Il disagio della classe disagiata


La Teoria della classe disagiata ha un problema: nata per denunciare il classismo dei declassati rischia di alimentare il disagio dei disagiati.


di Jacopo Nacci

Appena ho conseguito la laurea in filosofia, mi sono messo a cercare un lavoro. Un lavoro qualsiasi. Del resto, allora come oggi, la vulgata lavorista recitava che se eri disposto a fare qualsiasi cosa, un posto di lavoro lo trovavi. Ciò che è cambiato, oggi, è che sappiamo che difficilmente troverai un lavoro che c’entri qualcosa con ciò che hai studiato: in epoca pre-crisi questa consapevolezza non era così diffusa. E però ancora oggi si ritiene che chi sia disposto, come dicono, a sporcarsi le mani non avrà problemi a portare a casa il pane.

Ebbene, per me, nell’istante in cui mi ritrovai allo sportello del job di Bologna, iniziò un dolorosissimo processo di presa di coscienza. Iniziò con lo sguardo stupito, poi divertito, poi compassionevole dell’operatrice del job che in tutta chiarezza si domandava cosa credessi di trovare lì, continuò con l’esecuzione dell’inutile rituale della spedizione dei curriculum, della consultazione compulsiva delle offerte di lavoro, della processione per le botteghe, i negozi, le pizzerie, con le chiamate ai conoscenti figli di padroncini, e così via. Fino a che non mi sono reso conto che potevo solo agguantare un master, fare una ssis – che nel frattempo era sparita – e sperare di lavorare nella cosiddetta cultura. Da allora a oggi, i lavori normali che sono riuscito a trovare si contano sulla punta delle dita, sono durati un amen e, tranne i sette mesi che ho passato nella macelleria di un call center outbound, sono stati tutti ottenuti mediante un qualche tipo di aggancio, di conoscenza, di raccomandazione. Nel frattempo ho dovuto perseguire un progetto straniante: il freelance del nulla. Ho fatto lezioni di italiano per stranieri, contenuti per piattaforme web, ho aperto e chiuso partita iva, roba che – lo dico francamente – non avevo nessuna voglia di fare, che non riveste per me alcun valore simbolico e che non mi ha minimamente permesso non solo di fare progetti per dopodomani, troppa grazia, ma nemmeno di sopravvivere giorno per giorno senza il sistematico ricorso ad aiuti esterni. Ma era o quello o niente. L’unica esperienza lavorativa soddisfacente della mia vita l’ho avuta quando ho avuto la fortuna – cioè l’aggancio – di trovare un posto stagionale da lavapiatti: un sogno.


Per i padroni dai quali mi recavo a mendicare qualsiasi cosa, io ero un laureato, per di più in una materia umanistica, e questo mi inseriva automaticamente nella categoria dei fancazzisti, o, nei migliori dei casi, di quelli che cercano un parcheggio in attesa di meglio.


Nel mio lungo periodo di disoccupazione – che ormai non chiamo più così perché è semplicemente la mia vita, è fatta così, non è una crisi, una fase, un momento di sfiga – ho avuto modo di farmi un’immagine chiara dei rapporti di non-lavoro. Per i padroni dai quali mi recavo a mendicare qualsiasi cosa, io ero un laureato, per di più in una materia umanistica, e questo mi inseriva automaticamente nella categoria dei fancazzisti, o, nei migliori dei casi, di quelli che cercano un parcheggio in attesa di meglio. Spesso li ho sentiti reagire con malcelata stizza a un presunto complesso di superiorità che avevano già deciso io dovessi covare. A volte mi hanno riso in faccia, e non è stato piacevole; del resto ero un laureato senza il posto già pronto, un laureato senza agganci e senza consapevolezza di averne dovuti avere – e questo era il vero segno della mia classe di provenienza – un abominio sociale, dissimile da se stesso, appartenente a una classe generata dalla propria disfunzione cognitiva. Ho cambiato città diverse volte inseguendo allucinazioni e con il tempo sono diventato un laureato disoccupato, quindi uno che se nessuno l’aveva assunto c’erano sicuramente dei motivi. Più tardi ancora sono diventato un laureato disoccupato e vecchio, uno scarico del cesso. Ah, quel giochino in voga qualche anno fa, di non nominare gli studi nei curriculum o ai colloqui, l’ho fatto: vi assicuro che lo scenario peggiora quando al posto degli studi compare un buco temporale nel quale, ufficialmente, ve ne siete rimasti in panciolle.


Non ti do un lavoro se non hai un lavoro perché se non hai un lavoro evidentemente non meriti di averne uno.


