La monogamia ha un ruolo centrale nella storia occidentale, ed è intorno a questa che si sono sviluppati concetti portanti come amore, relazioni, famiglia. Molti dei meccanismi che pensiamo legati all’amore però sono forme imposte, non determinate liberamente e tuttavia intimamente radicate nella società e in ciascun individuo.
IN COPERTINA e lungo il testo, Bruno Cassinari, Flora (1967) – Olio su tela – Asta Pananti in corso
Questo testo è tratto da Per una rivoluzione degli affetti, di Brigitte Vasallo. Ringraziamo effequ per la gentile concessione.
di Brigitte Vasallo
Traduzione di Andrea Gatti e Cristina Velázquez Delgado
Ogni estate un dubbio esistenziale assale riviste, giornali e televisioni. La monogamia potrebbe essere innaturale! Titolava, letteralmente, la rivista «Quo» nel luglio del 2011. Il dibattito se l’esclusività sessuale sia naturale o se, al contrario, l’essere umano non sia promiscuo per natura, è irrilevante e insostenibile, anche se costituisce la base di un’infinità di letteratura scientifica, tesi di dottorato, programmi di divulgazione e carriere mediatiche come quella dell’antropologa Helen Fisher, specialista in materia. Questi lavori, tuttavia, contribuiscono solo a legittimare la domanda originaria, con le loro scansioni cerebrali e con l’eterocentrismo binario che resta inquadrato nel pensiero monogamo, e lo serve.
Sarà naturale, dunque, questa monogamia? O non saremmo innaturali noi, che siamo tutte in armonia con l’universo a bordo nelle nostre auto, sonnecchiando nelle nostre case di mattoni e cemento, lavorando nelle nostre fabbriche e bombardando le vicine coi nostri missili? C’è chi ha studiato quanto sia naturale il capitalismo o quali ormoni governino le attività di compravendita e le bolle immobiliari? Sono naturali Helen Fisher e i suoi ragionamenti, o le ricerche accademiche? L’argomento della naturalità o della sua mancanza, se non è portato avanti all’interno di un’analisi che vada oltre la semplice retorica dell’essenzialismo, è solo un modo efficace per occultare le strutture sociali e di potere, lasciandoci intrappolate nell’enigma se milioni di anni fa l’essere umano fosse stato una tal cosa o il suo contrario, come se quel dato e nient’altro possa risolvere la faccenda o tirarci fuori da questo guaio. Il dibattito sull’ipotetica naturalità delle forme sociali viene sempre a consolidare lo stato delle cose: è sempre un argomento reazionario ed egemonico. L’utilità della ricerca in antropologia, biologia e archeologia sta proprio nel visualizzare le costruzioni, capire come sono articolate e come si sono trasformate nel tempo. La trappola che utilizza solitamente l’argomentazione della naturalità disattivante è quella di non chiarire mai in che momento e luogo si trovi questa pre-condizione a cui dobbiamo attenerci e che dovrebbe risolvere le discussioni. Naturale significa che la maggior parte degli animali fa così? La maggior parte dei mammiferi? La maggior parte delle società umane? Dove collochiamo il naturale, e perché?
La biologa Lynn Margulis, autrice di meravigliosi libri divulgativi a portata di qualsiasi lettrice senza conoscenze tecniche, ci offre la visione di una vita sul pianeta totalmente estranea alle questioni umane sul sesso e il genere. Infinità di insetti che cambiano sesso (sesso!) a seconda delle esigenze della comunità e trasformano i loro corpi da femmine a maschi e viceversa; maschi incinti, femmine che si autofecondano, e tutta l’immensa varietà di esseri inclassificabili secondo i nostri standard che non sono né maschi, né femmine, né niente… oppure tutto quanto insieme.
