Il nostro presente è fatto da varie dipendenze: siamo “drogati” dagli eccessi e dalla pervasività tecnologica, ma in un certo senso anche dai consumi. E qui sta il punto: al cuore della catastrofe ecologica c’è la crisi dei nostri habitat sia sociali che psicologici.
IN COPERTINA un’opera di andy warhol, “kiku”, oggi all’asta da pananti casa d’aste.
Questo testo è un estratto da “L’assoluta necessità“, curato da Bernard Stiegler ed edito da Meltemi, che ringraziamo.
di Gerald Moore, Nikolaos A. Mylonas, Marie-Claude Bossière, Anne Alombert, Marco Pavanini
“In quanto civilizzazione, noi assomigliamo troppo ad un tossicomane dipendente ad una droga che lo ucciderà comunque sia se continua a drogarsi, sia se smette improvvisamente”
James Lovelock
Società addictogena e adattamento allo stress
Nel suo discorso alla Nazione 2006, provocando stupore nei commentatori del mondo intero, George W. Bush lanciò un appello al finanziamento di soluzioni per far fronte al cambiamento climatico, affermando che gli Stati Uniti soffrivano di una “dipendenza dal petrolio” e che “la tecnologia” era “il migliore modo per uscire da tale dipendenza”.
Questa dichiarazione fu accolta con costernazione da alcuni commentatori che, insistendo sulla necessità di differenziare tra la necessità economica e l’euforia di un consumo incontrollato, videro il 43° presidente legittimare una iperbole abitualmente associata alla sinistra politica. Altri cercarono di dimostrare che la metafora non era affatto metaforica: “Così come le conseguenze dell’abuso di alcol sono sintomi di dipendenza – dalla guida in stato di ebbrezza alla cirrosi – il riscaldamento climatico è un sintomo della dipendenza dal petrolio”.
La tensione tra queste due posizioni si può risolvere, come fa la ricerca contemporanea, rendendo più flessibili i criteri eziologici della tossicomania. In questo contesto è più logico parlare del nostro attaccamento sempre più patologico al mondo dei pharmaka tecnologici reso possibile dal petrolio, piuttosto che della dipendenza dall’energia fossile in quanto tale (petrolio e carbone in generale).
-->Qui ci interessa meno una definizione ristretta che contiene soltanto lo stereotipo del tossicomane in astinenza – apparentemente irrecuperabile, e dipendente da una piccola gamma di addictogeni tradizionalmente riconosciuti, come l’alcol e l’eroina – rispetto alla definizione data alla “addiction” dallo psicologo Bruce Alexander: una (terza) categoria della dipendenza che ammette la prospettiva di consumare più o meno qualsiasi cosa, fino a che un conseguente “coinvolgimento travolgente (overwhelming involvement)” (shopping, mangiare, videogiochi, pornografia, e così via) permetta essenzialmente di salvare le apparenze della normalità denegando le potenziali “fatali conseguenze” delle nostre azioni.
Se, come afferma Alexander, la tossicomania è “un pericolo sostanziale e in aumento nel XXI secolo” ciò non è dovuto al mito secondo cui saremmo sempre più soggetti all’edonismo incontrollabile – da quasi trent’anni si sa che i meccanismi neuronali del desiderio sono legati a quelli del piacere, senza per questo essere identici –; è piuttosto a causa del ruolo terapeutico a breve termine svolto dalla dipendenza per facilitare il nostro adattamento agli ambienti stressanti della vita contemporanea, benché essa si avveri al contempo deleteria.
Dipendenza, entropia e micromondi
Nicholas Georgescu-Roegen, anticipando già nel 1977 il discorso di George W. Bush, poneva l’accento anzitutto sulla simultanea curatività e tossicità della tecnologia – piuttosto che sull’elogio delle “tecnologie verdi” fatto dal presidente americano – parlando di “dipendenza dell’umanità” a ciò che chiamava il “comfort offerto dagli organi exosomatici” a partire dalle analisi di Lotka.