Ho così imparato a mie spese che la psicologia lavorista italiana è spesso affetta da una logica circolare: non ti do un lavoro se non hai un lavoro perché se non hai un lavoro evidentemente non meriti di averne uno; ogni padroncino inserisce attivamente il suo tassello nella costruzione del suo stesso giudizio, proiettando e inverando la profezia della tua vita. Fino a che semplicemente non rientri nel caso del tizio senza esperienza perché nessuno te l’ha fatta fare. Né si contano i conoscenti ipoteticamente in grado di inserirti da qualche parte che, non si sa se per levarsi d’impiccio o perché ci credevano davvero, ti rispondevano che tanto uno come te, che aveva studiato, qualcos’altro trovava.

Questa è stata – e spesso è tuttora, a distanza di vent’anni dal primo lavoretto che ho fatto – la mia vita choosy, ed è la lunga, noiosa premessa a quanto dirò in seguito. Non pretende di essere una regola, ma esiste. Del resto, il libro di cui ci occupiamo, Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, non disegna confini di classe precisi, non individua gruppi sociali, non riporta fatti, ma fa della legittima – credo – fenomenologia, forse autofenomenologia. Lo faccio anche io, e penso sia bene aver detto prima di tutto da dove sto parlando.

 

Il libro

Ho letto Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura con molto interesse, per vedere come avrebbe sistematizzato il lavoro fatto negli anni ma anche perché il tema mi sfiora in un modo bizzarro: il libro parla e non parla di me. Non parla di me perché è evidente che non appartengo a una classe disagiata nei termini dei desideri e dei fini che Ventura le attribuisce; e nel contempo sembra parlare di me perché la mia esperienza e le esperienze simili sembrano venir assimilate, attraverso un silenzioso e pressoché automatico processo alle intenzioni, all’esperienza della fantomatica classe disagiata.


Mi pare di aver capito, da frasi estratte da diversi contesti, che Ventura parli di quella parte della classe media che vorrebbe essere classe creativa. Ma anche così si porrebbe il problema di distinguere tra la piccola borghesia che ha fatto studi umanistici e si è trovata suo malgrado a doversi mantenere in linea con le sue competenze, e quella che ha intrapreso carriere creative provenendo da percorsi scolastici tecnici e professionali; che sono, mi pare, due situazioni completamente diverse.


Ho detto fantomatica. Perché non è tanto il fatto – o almeno, è anche quello, nel senso che non aiuta – che è difficile perimetrare bene questa classe disagiata, che oscilla dall’abbracciare tutta la piccola borghesia e la media borghesia declassata al limitarsi alla ristretta compagnia di trentacinquenni tatuati con la barba e gli occhiali tartarugati che bevono l’americano ai concerti indie sostenendo che ormai (purtroppo) è diventata commerciale – quanto il fatto che io non credo di aver mai conosciuto membri della classe disagiata, almeno stando alla sua descrizione psicologica, se non un paio di esemplari che considero senza ombra di dubbio gravi casi psichiatrici. C’è da dire che non sono un millennial: sforo di tre anni rispetto al range scelto da Ventura, e magari questo fa di me una persona psicologicamente estranea alla classe disagiata. Ma onestamente non conosco disagiati nemmeno tra i millennial. Gli unici di cui apprendo l’esistenza sono gli sconosciuti che si dichiarano disagiati nei commenti a Eschaton – la pagina di Ventura – gesto che ascrivo alla moda discutibile dell’estetizzazione delle patologie psichiche.

Mi pare di aver capito, da frasi estratte da diversi contesti, che Ventura parli di quella parte della classe media che vorrebbe essere classe creativa. Ma anche così si porrebbe il problema di distinguere tra la piccola borghesia che ha fatto studi umanistici e si è trovata suo malgrado a doversi mantenere in linea con le sue competenze, e quella che ha intrapreso carriere creative provenendo da percorsi scolastici tecnici e professionali; che sono, mi pare, due situazioni completamente diverse.

Come se ciò non bastasse, si pone tutta un’altra serie di domande interne a un’eventuale classe di riferimento. È gente adulta che vive con i genitori? E se sì, è gente adulta che vive con i genitori per scelta o per necessità? Oppure gente adulta che non vive con i genitori ma che fatica, forse perché ha rinunciato a mansioni meno prestigiose ma meglio retribuite? O magari si tratta di gente che non ha trovato mansioni meno prestigiose ma meglio retribuite per via del suo retroterra scolastico? Sulla base di quali competenze sociali hanno scelto il loro percorso scolastico. E in questo caso, lo hanno scelto loro? Qual è il confine tra autoinganno e carenza di competenze sociali? La classe disagiata di cui parla Ventura sembra essere un ricettacolo di tutte queste situazioni e altre ancora, e percorrere la strada della definizione sembra piuttosto arduo, ma questo, in qualche modo, è funzionale al meccanismo del libro.

Beni posizionali?