Più che sulla naturalità potrebbe essere interessante interrogarci sulla sua consistenza, la consistenza dell’esclusività sessuale. L’hackeraggio, avvenuto nell’estate del 2015, del sito di incontri per persone sposate Ashley Madison (“La vita è breve: vivi un’avventura”) ha rivelato la presenza di circa trenta milioni di utenti che stavano potenzialmente online in attesa di un appuntamento extraconiugale. Su social network per incontri come OkCupid c’è un filtro per rilevare uomini sposati che cercano sesso senza che le mogli lo scoprano: “senza guai”, affermano. Questa frase in un profilo o in una chat è un segno inconfondibile di corna alla partner ufficiale. Quando gestiamo le immagini del mondo eterosessuale non possiamo ignorare l’immensa differenza nelle costruzioni di genere che queste operano sugli uomini e le donne (vale la pena ricordare che nel mondo eterosessuale ci sono solamente uomini e donne). Per continuare con l’esempio di Ashley Madison, l’hackeraggio ha portato alla luce il rapporto di trentuno milioni di utenti maschi contro cinque milioni di utenti femmine e, tra costoro, una gran numero di profili falsi e un gran numero di profili creati ma mai utilizzati. Su Adult Friend Finder offrono dei bonus come l’accesso premium a profili femminili attivi e ‘certificati’ da parte di utenti che hanno incontrato la persona nel mondo reale. Tutto ciò accade perché le donne eterosessuali non utilizzano molto questi servizi o sono state più lente a incorporarli. Non solo perché la polizia della monogamia agisce in maniera specifica su di loro, ma perché i siti stessi sono perfettamente androcentrici e pubblicizzati attraverso foto di donne seminude che si offrono a un uomo solo, nel miglior stile Bond, James Bond. A tutto ciò si aggiunge il fatto che le persone che non si adattano o non vogliono adattarsi al binomio uomo/donna hanno a malapena spazio su questi siti web.
Possiamo anche rivedere i nostri curricula amorosi e quelli del nostro ambiente in questo senso: come stanno andando i nostri tassi di esclusività sessuale? Con tutto il suo apparato propagandistico, la monogamia non è riuscita a consolidare l’esclusività sessuale come pratica, ma è riuscita a consolidarne l’immagine e l’armamentario: il triangolo sesso-amore-fedeltà e l’idea che il sesso fuori dal nucleo legittimo (la coppia) è un’anomalia, il desiderio puramente carnale delle donne verso altre donne, il desiderio del corpo, il desiderio di scopare senza coinvolgimento è visto come una forma di oggettivazione e non può includere alcun tipo di cura se non viene romanticizzato, e che tanto il fare sesso con persone diverse quanto il farlo senza l’escalation dell’amore romantico è una colpa riprovevole.
-->L’esclusività ti fa felice
La monogamia è un sistema di pensiero che organizza le relazioni in gruppi identitari, gerarchici e avversi, attraverso strutture binarie con poli reciprocamente escludenti.
L’esclusività sessuale è la condizione necessaria per un sistema come quello monogamo. Non è la causa del sistema: è la sua conseguenza e la sua condizione. Il suo sintomo. In altre parole, non è l’esclusività sessuale a far sì che la monogamia sia tale, ma per essere proprio quel sistema che organizza le relazioni in nuclei identitari, gerarchici e avversi, la monogamia ha bisogno dell’esclusività sessuale. Perché in mancanza di essa non funzionano né l’identità né la gerarchia né, in definitiva, il confronto. E ne ha bisogno perché, da un lato, è l’unico modo per garantire la filiazione, la pater-maternità, e, dall’altro, per porsi come marchio di gerarchizzazione.
L’esclusività sessuale, con tutto ciò che comporta, è una costruzione sociale. È un mandato e una forma disciplinare che agisce in maniera particolarmente feroce sui corpi di quelle che sono state tradizionalmente chiamate donne. Donne con una vagina, ossia corpi ingravidabili. Quelli che hanno il potere della filiazione. Le donne trans, come vedremo più avanti, fanno parte dei margini del sistema, con tutta la violenza intrinseca tanto del sistema quanto dei suoi margini.
Attraverso tutte le derive storiche che vedremo nei prossimi capitoli, e di tante altre come la costruzione (tardiva) dell’amore romantico, si genera la biopolitica degli affetti, la polizia della monogamia, che non sta fuori bensì dentro di noi.