Georgescu-Roegen proseguiva affermando che questa dipendenza è completamente analoga a quella dei primi pesci che si sono evoluti in rettili respirando l’aria e sono così diventati irrimediabilmente dipendenti dall’aria, e costituisce ora una difficoltà, perché la produzione di organi exosomatici è diventata, a partire da un certo momento, dipendente dall’uso dell’energia disponibile e della materia disponibile conservata nel ventre della terra.
L’analogia potrebbe apparire semplicistica se viene interpretata come una diluizione del concetto di dipendenza fino al punto in cui la stessa aria sarebbe addictogena. Ma l’argomento di Georgescu-Roegen può apparire molto più sottile se lo si mette in relazione ai lavori sull’uso della tecnologia per differire l’entropia e a ciò che lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi chiama “l’entropia psichica, una disorganizzazione del sé che altera la sua efficacia […] al punto che non è più in grado di investire la sua attenzione e perseguire i suoi obiettivi”.
Attraverso l’organizzazione tecnologia dei milieux locali, si costruiscono le proprie piccole nicchie ecologiche, o micromondi, e si crea così la propria interiorità. Questo è ciò che Bernard Stiegler chiama l’anti-entropia del “lavoro” che si contrappone alle forze estenuanti ed entropiche, o “antropiche”, dell’“impiego”.
Questo significato del lavoro è fondamentalmente legato a ciò che Csikszentmihalyi chiama la felicità vitalizzante e “trascendente” del “flusso” (flow), o l’immersione nel mondo autonomo e autotelico della propria fabbricazione, sconnessa dalle distrazioni concorrenti degli stimuli esterni, che le psicologo designa anche come “essere nella zona” (being in the zone). Csikszentmihalyi osserva tuttavia che le esperienze di flusso – dall’atto di guardare la televisione fino al compimento di un atto chirurgico – possono essere potentemente dipendenti, offrendo spazi di tranquilla concentrazione nel mezzo di una trasformazione sconcertante.
Altre ricerche, e in particolare quelle condotte dall’antropologo della dipendenza Natasha Dow Schüll, hanno mostrato che lo scarto tra il lavoro terapeutico e la dipendenza tossica può essere impercettibile. Spesso concepite esplicitamente con un obiettivo addictogenetico (addictogenesis), cioè di generazione di dipendenza, le tecnologie, dalle slot-machine agli smartphone, svolgono un ruolo di sostituti alla creazione di sé e del proprio mondo, che funziona come mezzo per attenuare lo stress e l’ansia – in altri termini, l’entropia psichica – ristrutturando così la mente afflitta dal tormento con scopi e finalità di colore che non possono raggiungere altrimenti lo stato di flusso (flow states).
Deregolamentazione del sistema dopaminergico, delocalizzazione e consumo
Nelle neuroscienze, i sostenitori della “teoria del cervello entropico” postulano che gli schemi di attività che rafforzano la stabilità associata alla tossicomania (così come la depressione e i disturbi ossessivo-compulsivi) “potrebbero servire […] a resistere a un collasso ancora più catastrofico nella regressione identificata con gli stati di coscienza ‘primari’ o all’entropia elevata”.
Ciononostante, indipendentemente dalla salute relativa offerta dalla tregua di queste zone, in quanto capacità a resistere alle perturbazioni ambientali, emerge un problema potenzialmente esplosivo nel modo in cui i siti locali di anti-entropia riversano l’entropia nel loro ambiente, si tratti di corpi individuali o delle società che li ospitano.
La stabilità mentale ha un costo che diventa sempre più importante quando lo stress, prodotto dalle condizioni di lavoro legate alla tecnosfera in costante espansione, va di pari passo con ciò che potremmo chiamare “exomatosi” (exosomatosis), cioè le dosi crescenti di tecnologia necessarie per sostenere la nostra fisiologia e il nostro pianeta, ormai entrambi malati.
Negli ultimi tempi, tale malattia è diventata ancora più acuta, non soltanto a causa del cambiamento climatico, ma anche in ragione di uno “sfasamento evolutivo” (evolutionary mismatch), da una parte, in virtù delle forzature antropiche (anthropic forcings) e le pressioni esercitate su di noi dai nostri milieux tecnologicamente organizzati; dall’altra parte, in virtù della capacità della nostra evoluta fisiologia (endosomatica) di accoglierli, in particolare il sistema dopaminergico sovraccaricato e sempre più sregolato.