Il perno della riflessione, in Teoria della classe disagiata, sono i beni posizionali, ovvero ciò che è possibile esibire come status sociale, come simbolo di prestigio, a cominciare dalla professione. Insomma, là fuori ci sarebbe gente che preferisce fare il grafico e non mangiare decentemente, non avere una vita, non poter metter su famiglia, non avere possibilità di fare un progetto che non riguardi una gita domani pomeriggio a due euro di treno, e che, pur potendo vivere in altro modo, si sacrifica a un tale orribile destino, per cosa? Per amore della disciplina d’elezione? Perché non è riuscita a trovare un altro posto di lavoro? No. Per poter dire agli amici – durante un concerto indie a entrata rigorosamente gratuita – «io sono un grafico». Confesso che io ho dei problemi con questa figura.

Innanzitutto, per quella che è la mia esperienza, dal punto di vista del prestigio questa condizione è un catastrofico autogol: credo che la maggior parte di noi rispetti molto di più qualcuno che indipendentemente dai suoi studi si adatti a fare lavori considerati umili per rendersi autonomo o, se questo traguardo non è raggiungibile, gravare comunque il meno possibile sulla famiglia; il nostro amico che sostiene di essere un grafico, vive di paghetta e abita con mamma, non credo goda di grande credibilità, tanto più che molto senso comune considera ancora i lavori cognitivi delle fonti di reddito consistente, e diverse persone attorno a lui trarranno la conclusione che il tizio che non riesce a guadagnare tanto da mantenersi non valga granché come grafico.

Certo esiste anche la pigrizia, ma la pigrizia non è un bene posizionale. È piuttosto un disvalore posizionale, e siccome è anche peggiore del farsi mantenere, il pigro potrebbe raccontare e raccontarsi di essere un grafico sfortunato. In un certo senso,  in questo caso il grafico pigro che non guadagna sarebbe pagato in accettabilità, ma è evidente che il bene posizionale relativo non sarebbe il fine, bensì la maschera dietro la quale si cerca di nascondere il disvalore sociale della pigrizia. In effetti, a guardar bene, sembra che Ventura si riferisca proprio a questa situazione, scambiando un bene posizionale relativo per il fine ultimo. Ci torneremo.


Eliminata quella parte della popolazione che ritiene che farsi mantenere sia una vergogna e forse anche quella che è semplicemente pigra, eliminata quella che sta compiendo una scelta razionale e quella che sta compiendo l’unica scelta possibile, quanta ne rimane a fare un lavoro creativo per questioni di prestigio?


Né l’alternativa prestigio e pigrizia esaurisce le possibilità. Può darsi infatti che fare il grafico – necessità o scelta che sia – rappresenti un bene materiale. Può darsi che il rapporto tra ore di lavoro, fatica e paga di un’altra professione non gli assicuri una differenza di guadagno economico tale da giustificare il cambio: se devo massacrarmi per continuare comunque a non poter mangiare decentemente né fare progetti, preferisco lavorare al computer che scaricare casse. Non mi pare una scelta diversa da chi decide che allo scaricare casse per mille euro al mese preferisce pulire i cessi per ottocento euro per il fatto che alla sua schiena fa meno male pulire i cessi che scaricare casse, e non direi che pulire i cessi sia un bene posizionale.

Può darsi che il nostro grafico non abbia intenzione di abbandonare progetti in corso d’opera per dedicare metà della sua giornata lavorativa a un’occupazione senza garanzie che potrebbe saltare da un momento all’altro, perché l’interruzione o la diluizione del suo lavoro di grafico – lo sa perché quando ha fatto la fame e ha trovato occupazioni alternative le ha ovviamente svolte – significa uscire dal giro e ritrovarsi a partire da zero ogni volta che rientra nel suo ruolo di grafico.

Infine, Ventura non sembra considerare che sia il mondo del lavoro ordinario a rifiutare chi ha altre competenze, una situazione che invece, se non è normale, è certamente diffusa.

Eliminata quella parte della popolazione che ritiene che farsi mantenere sia una vergogna e forse – forse, come vedremo – anche quella che è semplicemente pigra, eliminata quella che sta compiendo una scelta razionale e quella che sta compiendo l’unica scelta possibile, quanta ne rimane a fare un lavoro creativo per questioni di prestigio? Ebbene – si potrebbe rispondere – qual è il problema? Teoria della classe disagiata parla di questo gruppo sociale, per quanto esiguo sia, e non degli altri.

Purtroppo la questione non è così pacifica.

Competenze sociali e determinismo

Andiamo un po’ più in fondo: quando, esattamente, il nostro grafico ha deciso di fare il grafico? È stato quando si è iscritto a un liceo linguistico in attesa di capire cosa fare perché a tredici anni è un po’ difficile saperlo ma in famiglia il liceo è una scelta scontata? È stato quando a diciotto anni si è iscritto all’università, scelta scontata dopo il liceo, e ha preso il dams perché gli amici più grandi di lui, usciti dal linguistico, si sono fracassati contro il muro di medicina, ingegneria elettronica, geografia astronomica cambiando repentinamente facoltà perché, ahia, non era vera quella storia che dai licei umanistici puoi fare tutto?