Per garantire qualcosa di tanto strano come l’esclusività sessuale è necessario generare una specie di terrore costante e una sorta di dramma continuo. Una scopata di una notte è la fine del mondo. E non minimizzo l’impatto emotivo di un’avventura fuori dal patto di esclusività sessuale, anzi: cerco di capire cosa ci è successo, a livello biopolitico, affinché ci sia una tale conseguenza. Con quella scopata si rompe un patto, senza dubbio. E i patti sono importanti nelle relazioni perché forniscono un marchio di sicurezza, definiscono i confini della relazione, e i confini, i limiti, per quanto negativizzati negli ambienti libertari e liberali, sono ciò che dà forma a qualsiasi questione, ciò che la definisce: che si tratti di femminismo, veganismo o scrittura. I confini sono circostanziali, non essenziali, e in quanto circostanziali sono fluidi. Ma questa fluidità, nel caso di una relazione, dovrebbe essere concordata all’interno della relazione stessa. Non fuori, né unilateralmente, né dopo. Quindi, una notte di sesso fuori dal patto di esclusività rompe un patto, ma rompe anche l’esclusività di quella relazione? Nel film 3 (Drei) di Tom Tykwer, Simon, dopo essere andato con Adam nello spogliatoio della piscina, gli chiarisce che fino ad allora non era stato gay. Al che Adam risponde, sarcasticamente: «Uh-huh… e adesso lo sei?». Sei gay o lesbica se vai a letto una volta, per un po’, con qualcuno? Sei una fumatrice se fumi una sigaretta in una notte di festa?
Andare a letto con qualcuno occasionalmente, anche all’interno del patto monogamo, potrebbe essere un dispetto da raccontare senza troppi problemi al tuo partner la mattina dopo. O da raccontare con qualche problema, ma senza troppi drammi. Qualcosa del tipo: ti avevo promesso che non avrei bevuto, ma alla fine ho preso un whisky. Eppure, non è così.

Positivizzazione dell’esclusività: esclusività e gerarchia
‘Esclusivo’ designa ciò che riguarda un certo gruppo e lascia fuori le altre persone. Agisce, pertanto, su due livelli: il primo marca la specificità di chi detiene l’esclusiva; il secondo genera un’eccezione. Si riferisce, quindi, a una specificità e a un’alterità. A un ‘io/ noi’ contro un ‘loro’.
La positivizzazione dell’esclusività si può ascrivere solo a una forma di pensiero gerarchico, dove la massima aspirazione sia quella di appartenere all’élite, ai vertici. Per riuscirci, per arrampicarci sui cadaveri delle nostre vicine, abbiamo bisogno di segni di superiorità, simboli che generino una barriera, un confine. Questi segni sono le icone dell’esclusività. La positivizzazione dell’esclusività è ampiamente lavorata attraverso i meccanismi del consumo e della pubblicità. Prodotti esclusivi, vacanze esclusive, locali esclusivi, posti esclusivi. Inclusa una terminologia esclusiva per i saggi accademici. Il segno di differenziazione non smette di essere paradossale in un contesto culturale con serie difficoltà ad accettare la differenza. Però, la differenza conferita dall’esclusivo si riferisce all’essere migliori, non all’essere diversi. Un palazzo in un quartiere ricco può essere esclusivo tanto quanto la gonorrea, ma l’esclusività si riferisce a ciò che è irraggiungibile per gli altri, all’essere in luoghi dove gli altri non potrebbero stare nemmeno se lo volessero. Pertanto, sono esclusive le cose più costose (più sono costose, più sono esclusive), più scarse (e, nella logica del mercato, sono più costose se sono più scarse). L’esclusività si riferisce all’io sì e tu no. Anche all’io sì perché tu no. Sono qui perché tu non ci sei: il mio posto ti esclude a prescindere. Pertanto, può essere ascritto solo alla normatività: all’essere o all’avere tutto ciò che tutti vogliono essere o avere, ma che non possono. In nessun caso all’essere o all’avere ciò che nessuno vuole. Ha che fare con l’invidia.
Quando qualcosa è a portata di chiunque, perde il suo valore. Nella gestione di eventi culturali si consiglia di mettere un prezzo d’ingresso, poiché la gratuità svaluta l’evento. Quest’idea è tanto radicata in noi che nella pratica funziona anche in ambienti alternativi, dove lo scambio economico è ampiamente criticato. Non poter accedere stimola il desiderio di accedere e la sensazione di presenziare a qualcosa di importante. Il fascino del proibito, dicono. Dell’irraggiungibile.