La tesi centrale di questo articolo è che i due fenomeni summenzionati sono indissociabili: non si può sperare infatti di lottare contro il collasso del nostro ecosistema planetario se non si affronta anzitutto la questione del “disaccoppiamento funzionale” (functional uncoupling) dell’Homo sapiens dagli spazi globali delocalizzati ai quali si è sempre di più spinti ad adattarsi.
Al cuore della catastrofe ecologica si trova una crisi sistemica e cronica dei nostri habitat psicologici e sociali. Tale catastrofe è provocata dalle popolazioni la cui sola strategia possibile, di fronte alle pressioni di sfruttamento imposte dalla società contemporanea, è consumare in maniera pericolosamente eccessiva.
L’Entropocene in quanto Capitalocene limbico
Una premessa fondamentale di questo lavoro è che la “tecnologia”, secondo i termini di John Stewart che parafrasa Stiegler, “è antropologicamente constitutiva”. Non si può infatti cogliere ciò che significa essere umano senza fare riferimento alle protesi tecniche che regolano la nostra esperienza del tempo, del desiderio e dell’attenzione, per tacere della nostra capacità di partecipare alle norme sociali. I nostri strumenti sono tanto vitali per la vita sociale e la vita della mente (vita noetica) quanto l’ossigeno per l’esistenza fisiologica. Affinché la nostra fisiologia evoluta possa costantemente reinventarsi attraverso le tecniche, vi dev’essere un correlato biologico che esplichi la nostra plasticità: un correlato che ci permetta di essere trasformati da ciò che si usa per orientarci nel mondo.
Le ultime ricerche scientifiche attribuiscono l’ampliamento della corteccia cerebrale degli umani del genere Homo a un “corpo striato dominato dalla dopamina” che ci differenzia dai nostri anteriori antenati ominidi. Il corpo striato permette un’aumentata sensibilità ai segnali sociali e ambientali, e una diminuzione dell’aggressività in favore della socialità e della cooperazione. Il sistema dopaminergico costituisce quindi l’interfaccia neurobiologica grazie alla quale l’organismo umano apprende e si adatta al suo ambiente, regolando così la nostra reattività agli stimoli esterni.
Se ormai da tempo si sa che alcune sostanze farmaceutiche, come l’alcol e la nicotina, esercitano un effetto modulatore decisivo sull’attività dopaminergica – e di conseguenza sui nostri comportamenti – diventa sempre più evidente che la nostra esperienza del mondo è continuamente riscritta, tramite il cervello, dagli oggetti tecnici che organizzano i nostri ambienti. In altri termini, non vi è alcuna distinzione chiara e netta tra i medicinali e i pharmaka, cioè le tecnologie, che sono allo stesso tempo tossici e curativi.
Dal consumo rituale di alcol e di tabacco fino alle sempre più grandi e sempre più energivore automobili richieste dagli automobilisti (esempio riportato da Georgescu-Roegen), passando per i caffè da asporto e gli smartphone quali imprescindibili punti di accesso al mondo del lavoro contemporaneo – la cui necessità impedisce la consapevolezza del nostro adattamento automatico alla loro presenza – le nostre vite sociali e mentali sono ormai quotidianamente strutturate attorno alla legittimazione di alcuni modi di consumo overdosato di tecnologie che creano assuefazione e dipendenza.
Così come la respirazione di ossigeno è una causa principale della cancerogenesi, la vita creata e mantenuta dagli organi exosomatici è tuttavia indissociabile da ciò che, con Stiegler, definiamo come antropia, la quale va di pari passo con la deteriorazione dei nostri ambienti artefatti. Si genera così un circolo vizioso di consumo, in cui la destabilizzazione ambientale conduce a un consumo ancora più patologico: quanto più grande è lo stress generato da questi ambienti, tanto più si diventa dipendenti alla “terapia” fornita dalle tecnologie stesse che generano questo stress con costi sempre più elevati per il pianeta.