Qui si spalancano non uno, bensì due problemi, diversi ma interrelati.

Con il primo entriamo nel campo delle competenze sociali, cioè quella capacità di lettura del reale, di arguzia, di spirito critico, che non sta su alcun libretto d’istruzioni, che si apprende sostanzialmente in famiglia e che evidentemente manca a chi crede alla retorica del «se ti sporchi le mani un lavoro lo trovi», del «dopo il liceo classico puoi fare tutto», del «c’erano tremila posti di lavoro al supermercato ma i laureati non si sono presentati» (sì, queste fake news girano ancora, ormai sono un genere letterario).


Il piccolo borghese in genere manca l’aspetto esoterico dei codici comportamentali, modi di presentarsi, linguaggio del corpo, insomma tutti i know-how di chi respira vita mondana sin da piccolo ed è abituato a maneggiare rapporti di potere; né egli ha l’intelligenza e la sfrontatezza del proletario.


Teoria della classe disagiata non sembra tener conto del gap di capitale culturale di chi non sa come va davvero il mondo. Né tiene conto che il capitale culturale generato da fattori puramente ambientali si manifesta anche e soprattutto nella capacità di interagire con le situazioni. Non posso permettermi in questo frangente una digressione su quanto e per quale motivo la piccola borghesia sia una classe immaginaria – nel senso che immagina sia se stessa che il mondo con scarso senso di realtà, ma anche nel senso che la piccola borghesia in qualche modo non esiste – ma la vita ha insegnato a molti quanto si ponga un problema di incommensurabilità di codici e di incomunicabilità reciproca tra questa classe e le altre: per il piccolo borghese la comprensione dei linguaggi silenziosi attraverso i quali in Italia si guadagna l’inclusione è un incubo; convinto che gli basterà eseguire il know-that che il libretto d’istruzioni gli dice che deve eseguire, il piccolo borghese in genere manca l’aspetto esoterico dei codici comportamentali, modi di presentarsi, linguaggio del corpo, insomma tutti i know-how di chi respira vita mondana sin da piccolo ed è abituato a maneggiare rapporti di potere; né egli ha l’intelligenza e la sfrontatezza del proletario.

Quindi, al non sapere effettivamente come va il mondo, al bagaglio di pregiudizi e luoghi comuni, si aggiunge questa ignoranza del codice, che è a sua volta incomprensibile a quella parte della classe intellettuale che non è disarmonica rispetto alla propria condizione socio-economica, perché costoro dominano i codici senza saperlo, semplicemente come hanno imparato a respirare. Il risultato è che i codici, come tutti i know-how, risultano incomunicabili, non tematizzabili e non partecipabili.

Se Ventura avesse voluto davvero azzardare una difesa credibile della sua classe disagiata fondata sul determinismo, avrebbe potuto riferirsi alla carenza di competenze sociali e all’ignoranza dei codici. Invece ignora completamente la questione e la sua difesa si riduce a «l’impossibilità di derogare alla propria classe di appartenenza», infatti

…alla classe disagiata si offre la possibilità di prendere delle decisioni razionali, ma queste decisioni razionali entrano in conflitto con una serie di valori, di aspettative, di abitudini, di codici che definiscono l’identità dei suoi membri. Il prezzo di una decisione razionale, a questo punto, diventa il più alto dei sacrifici: ovvero il sacrificio di se stesso, o perlomeno della propria autorappresentazione.

Per poi concludere qualche pagina dopo, con un rimando a Goldoni, che questo

Ed è appunto questa sua incapacità di derogare che lo condanna. Era l’argomento di Leandro: «Andar a servir non mi conviene». E così l’erede di Pantalone, pur di non derogare, rischia di estinguere il proprio patrimonio.

Vi pare una difesa? Ecco, neanche a me. In pratica i disagiati sono dei fighetti viziati, e questa accusa dovrebbe contemporaneamente funzionare come una scusante.


Teoria della classe disagiata, con la sua insistenza sui beni posizionali e sulle velleità da artista da una parte e con la sottesa accusa di pigrizia dall’altra, lascia aleggiare il sospetto che ogni laureato se la tiri, che ogni disoccupazione sia volontaria e che «se sei disposto a sporcarti le mani un lavoretto lo trovi», finendo così per avallare retorica dominante.


Ricordate il pigro che si traveste da grafico per mascherare la pigrizia? Il mio sospetto è che Ventura scambi per bene posizionale finale un bene posizionale relativo – in parte anche relativamente negativo – la cui funzione è nascondere il disvalore posizionale assolutamente negativo della pigrizia, ma è un’accusa di pigrizia quella che sembra emergere dalla descrizione della classe disagiata.

