco crepiti», rispondeva lui con un sorrisetto, «ma non è vero, quello è il materiale che brucia, le fiamme non hanno suono». Allora l’amico lo abbracciava stretto, e non gli domandava più niente.
Da quando era partito poi, aveva visto così tanti corpi accesi, appesi agli alberi carbonizzati o distesi, a rotolarsi inutilmente nel fango. E l’aveva investito una pietà così grande, che se solo avesse potuto, avrebbe invocato con le sue lacrime un pianeta di polvere d’acqua per estinguere quell’inferno. Oppure gli era montata una rabbia tale da schiumare e strapparsi i capelli. Altre volte, invece avrebbe voluto sputare loro addosso, e si era trattenuto solo per non sfigurare agli occhi del suo maestro. Duca dalla malinconia sobria e inflessibile che gli ripeteva «Sii paziente, e un giorno le tue parole saranno una pira, alta ben oltre la prima sfera, ed inutili e urlanti vi bruceranno dentro gli amori di tutti i secoli, dei secoli». Poi gli dava un colpetto sulle reni «E stai su con la schiena!» La notte fissava il cielo e trascorreva le ore a tracciare invisibili segni nel buio, a studiare l’architettura del vento, a comporre e scomporre i versi. La mattina dopo guardava incarognito l’orizzonte succhiando il caffè. Sii paziente. E così sia, pensa, ma ora tocca a lui attraversare il muro di fuoco, e non ha mai visto una cosa del genere. È come un drappo di vetro bollente. Una cascata che scorre al contrario. Trasparente, eppure tinta di tutte le sfumature del vermiglio. Al solo avvicinare la mano l’aria pare tanto pesante da riuscire a comprimere in giorni eventi che sarebbero avvenuti in anni, e sibila come l’ultimo dei grandi serpenti: il Senzascaglie. L’angoscia lo riempie fino a fargli fischiare le orecchie. Quale forza tremenda serve per non affogare nella tempesta di tutte le storie? Quante libbre della propria carne bisogna sacrificare per vivere in eterno? Deglutisce forte e fa un passo indietro. Respira. In verità lo sa già.
Sirio è silenzioso, il capo già cinto dalla corona d’oro verde. Al fianco stringe una lama sottile che diventa invisibile se bagnata d’acqua salata. Nel ’35 sulla spiaggia di Velia l’ha servito bene: durante un duello ha tagliato la gola di un Seolita e questo, con l’ultimo fiato, mentre il suo assassino lo appoggiava sulla sabbia morbida con la strana delicatezza di chi ha vinto, gli aveva sussurrato all’orecchio che il suo nome era bello, ma fragile, e si sarebbe ripiegato e sciolto presto, come paccottiglia nel focolare. Al momento non aveva capito bene cosa intendesse.
Velter dalla tunica azzurra gli sorride. Il primo cacciatore ha i tratti gentili della Gens Mágia, eppure alla luce emanata da quel rogo, gli pare tremendamente stanco, invecchiato d’improvviso in maniera irreparabile. Vorrebbe dire qualcosa, evocare con le parole del suo affetto un arcipelago dove dividere un’arancia con i piedi nell’acqua e all’imbrunire stendersi sull’erba a inventare nomi buffi per le costellazioni, ma l’amico lo precede «Se ti ho guidato incolume persino sul dorso di Eritea, sinuoso come quello di un felino e spinoso come un sauro, credi che lascerò che ti succeda qualcosa proprio ora che siamo così vicini?» Così vicini. Insieme, hanno attraversato il lago ghiacciato e la città dei Naga, ormai quasi del tutto vuota. Affrontato a fil di lama Garuda, padre della stirpe degli uccelli e convinto le Empuse a farli passare senza offrire le loro unghie come sacrificio al duomo della luna morta, dove non cresce niente. Insieme si sono riparati all’ombra del Borometz, e hanno parlato fino al mattino per due giorni consecutivi mangiando i suoi frutti, agnelli vegetali dalla carne profumata di zucchero. Insieme si sono addentrati nella grotta del Grendel e fatto a gara di barzellette per vedere