I marchi commerciali svolgono la stessa funzione nell’alimentare il desiderio attraverso l’immaginario dell’esclusività. Nelle statistiche sui prodotti pubblicate dalla Organización de Consumidores y Usuarios (OCU), la federazione nazionale dei consumatori in Spagna, si evince che non necessariamente le cose più costose sono quelle di maggior qualità. Nel 2014, ad esempio, fu pubblicato uno studio sulle creme antirughe secondo cui la più efficace costava 3 euro. Eppure si continuano a vendere creme ancora più costose, nonostante siano un prodotto del quale non facciamo un’ostentazione diretta (non portiamo l’etichetta appesa alle sopracciglia). Quando scegliamo un telefono o l’altro, ci basiamo solo sulla qualità? E una macchina? E un maglione? Quella piccola mela che si accende sul nostro cellulare è un segnale per noi, che sappiamo perfettamente che tipo di cellulare abbiamo, o un segnale affinché gli altri sappiano quale potere deteniamo, in quale gradino della gerarchia ci troviamo? Siamo noi a definire la mela o è la mela a definire noi? Marchi d’abbigliamento come Mango hanno una linea specifica per le donne grasse (taglie comode è l’eufemismo scelto). Sotto l’etichetta Violeta si commercializzavano capi per donne che non si adattavano alle solite taglie Mango. La distinzione non è banale: indica chi è Mango, e chi non lo è né può esserlo, anche se continua a essere un segmento di mercato da spremere… ma senza confondere le classi né mescolarle tutte.
L’ideologia dell’esclusività si estende a tutti gli aspetti della vita contemporanea. Il documento d’identità segnala chi appartiene allo Stato-nazione e chi no. Chi ha privilegi e chi non può né deve accedervi. Le frontiere sono segni d’esclusività. Il nostro paese. Il nostro spazio Schengen. Anche quando è necessario nazionalizzare le persone ‘aliene’ che non appartengono al noi, i test d’ingresso richiesti servono a rafforzare l’idea di entrare in qualcosa di esclusivo, al gruppo delle elette. Per ottenere la cittadinanza spagnola, ad esempio, le domande fanno riferimento a nozioni come la professione di Enrique Iglesias (le opzioni di risposta sono cantante, chitarrista o attore) o “come si chiamano le norme straordinarie dettate dal Governo in circostanze speciali e che hanno valore di legge”, elementi a cui poche persone con nazionalità spagnola potrebbero rispondere automaticamente.
È davvero importante conoscere la professione di Enrique Iglesias per essere una buona spagnola?
È necessario essere una buona spagnola per avere diritto a essere spagnola o catalana o europea?
Ovviamente no. Ma tutte queste barriere segnalano il marchio d’appartenenza, d’esclusività. Di esclusione. Quando nel 2012 il Brasile decise di applicare la logica della reciprocità all’ottenimento dei visti per entrare nel suo territorio, l’Europa rimase scioccata. Cosa significava aver bisogno di un invito autenticato per poter essere ospitate a casa di amiche? E cosa significava dover dimostrare di avere i soldi per mantenersi? Secondo la sua logica gerarchica, l’Europa è nella posizione di esigere queste condizioni ai suoi visitatori, ma il resto del mondo no. Con quel gesto il Brasile è diventato ancora più interessante: è diventato esclusivo, perché non più a portata di tutto il mondo. Di chiunque.
La positivizzazione dell’esclusività, quindi, alimenta tre costanti nel nostro immaginario: la prima, il concetto di supremazia – avere o essere qualcosa che il resto del mondo vorrebbe essere o avere; la seconda, la positivizzazione del potere che questa posizione ci conferisce, che deriva poi dalla positivizzazione del potere stesso (un’idea che associamo alla forza dispotica ma non necessariamente, ad esempio, alla cura o alla responsabilità che pure il potere dovrebbe includere); e la terza, conseguenza di tutto ciò, la competitività.
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