L’impatto di questa dipendenza è in parte già ben stabilito e affrontato dagli obiettivi di sviluppo sostenibile elaborati dalle Nazioni Unite, che impegnano a ridurre di un terzo il numero dei decessi dovuti a malattie “non trasmissibili”. Il rapporto dell’OMS del 2015 consacra due capitoli interi alle malattie non trasmissibili: il primo rispetto alla salute mentale, la demenza e la tossicomania; il secondo, alle malattie derivate da una degradazione antropica dell’ambiente e degli stili di vita, tra cui il cancro, i problemi respiratori cronici e le “malattie della povertà” e della “disperazione”, così ufficialmente definite, quali le malattie cardiache e il diabete.
Questo rapporto tace tuttavia delle soggiacenti cause dopaminergiche ed ecologiche, soprattutto economiche, senza considerare le nuove forme di malattie ambientali legate al consumo eccessivo delle più recenti tecnologie. Infatti, soltanto in questi ultimi anni stanno emergendo le conoscenze scientifiche a proposito delle ripercussioni sullo sviluppo infantile della sovraesposizione agli schermi, così come degli effetti dei media sociali sulla salute delle democrazie. Il ricorso palliativo ai tablet digitali, utilizzati da genitori esausti per tranquillizzare i propri bambini, ha provocato un aumento del deficit dell’attenzione, di disturbi dello sviluppo linguistico ed emozionale spesso confusi con l’autismo.

Storia dopaminergica del capitalismo industriale e della proletarizzazione
Al di là della constatazione delle ricadute dell’intossicazione tecnologica e del suo impatto sociale, una comprensione della dipendenza è necessaria per stabilire i legami tra, da una parte, il recente “dirottamento” elettorale nel Regno Unito e negli Stati Uniti e, dall’altra parte, l’attrazione dei consumatori di media digitali per il “buzz value” a detrimento della veracità dei contenuti online.
Luca Pani è un pioniere della teoria dello “sfasamento evolutivo” tra le “attuali condizioni ambientali nei paesi industrializzati [e quelle] completamente differenti […] in cui il sistema nervoso centrale umano si è evoluto”. Egli sostiene che un “notevole esempio” di questo disaccoppiamento dell’organismo umano dal suo habitat è lo sviluppo di meccanismi sempre più potenti di fornitura di droghe al cervello, il cui effetto cumulativo consiste nell’
interferire con l’adattamento globale di un individuo al suo ambiente, producendo non soltanto un’alterazione delle sue capacità edonistiche, ma anche un effetto più perturbante sulle capacità cognitive ed emozionali necessarie per un’interazione efficace con il mondo esterno.
Pani si riferisce qui in particolare agli aghi ipodermici, pipe da crack e solventi organici spesso utilizzati dai tossicomani. La sua constatazione si presta facilmente a una lettura storica del capitalismo e della crescente potenza delle tecnologie della nostra quotidianità, storia che non dovrebbe essere più strutturata secondo la classica distinzione tra capitalismo industriale e consumistico.
Ciò che è cominciato con il commercio delle spezie e dello zucchero, poi del tabacco, dell’oppio e della caffeina, sfocia nella pornografia, la musica pop, l’amido di mais modificato e il carfentanil. Lo schermo nomade onnipresente, mezzo di amministrazione addictogenica di scommesse e di fake news, non è altro che l’ultima tappa di questa storia, e dev’essere compreso ecologicamente, cioè nella sua relazione con gli stress ambientali che spingono gli umani proletarizzati a intossicarsi. La produzione industriale del desiderio, se non del piacere, tenta – invano – di compensare questa proletarizzazione.
Il passaggio alla raccolta commerciale dei prodotti psicotropi relativamente leggeri, in precedenza usati a scopo medicale, coincide con l’inizio di ciò che lo storico dell’ambiente Jason W. Moore chiama “natura a buon mercato” (cheap nature), riferendosi al lavoro non remunerato estratto dai commercianti che si accreditano l’industria degli schiavi, senza parlare di quella della materia vegetale e del suolo progressivamente impoverito dalle piantagioni.