il primo che si pisciava addosso. Insieme hanno sognato il Simurg, che trattiene gli uomini nella vanità del sonno per una vita intera, e sono riusciti a svegliarsi. Insieme ne sono sempre usciti. E allora perché allora ha la sensazione che stavolta non sarà così? Il suo compagno si torce le mani e sospira. «È ora» dice, e si addentra in quella cortina oscura e radiante, che pare una perforazione nel mondo, una via per il nulla. La figura dell’amico si polverizza e per un secondo ogni memoria di lui pare scomparire, come se non fosse mai esistito. Quando è dall’altra parte grida «Su con la schiena! Mi sembra già di vederli, quegli occhi di perla e di piombo!» È l’inno di un futuro che ricomprende tutti i destini! È l’unico modo che ha per salvarsi dall’infezione portata dall’alba! Solo quel pensiero lo fa avanzare, d’altronde il sangue puro è sempre stato il più vile. E con Sirio alle spalle si getta tra le braccia del vetro rovente. Come Gorla dalle labbra di diaspro, tra le braccia della sua Rheasilvia, prima di venire sbranate dalle custodi del Granbosco. La placenta di fuoco bianco lo inghiotte, il vuoto gli fa girare la testa e gli rivolta lo stomaco, è falsovero come il sì dei poeti, ma non lo consuma.
Oltre il velo si ritrova da solo, nudo. Nel silenzio immacolato del suo fluido spinale. L’aria è pallida, acromatica, più densa rispetto a fuori, come il vapore dell’incenso ma senza profumo. Ha i brividi, e allo stesso tempo gli sembra di scottare. Avanza con fatica nel fumo amniotico, che non è buio, ma così carico di luce da sembrare buio. La sua pelle è porcellana, temprata dall’intermittenza della febbre. Gli sembra di udire una voce mentre una brezza gli accarezza i capelli: «li ho piantati uno per uno, come piccoli semi» dice. «Hai idea di quanta fatica ci sia voluta? Quante notti sono stata sveglia, per sognarti così forte, in ogni minimo dettaglio?» Un attimo dopo si ritrova in una camera di acciaio lucido. Luci fredde escono direttamente dal soffitto. Sembra la cella di una prigione. Un ragazzo con i capelli radi e una veste bianca guarda attraverso una parete, come se vedesse una finestra che lui non vede. Un altro sta seduto sul letto, ha come un filo di vetro collegato al braccio, dall’altro capo c’è una specie di asta con in cima una bottiglia da cui scende un liquido biancastro. Sta leggendo un libro con la copertina di pelle. Non conosce i caratteri, eppure li legge. Si intitola “La Perfezione Ferroviaria”. Nel deserto incontra una donna con il viso ustionato, sotto la pelle che le cola tra le mani si intravede una maschera d’oro. Lei ride, e sta ridendo di lui. Con lo sguardo lo pugnala tre volte. E dalle ferite sente l’inno di un futuro che forse non arriverà mai. È a casa, ha la schiena curva sulle sue carte, in una torsione così violenta che quasi la spezza, a cercare nel vuoto le parole giuste, i gomiti stretti come per proteggersi da un pugno, l’inchiostro non è suo amico. Per ogni ora che trascorre laggiù, un’ora gli è negata, e un’ora segreta nasce. A volte gli sembra che i fantasmi siano più veri delle persone là fuori, e quando soffia la vita dentro ai suoi golem e questi si alzano e camminano e parlano gli sono più cari di qualsiasi essere umano. Altre volte può essere così solitario. Velter è quello che gli manca di più. E le lunghe passeggiate insieme, dove gli ulivi avvizziscono. «Il migliore amico del mio signore deve somigliargli molto», dice una delle creature. «Molto», risponde, «domani ti parlerò ancora di lui». «Qual è il peso di Dio?» Chiede un’altra voce. La tristezza più antica gli stritola la tiroide e lo tira a fondo, ma le vertebre di un gigante lo proteggono. «È ancora così bianco e verde?» Chiede lui in tutta risposta. «Così bianco e così verde?»