Non cambia molto, sia chiaro: né l’ossessione del prestigio né l’indolenza sono delle buone giustificazioni, e il risultato è pressoché lo stesso. Benché non lo dica mai apertamente – sarebbe costretto a cedere alla distinzione e quindi a perdere la forza che scaturisce dalla sua indeterminatezza – Teoria della classe disagiata, con la sua insistenza sui beni posizionali e sulle velleità da artista da una parte e con la sottesa accusa di pigrizia dall’altra, lascia aleggiare il sospetto che ogni laureato se la tiri, che ogni disoccupazione sia volontaria e che «se sei disposto a sporcarti le mani un lavoretto lo trovi», finendo così per avallare retorica dominante, luoghi comuni e persino fake news, e confermando contemporaneamente sia le illusioni della piccola borghesia che si butterà sugli studi umanistici pensando che alla peggio un posto alla cassa del Mediaworld si trova, perché io mica sono come quei viziati dei disagiati, sia i pregiudizi dei padroncini e del mercato del lavoro in generale sui laureati, pregiudizi che sono perfettamente organici al clima antintellettuale del paese, e che secondo quella logica circolare che abbiamo visto determinano la maggiore difficoltà di chi ha studiato, quanto meno discipline umanistiche, a trovarsi un lavoro di qualsiasi tipo. In un ambiente avvelenato dalla logica lavorista per cui i laureati sono choosy quindi non vengono assunti come falegnami, Teoria della classe disagiata si presenta come una versione deluxe, colta e ben scritta, della retorica sui choosy.

Va detto però che i datori di lavoro non leggono Ventura, benché Ventura strizzi l’occhio anche a loro nel momento in cui dipinge i suoi disagiati come persone che sono «convinte di meritare». Ma tutto sommato Teoria della classe disagiata non incrementerà direttamente i pregiudizi di un fabbricante di caldaie che in catena di montaggio preferisce metterci qualcuno che non abbia già trentaquattro anni, una laurea in lettere classiche e un master in editoria, semplicemente contribuirà a corroborare una sfumata nebulosa mentale che permea il paese. La sostanziale differenza, rispetto a quella che è stata finora la retorica sui choosy, sta nel fatto che il suo target non sono quei datori di lavoro e quei dipendenti che reputano gli studiati dei saputelli viziati. Il suo target sono gli studiati stessi. Ma in un modo bizzarro, perché Teoria della classe disagiata tende a generare il sospetto di essere responsabile della propria triste condizione nel suo stesso target, e in un certo senso crea la sua classe di riferimento.

Determinismo e colpa

E qui veniamo al secondo problema. Perché la questione non finisce qui, ma coinvolge – probabilmente, da parte dell’autore, involontariamente – tutti coloro che abbiano una vita lavorativa materialmente difficile. Dal momento che Ventura fa riferimento alle speranze e al merito come feticci, sembrerebbe parlare di persone che erano consapevoli di un margine di incertezza sensibile, quindi esclude gli altri, vale a dire gli sfigati (nel senso di sfortunati) e quei poveri idioti (come il sottoscritto a vent’anni) convinti che la rete di protezione dei lavori manuali non sarebbe comunque venuta a mancare. Il che è confermato dai riferimenti alla «frustrazione da status» e dalla dichiarazione che Ventura mette in bocca a una disagiata: «io ho un master in Cooperazione allo sviluppo e non vado certo a fare la commessa al Lidl». Dunque apparentemente il problema non si pone: Ventura parla di chi è affetto da questa ossessione della sgomitata per emergere, di chi è definito dall’assoluta noluntas di stare alla cassa del Lidl, che sia per pigrizia o per volontà di prestigio, insomma eroi tragici e grotteschi del capitalismo e del protagonismo, o semplicemente dell’indolenza, e chi non corrisponde a questa descrizione non dovrebbe sentirsi chiamato in causa.


Se i disagiati di Ventura sono quelli appena descritti, gli altri, tutti gli altri, quei disoccupati o precari che lavoricchiano e vivacchiano nell’ambito dei lavori cognitivi, quelli che non soffrono di frustrazione da status, di cupiditas di beni posizionali, ma solo di incapacità di portare a casa qualcosa più del pane o il pane stesso, e per i quali il posto alla cassa del Lidl equivale più o meno a un sogno erotico: tutti costoro nel libro non ci sono.


Tuttavia c’è un meccanismo a cui il lettore del libro non può sfuggire, che si mette in moto attraverso una serie di accidenti disseminati lungo il testo e che prenderemo in esame.