Questo concetto di “natura a buon mercato” – che ingloba il cibo, l’energia, le materie prime e la manodopera “a buon mercato” ignorando le conseguenze a lungo termine del sovraffaticamento sistemico – porta al cuore di ciò che Moore riclassifica come “Capitalocene”.
Ma vi è in gioco un altro elemento a “buon mercato”: quello che trascende il dualismo natura-cultura, che ci forza a guardare al collasso degli ecosistemi in termini di degradazione dei nostri ambienti socio-tecnologici e allo stress indotto da questo processo nel nostro funzionamento biologico. Chiamiamolo “desiderio a buon mercato” (cheap desire), o “attenzione a buon mercato” (cheap attention) in riferimento alla mentalità del business as usual che denega il cambiamento climatico e secondo la quale il campo della volontà dev’essere infinito. Un esaurimento di questa volontà, al contempo a livello individuale e collettivo, è pertanto legata alla fabbricazione di un consumo abituale, spesso creatore di dipendenza, in quanto strategia di adattamento.
L’Anthropos dell’Antropocene
Stabilita ormai da tempo, la scoperta del rilascio di dopamina nel sistema limbico umano mostra sempre più esplicitamente che essa costituisce il motore dell’economia contemporanea, nonché il rovescio dell’adattamento forzato agli ambienti dissestati, nei quali consumiamo. Da anni i biologi avvertono riguardo al rischio rappresentato dai perturbatori endocrini per la salute e l’intelligenza, ma la reinvenzione reciproca degli umani e della tecnosfera è ancora più profonda di quanto questi avvertimenti lasciassero intendere.
L’Anthropos dell’Antropocene è il vivente la cui biochimica subisce una modulazione costante dalle tecnologie estrattive che creano delle abitudini di consumo per stabilizzare i livelli di domanda attorno ai quali si organizza l’ordine mondiale. Per riprendere le parole di Bruce Alexander, la dipendenza è stata “mondializzata” dallo sfruttamento del sistema nervoso grazie al quale si interagisce e si apprende dal proprio ambiente. Questo dopa-mining è a sua volta inseparabile dalla produzione capitalistica di “dislocazione psico-sociale” e dai relativi tentativi di ritirarci da ciò che David Graeber chiama le “zone morte” [dead zones] dei nostri luoghi di lavoro traumatizzanti.
Con il termine “Capitalocene”, Jason Moore cerca di tenere in conto i diversi gradi di responsabilità delle differenti popolazioni del pianeta di fronte alla catastrofe ecologica, provocata in maniera sproporzionata dalle economie capitalistiche “sviluppate” del sistema globale dominante. Tuttavia, in questa maniera Moore corre il rischio di deresponsabilizzarci indebitamente, come se il capitale fosse in qualche modo distinto dagli individui che lo ricreano e promuovono continuamente. Per questa ragione, si segue qui la preferenza stiegleriana per il termine Antropocene, con la sua eco a Entropocene.
La nozione di responsabilità diventa più sottile se la si mette in relazione alla questione della creazione di abitudini e alla manipolazione dei circuiti del piacere del cervello. Lo storico americano David T. Courtwright ha coniato l’espressione “capitalismo limbico” per descrivere l’intima relazione tra lo sfruttamento imprenditoriale delle “pulsioni evolute” dell’infrastruttura neuronale della ricompensa e la fornitura di beni e servizi concepiti “per far fronte ai danni inflitti dal libero mercato alle strutture psico-sociali che permettono di assorbire lo shock del cambiamento”.
Il capitalismo limbico si è rivelato pienamente soltanto attraverso la combinazione di un lavoro spietato in condizioni di precarietà crescente e di sistemi di sostegno sociale deficienti, il che fa gravare pesantemente l’adattamento sulle spalle degli individui, che non hanno più altri meccanismi di sopravvivenza che la panoplia di rimedi di consumo offerti dal mercato.