-->Dall’altra parte, Maazel canta. Sirio è perduto alle fiamme ma la sua ombra si è staccata dal corpo e danza. Come impazzita di felicità o dolore. Velter gli copre le spalle con un mantello rosso e lo abbraccia. «La canzone degli angeli è bugiarda» dice storcendo la bocca «non è vero che il momento più buio è prima dell’alba».
«Ma è comunque un organo dello spirito del mondo!» urla lui, la vista oscurata dalle lacrime. C’è un buon odore come di ferite fresche.
«È l’inno di un futuro impossibile. Quel dolce frutto della felicità che per tante strade gli uomini cercano affannosamente, è costruito al contrario!» poi a voce più bassa «Questa è la prima pagina del secondo capitolo, per te. Io sono all’ultimo dei penultimi».
«Non andare» e gli si aggrappa alla veste come fanno i bambini.
«Morirei pur di tornare indietro» sussurra e gli accarezza i capelli.
«Al velo? al passato?» La voce gli si spezza in gola.
Ma il maestro scuote la testa «A qualsiasi cosa uno possa tornare», gli sorride «e stai su con la schiena». Non parlerà più. Si tasta la veste come per cercare qualcosa che non abbia portato. Con la cenere gli traccia piano sotto gli occhi dei glifi familiari e sconosciuti: dopo la vita, la morte, e dopo la morte la nuova vita. Dopo il piombo la perla, e dopo la perla di nuovo il piombo.
Il canto, integrale
Canto XXVII, dove tratta d’una visione che apparve a Dante in sogno, e come pervennero a la sommità del monte ed entraro nel Paradiso Terrestre chiamato paradiso delitiarum.
Sì come quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l’alta Libra,
e l’onde in Gange da nona rïarse,
sì stava il sole; onde ’l giorno sen giva,
come l’angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor de la fiamma stava in su la riva,
e cantava ’Beati mundo corde!’
in voce assai più che la nostra viva.
Poscia “Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde”,
ci disse come noi li fummo presso;
per ch’io divenni tal, quando lo ’ntesi,
qual è colui che ne la fossa è messo.
In su le man commesse mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: “Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.
Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?
Credi per certo che se dentro a l’alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d’un capel calvo.
E se tu forse credi ch’io t’inganni,
fatti ver’ lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.
Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!”.
E io pur fermo e contra coscïenza.
Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: “Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro”.
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che ’l gelso diventò vermiglio;
così, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.
Ond’ei crollò la fronte e disse: “Come!
volenci star di qua?”; indi sorrise
come al fanciul si fa ch’è vinto al pome.
Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.
Sì com’ fui dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant’era ivi lo ’ncendio sanza metro.
Lo dolce padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: “Li occhi suoi già veder parmi”.
Guidavaci una voce che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava.
’Venite, benedicti Patris mei’,
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei.
“Lo sol sen va”, soggiunse, “e vien la sera;
non v’arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l’occidente non si annera”.
Dritta salia la via per entro ’l sasso
verso tal parte ch’io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch’era già basso.
E di pochi scaglion levammo i saggi,
che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che ’n tutte le sue parti immense
fosse orizzonte fatto d’uno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi d’un grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e ’l diletto.
Quali si stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve,
guardate dal pastor, che ’n su la verga
poggiato s’è e lor di posa serve;
e quale il mandrïan che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d’alta grotta.
Poco parer potea lì del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori.
Sì ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.
Ne l’ora, credo, che de l’orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga
com’io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga”.
E già per li splendori antelucani,
che tanto a’ pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani,
le tenebre fuggian da tutti lati,
e ’l sonno mio con esse; ond’io leva’ mi,
veggendo i gran maestri già levati.
“Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami”.
Virgilio inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su ’l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: “Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno
Tratto t’ ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio”.
Il prossimo canto verrà commentato da Stefania Berutti.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
Dario Valentini (1993) ha pubblicato racconti per L’Indiscreto, Minima&Moralia, Sugarpulp e Nazione Indiana presso cui è co-curatore del ciclo L’Anno del Fuoco Segreto.
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