Prima di tutto, se i disagiati di Ventura sono quelli appena descritti, gli altri, tutti gli altri, quei disoccupati o precari che lavoricchiano e vivacchiano nell’ambito dei lavori cognitivi, che magari fanno quello che fanno benino o maluccio, quelli che non soffrono di frustrazione da status, di cupiditas di beni posizionali, ma solo di incapacità di portare a casa qualcosa più del pane o il pane stesso, e per i quali il posto alla cassa del Lidl equivale più o meno a un sogno erotico: tutti costoro nel libro non ci sono. E non è che non ci sono e viene detto «Caro lettore, di costoro qui non si parla», né viene detto «Ci concentreremo solo su chi soffre di mancanza di beni posizionali». È plausibile che gli incolpevoli siano così pochi, che siano una percentuale talmente risibile da non essere degna di considerazione se confrontata a quella dei fautori del proprio destino? Mettiamola pure così, ma questo è solo il primo tassello di uno strano risultato retorico.

Un secondo tassello lo troviamo in questo passaggio:

Periodicamente un politico incauto lancia una sparata sui giovani fannulloni, così scatenando il subbuglio di mille code di paglia che manifestano il proprio attaccamento allo status acquisito per mezzo degli investimenti formativi: «Ho sette lauree, vacci tu a raccogliere i pomodori!» Non ci si può non porre, allora, la questione della disoccupazione volontaria: non è forse la classe disagiata stessa a rifiutare certi lavori, troppo umili e faticosi per lei?

Questo passaggio introduce il discorso attraverso il quale Ventura fonda la sua discutibile linea di difesa deterministica, quella che abbiamo visto prima: egli intende dimostrare che in un certo senso quella del suo disagiato non è disoccupazione volontaria, perché poveretto, lo hanno progettato con quelle aspettative. Dato che però per Ventura la risposta alla domanda finale è affermativa – è la classe disagiata a rifiutare certi lavori – l’evoluzione del suo discorso in nessun modo inficia il ragionamento che andiamo a fare ora sul perimetro della classe disagiata.

Nel periodo in questione, le critiche rivolte alla retorica politica vengono ricondotte alle code di paglia di chi ha uno status da mantenere, e la costruzione della frase instilla il sospetto che chiunque sia in subbuglio lo sia per quel motivo. Non solo: una volta fatto questo, dice che non ci si può non porre la questione della disoccupazione volontaria, e infine aggiunge una domanda che, stando a quanto appena detto, non ha nemmeno senso aggiungere, visto che è una domanda che segue e non precede la sua stessa risposta: non è forse la classe disagiata stessa a rifiutare certi lavori, troppo umili e faticosi per lei? Certo, lo hai appena detto tu! La petizione è assurda: io lettore mi attengo a Ventura per ciò che concerne la definizione di classe disagiata, perché il costrutto |classe disagiata| è una sua creazione. Al che lui chiede conferma a me del fatto che la classe disagiata sia proprio quella.

È strano ma il dispositivo retorico funziona perfettamente proprio grazie alla sua contorsione: è la stessa problematizzazione che Ventura apre di seguito all’affermazione iniziale a scaraventare nell’accusa di disoccupazione volontaria chiunque sia in una situazione di precariato cognitivo. Senza quella problematizzazione la frase farebbe riferimento a un insieme tautologicamente identico a se stesso: i choosy sono i choosy; è con il porre la questione – e con la successiva domanda che ne rafforza la petizione – che Ventura apre al sospetto. Perché la disoccupazione volontaria è qualcosa che tende a nascondersi, a trovare scuse, qualcosa che va scoperto, e che evidentemente, se ha bisogno di una domanda per essere scovata, si nasconde anche là dove non si vede. Così il sospetto di colpevolezza finisce per investire tutti coloro che ancora non si è capito se appartengano alla classe disagiata o no, e ancora non si è capito perché è lo stesso Ventura a giocare con i confini della classe accarezzando la fallacia di composizione, ed è infine è lo stesso Ventura a includere situazioni diversissime nella sua classe disagiata, e quindi ad accusare tutti di disoccupazione volontaria (che però secondo lui non è così volontaria):

Non potendo permettersi di impoverirsi qualcuno accetterà un lavoro più umile; per schivare un lavoro troppo modesto qualcun altro preferirà la disoccupazione; per evitare la disoccupazione qualcuno si «inventerà un lavoro» investendo tutti i suoi averi in qualche scommessa imprenditoriale rischiosa.

Ora, se so ancora leggere, qui l’unico appartenente a un’ipotesi di classe disagiata intesa in senso stretto è la persona protagonista del secondo esempio, mentre le persone del primo e del terzo esempio sono sane di mente, e quella del primo è più fortunata di quella del terzo. Eravamo partiti dai choosy che «speravano» e «meritavano» e aspiravano a «beni posizionali» e soffrivano «frustrazione da status». Siamo passati attraverso la questione della disoccupazione volontaria, formulata in modo ambiguo e indecidibile, con una domanda che oscuramente smuove sospetti di pancia e strani sensi di colpa. Infine ci ritroviamo tutti, indistintamente, nella classe disagiata, quella dei beni posizionali e della disoccupazione volontaria.