Le recenti ricerche sulla psicologia sociale e la neurobiologia della dipendenza suggeriscono che il processo non dovrebbe più essere strutturato dall’idea che il cervello è irreversibilmente “dirottato” dalle sostanze che ne distruggono la chimica naturale. Ma si pone comunque la questione legittima della nostra complicità nell’abbandono della nostra già fragile agentività [agency]. Benché passivamente, ci sottomettiamo infatti volentieri a un bombardamento di stimolazioni sempre più raffinate per distrarci dalle perturbazioni di un mercato che dissolve sistematicamente – per mezzo della deregolamentazione del luogo di lavoro, sia con l’imposizione di programmi di aggiustamento strutturale ai paesi in via di sviluppo – la capacità delle comunità di costruire collettivamente delle nicchie [niches construction] al servizio della vita, cioè di partecipare attivamente alla formazione e alla modificazione dei nostri milieux.
Anestesia e distruzione
Il pensiero di Moore e di Courtwright permette di constatare che l’Entropocene può anche essere considerato come Capitalocene limbico: un disastro epocale che ingloba non soltanto il pianeta e la civilizzazione umana, ma anche il ritrarsi nell’oblio, descritto da Alexander come una risposta “razionale”, di “adattamento”, al clima entropico nel quale si (s)lavora. La catastrofe ecologica è più dovuta all’assenza di un’ingegneria dell’ecosistema umano – cioè all’abbandono dell’agentività in favore di una automatizzazione del sistema nervoso permessa dalle tecnologie, che pensano e sentono al nostro posto – che alla sua sovrabbondanza.
Da tale mancanza risulta un circolo vizioso di eccessi, in cui il cambiamento climatico è biochimicamente legato al sovraccarico del sistema dopaminergico, prodotto dalle dosi sempre più efficaci delle sostanze tossiche che si consumano per anestetizzarci dalla degradazione sociale. Ciò significa che i tentativi per lottare contro il cambiamento climatico non farebbero che trattare inutilmente questi sintomi se non si affronta ugualmente la “società iper-dopaminergica” addictogena [addictogenic e hyperdopaminergic society] che ne è all’origine. La soluzione non risiede neanche nell’astensione dal consumo, dal “digiuno di dopamina”, né da un programma mondiale in “dodici passi”.
Non si può rinunciare ai pharmaka, e non si può nemmeno eliminarne semplicemente la tossicità costitutiva attraverso un processo fantasmatico di purificazione che ne preserverebbe soltanto gli aspetti curativi. Tuttavia, si può immaginare un’organizzazione della società che ne freni il potenziale tossico generando forme alternative di terapia. L’obiettivo di tale riorganizzazione sarebbe quello di diminuire lo stress che ci rende talmente bisognosi di cure da consumare patologicamente il potere inebriante dei pharmaka fino all’eccesso della distruzione.
In questa prospettiva, il progetto di disintossicazione planetaria risulta perfettamente compatibile con gli obiettivi filosofici e politici dell’internazione: coltivare la località e restaurare gli esausti legami sociali come mezzo per ri-capacitare l’agentività ceduta al consumo compulsivo.
Cultura, dopamina e attenzione
Alla radice della nostra patologia collettiva vi è l’intreccio strutturale tra la cultura e la dopamina. Le funzioni di questo neurotrasmettitore partecipano alla costituzione del legame sociale, alla facilitazione dell’apprendimento dall’esperienza – cioè dell’acquisizione di ciò che si è qui definito ritenzioni –, all’assuefazione e all’anticipazione, cioè ciò che qui si è definito come protensioni.
Il ruolo principale della dopamina risiede dunque nel suo coinvolgimento nel reperire nuove informazioni e nella codificazione di comportamenti ripetuti che si rivelano inizialmente gratificanti o “salienti”. Secondo i termini di Yuk Hui, la dopamina assorbirebbe la contingenza in una routine, portandoci a ricercare la stabilità nella ripetizione dell’abitudine.