Che questa costruzione sia intenzionale, io non lo penso, ma ciò non significa che non abbia conseguenze. C’è un effetto psicologico che mette radice proprio nell’ambiguità che abbiamo mostrato, e coinvolge tutti, colpendo anche chi, se affrontato frontalmente, risponderebbe che la questione non lo riguarda. Perché nella vita di una persona si troverà sempre un momento in cui ha ceduto all’opportunità meno faticosa, o in cui un vecchio amico di famiglia ha consigliato di non iscriversi a filologia ed è rimasto inascoltato, o quel giorno in cui è stato – maledizione! – pigro, o in cui ha insistito su quella che si sarebbe rivelata la strada sbagliata quando forse era ancora in tempo per trovarsi un lavoro normale mentre ora può solo portare avanti il suo ridicolo ruolo di atipico («i nouveaux pauvres ridotti in miseria perché l’unica cosa che hanno imparato a fare è glossare Heidegger»), o in cui ha vinto la disperazione che non ti fa alzare dal letto dopo anni di legnate – disperazione che, il dio sa, è sempre possibile scambiare per indolenza – o in cui, semplicemente, tra due possibilità dalle conseguenze ugualmente imprevedibili si è scelta quella sbagliata.

In tutti questi casi l’autoanalisi – lo sapevo? non lo sapevo? mi sono autoingannato? ho voluto credere che? – può raggiungere livelli ossessivi. Il mantra rimane che non ti sei sbattuto abbastanza, perché c’è stato sempre un momento in cui potevi sbatterti di più. Addirittura si può sprofondare nel pensiero magico: non ci hai creduto abbastanza, o non ci hai creduto nel modo giusto. Qual è il modo giusto? Dio mio, non lo so.


La classe disagiata, nel libro, non ha confini stabiliti dalla volontà o dalla mancanza di volontà, dalla necessità o dalle velleità, la sua teorizzazione prospera sulla sovrapposizione di esperienze diverse, situazioni diverse, e in definitiva classi diverse con risorse diverse.


Quando ai colloqui non funzionavo, mi domandavo se era andata male perché ero sembrato un disperato in cerca di lavoro o uno troppo sicuro di sé, troppo interessato a quel posto o troppo poco, avevo nascosto troppo o millantato troppo, cercando di intuire – senza codici, senza know-how – il modo adeguato di apparire al prossimo colloquio, non riuscendoci necessariamente e finendo con l’alzare vertiginosamente il livello dell’ansia per poi avere di nuovo timore del suo potere invalidante. E se questa pure fosse una superstizione e non fosse vero che il tuo modo di vederti influenza le decisioni di chi ti deve assumere, tu continuerai comunque a crederlo, o quanto meno a sospettarlo. e alla fine, per l’ennesima volta, sarai il responsabile del tuo odioso destino, perché non hai capito quello che tutti riescono a capire.

È in questa zona di autoanalisi ossessiva che l’ambiguità del perimentro della classe disagiata di Ventura va ad agire. La classe disagiata, nel libro, non ha confini stabiliti dalla volontà o dalla mancanza di volontà, dalla necessità o dalle velleità, la sua teorizzazione prospera sulla sovrapposizione di esperienze diverse, situazioni diverse, e in definitiva classi diverse con risorse diverse – dal lascito familiare al condizionamento ambientale, dalla capacità di stringere relazioni lavorativamente vantaggiose a quella di espatriare – e crea l’oggetto della sua teoria nel momento stesso dell’enunciazione, e riesce a farlo perché in definitiva nessuno è esente dal sospettarsi responsabile della propria disastrosa situazione.

Teoria della classe disagiata sortisce lo stesso effetto di quegli ispettori di polizia che si chiudono in stanza con un innocente confuso, esasperato, con quindici anni di sonno arretrato sul groppone e con fare comprensivo gli dicono: «dai, su, confessa, è andata proprio così: non lo hai mai voluto davvero quel posto alla coop, a quel colloquio ci sei arrivato poco convinto e lo hai sbagliato apposta, o forse eri risentito per quel lavoro che non valorizzava i tuoi studi, e li hai guardati storto. Su, a me puoi dirlo, togliti il peso, ti sentirai più leggero. Del resto chi non sogna? Andiamo, è del tutto comprensibile», oppure, «guarda questa lettera, Giovanni, l’hai scritta tu, a diciassette anni, sì, lascia stare la calligrafia, quella cambia, guardala, ecco, bravo: lo hai sempre saputo, Giovanni, lo hai sempre saputo che se prendevi una laurea in lettere poi non avresti trovato lavoro come verniciatore, questa lettera lo dimostra, tu lo sapevi». Chi non si sentirebbe a disagio?


Jacopo Nacci si è laureato in filosofia a Bologna. È stato recensore per “l’Indice dei libri del mese” e per “Satisfiction”; ha scritto racconti per riviste cartacee e on-line; ha fatto parte del comitato direttivo di “Ultra – Festival della letteratura, in effetti”. È autore di “Dreadlock!” (Zona NoveVolt, 2011), “Radici” (in “Lo zelo e la guerra aperta”, Cooperativa di Narrazione Popolare, 2012) e “Guida ai super robot. L’animazione robotica giapponese dal 1972 al 1980” (Odoya, 2016). Il suo blog è yattaran.com.
Immagine di copertina: Johnson Tsang, Lucid Dream Series – The Breakup.

7 comments on “Il disagio della classe disagiata

  1. Io non sono laureata. Mi sono diplomata in un tecnico commerciale serale, lavorando.
    Ho conseguito una certificazione internazionale in Inglese e 2 Certificazioni di Istruzione tecnica superiore (post diploma) informatici
    Ho lavorato dai 18 anni come operaia su turni per 12 anni e altri 6 anni su turni nei più svarianti call center inbound. Sposata, 2 figli grandi.
    Ho un bel curriculum ma non ho più ovviamente 20 anni.
    Ciononostante non trovo più lavoro da 10 anni.
    Dov’è che avrei sbagliato?
    In fin dei conti non mi sono laureata, ho studiato sia all’Istituto Tecnico che all’ITS, conosco l’inglese e ho una cultura ICT ventennale anche se non sono “nativa digitale”, proprio come tutti richiedono.
    Perchè non vado bene lo stesso?

  2. Il parallelo con una fantomatica intelligenza e sfrontatezza del proletario è tanto fumoso quanto la tesi che si vuol contestare.
    Sul resto si può essere d’accordo, almeno a grandi linee

    • renata

      Solitamente la sfrontatezza, e l’arroganza, è tipica di chi ha le tasche piene. L’intelligenza, per fortuna, è sfrontata, è oltrepassa i confini delle classi sociali

    • renata

      Solitamente la sfrontatezza, e l’arroganza, è tipica di chi ha le tasche piene. L’intelligenza, per fortuna, è sfrontata e oltrepassa i confini delle classi sociali

  3. Martino M.

    Bell’articolo, scritto con metodo e coerenza.

    Questo punto secondo me è il cuore della questione:

    > Quindi, al non sapere effettivamente come va il mondo, al bagaglio di pregiudizi e luoghi comuni, si aggiunge questa ignoranza del codice, che è a sua volta incomprensibile a quella parte della classe intellettuale che non è disarmonica rispetto alla propria condizione socio-economica, perché costoro dominano i codici senza saperlo, semplicemente come hanno imparato a respirare. Il risultato è che i codici, come tutti i know-how, risultano incomunicabili, non tematizzabili e non partecipabili.

    Non saprei dire esattamente come, ma trovo che tocchi il tasto giusto.

    Risuona molto bene anche per quanto riguarda la mia parabola professionale: figlio di medici, mi sono laureato in discipline umanistiche (sì, scienze delle merendine) e sono finito per lavorare come consulente in proprio nel campo del webmarketing, con una carriera tutto sommato solida ed un reddito sufficiente per campare la famiglia senza problemi o ansie.

    Ma è il come ci sono arrivato ad essere importante: fin da ragazzino avevo la costante sensazione di non sapere che pesci pigliare, il liceo fatto perché “nella mia famiglia si fa il liceo”, l’università idem… dell’innamorarmi di idee del cazzo (sì, verso la fine dell’università volevo fare proprio il grafico impaginatore).

    Ad un certo punto, finita l’università ho trovato un lavoro che mi richiedeva di sapere l’HTML. Io l’HTML lo sapevo e quello è stato il mio biglietto di ingresso in una carriera professionale che mi ha permesso di accedere a questi famosi “codici” di cui parla l’autore dell’articolo.

    Perché i codici si possono imparare, ma solo “da dentro” il mondo del lavoro… e l’autore per sua stessa ammissione ne è sempre stato fuori (non per scelta, sembrerebbe, ma non è importante all’atto pratico).

    Il fatto è che il lavoro è una cosa molto, molto diversa da come viene romanticamente dipinto dalla classe media borghese cresciuta tra gli anni 50 e i 70. E’ così tanto diversa da essere (letteralmente) indescrivibile (come ha infatti acutamente notato l’autore nel pezzo che ho citato sopra).
    Quante volte ho provato a spiegare al mio incredulo padre che il lavoro che stavo facendo aveva delle prospettive? Credo che ancora oggi non lo capisca, ma si sia accontentato del fatto che un reddito io riesca ad ottenerlo, vedendomi partire per andare in trasferta e abituandosi a non domandarsi più che lavoro faccia.

    Chiudo con una riflessione… io stesso ancora non so bene come farò a comunicare questa cosa ai miei figli. So che dovrò farlo, comunque.

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