Il processo comincia già alla nascita: un’idea attualmente dominante si basa sulla teoria dell’attaccamento di John Bowlby per affermare che il sistema limbico è responsabile della formazione di legami sociali tra la madre, il bambino e la famiglia allargata. Bowlby ha osservato come i bambini piccoli, avidi di attenzione materna, si adattano rapidamente all’instabilità ambientale ritirandosi e distaccandosi emozionalmente, reagendo più alla novità dei giocattoli che all’attenzione accordata loro dagli adulti sconosciuti. Questi cambiamenti sono oggi compresi in relazione alla neuroplasticità, cioè la capacità dell’organizzazione neuronale del cervello di essere dopaminergicamente plasmata dalle stimolazioni dell’ambiente.
Alcuni studi sui topi hanno mostrato che il contatto tra la madre e il suo piccolo influenza non soltanto lo sviluppo dei circuiti dopaminergici nel cervello del neonato, ma condiziona anche l’attenzione emozionale e fisica dei genitori, portandoli a soffrire dell’assenza della loro progenie in virtù di desideri più comunemente identificati nell’amore. I piccoli allevati in un isolamento prolungato presentano “dei livelli base di dopamina elevati e un rilascio più elevato di dopamina in risposta allo stress acuto in età adulta”.
In altri termini, il sistema dopaminergico compensa l’assenza di punti di riferimento familiari facilitando la creazione di abitudini che stabilizzano il soggetto di fronte allo stress. In virtù di tale sistema ci si apre all’altro e ci si lega a tutto ciò che può produrre un impatto emotivo.
I circuiti neuronali si riorganizzano per diventare sempre più reattivi di fronte alla fonte di ricompensa, cortocircuitando le relazioni sinaptiche legate all’attenzione allargata, sempre meno necessaria nel processo. Questo meccanismo – che risponde all’assenza di legame sociale – si rivela estremamente adattivo e ci permette di vivere dei periodi di instabilità ansiogena.
Ma esso è ugualmente legato a “un’aumentata sensibilità agli psicostimolanti quali la cocaina [e] può comportare un’aumentata vulnerabilità alla tossicomania”. La dipendenza ha così un fondamento neurobiologico comune all’attaccamento, da cui deriva la constatazione scientifica dell’identità tra la struttura neurologica e psicologica dell’amore e della dipendenza da addictogeni. La dipendenza deve dunque essere interpretata come un compenso al mancato investimento sociale, cioè un modo per fabbricare un sostrato (ontologico) laddove la sua mancanza diventa percepibile.
Si tratta quindi di una interazione bidirezionale. Infatti, la dipendenza è caratterizzata da un ritrarsi delle relazioni sociali, alle quali essa stessa si sostituisce. Osservando le reti strettamente legate del cameratismo che esistono spesso tra gli utenti di spazi pubblici, si può constatare che ciò agisce come un tentativo complicato di creare legami sociali, laddove i compagni non ne hanno.
Biologia dell’attaccamento e genesi dopaminergica dello spirito
La biologia dell’attaccamento permette di comprendere l’affermazione di Stiegler secondo la quale le dipendenze non sono soltanto patologiche, ma simultaneamente tossiche e curative. Ciò mette in luce anche una tradizione terapeutica affermata, i cui successi sono tuttavia discutibili e che cerca di sostituire le dipendenze tossiche (eroina, tabacco, alcol) con altre “migliori” (per esempio da Dio, dal metadone fino al vaping e alle riunioni degli Alcolisti anonimi o alla corsa).
Catherine Malabou si iscrive in maniera esemplare in questa tradizione, sostenendo che “i processi di dipendenza hanno in gran parte causato l’Antropocene, e solamente nuove dipendenze saranno in misura di contrastarli, almeno in parte”.
Si deve tuttavia fare attenzione e non confondere “meglio” e “non tossico”, o “meglio” e “rapide soluzioni tecnologiche di ultima generazione”, destinate a facilitare un consumo intensivo. L’imminente avvenire del cielo geo-ingegnerizzato, disseminato di aerosol di fosfati per proteggere il pianeta dalla accumulazione del calore solare, è già stato comparato alla situazione dell’alcolista in cui “la dialisi gli permette di continuare a bere” senza veramente affrontare i problemi legati alla sua dipendenza.
Il rilascio del neurotrasmettitore dopaminergico è al cuore della capacità che si ha di adattarsi ai cambiamenti ambientali. Inoltre, la sua relazione con la gestione dell’incertezza spiega in particolare per quale motivo essa ha indubbiamente svolto un ruolo cruciale nella costruzione e ora nello smantellamento del mondo moderno e mondializzato.
Lo psicologo Fred Previc sostiene che la narrazione della storia ecologica umana è quella della dominazione crescente della dopamina nel cervello, che egli lega a sua volta all’aumento “dell’intelligenza astratta, delle esplorazioni, dell’esortazione a controllare e conquistare”, nonché delle capacità di orientarsi verso obiettivi e quindi essere in relazione all’avvenire, alla pianificazione di lungo termine e alla ricerca di verità religiose e scientifiche.
L’emergere dello spirito dopaminergico è legato allo sviluppo piuttosto che all’evoluzione, essendo un prodotto di variazioni ecologiche che inducono cambiamenti neurochimici e non genetici. La storia dello spirito dopaminergico comincia con le modificazioni alimentari preistoriche che si intensificarono circa 6.000 anni fa, in concomitanza con la competizione crescente per le risorse e la conseguente necessità di calcolare per le società sedentarie.
La tesi di Previc risuona con alcune fondamentali affermazioni evoluzionistico-antropologiche sull’incapacità dell’architettura cognitiva a gestire in modo confortevole un gran numero di relazioni sociali, così come sulla rottura del sentimento di appartenenza comunitario e di motivazione a partecipare alla vita della collettività, una volta superata una certa soglia.
Si può identificare nella sedentarizzazione neolitica, e più in particolare nello sviluppo delle città che ne risulta, una fonte importante dell’aumento della competizione, poiché esse hanno allontanato le persone dalle loro reti familiari di piccola scala, e le hanno trapiantate in impiantazioni urbane “spersonalizzate”, in cui esse devono farsi accettare, negoziare la politica culturale e “adattarsi ai quartieri densamente popolati” da perfetti stranieri: “la non-familiarità [unfamiliarity] è diventata la misura delle relazioni umane”.
Il risultato di questo crescente stress, secondo Previc, è stato un disequilibrio neurochimico provocato dall’esaurimento della serotonina e della noradrenalina rispetto alla dopamina. Lo stadio successivo della sua argomentazione corrobora la tesi di Peter Sloterdijk che identifica l’espansionismo europeo dei primi tempi moderni con l’ascesa di una soggettività “disinibita” e “incline al rischio”. Previc afferma che la riorganizzazione della società attorno alla dopamina è stata un fattore decisivo del colonialismo, dall’ascesa del capitalismo e dell’Illuminismo, diventando un fattore ancora più determinante nella seconda metà iper-dopaminergica del XX secolo.
Il neoliberalismo come sistema iper-dopaminergico
Le varie componenti della “società iperdopaminergica” nell’era neoliberale sono: l’adattamento forzato alle esigenze del libero mercato; l’ideologia della “disrupzione”; l’utilizzo proliferante delle tecniche di dopa-mining per colonizzare “il tempo del cervello disponibile” dei consumatori.
In questo senso, Previc può scrivere che “una società altamente dopaminergica si muove rapidamente ed è persino maniaca, dopotutto la dopamina è conosciuta per aumentare i livelli di attività, accelerare i nostri orologi interni e creare una preferenza per il nuovo rispetto all’immobilità degli ambienti”.
Previc isola una lista di “disturbi iperdopaminergici” includendo la depressione, l’ossessione-compulsiva, l’autismo, la schizofrenia, la malattia di Tourette, l’Alzheimer e il Parkinson. Si potrebbero aggiungere a questa lista i disturbi da deficit di attenzione/iperattività (attention deficit hyperactivity disorder, ADHD), benché siano ironicamente associati a tratti che possono prosperare in condizioni iper-dopaminergiche.
Si pensa che il recettore della dopamina D4 sia evoluto all’incirca 40.000 anni fa, in un’epoca in cui l’aumentata sensibilità alla stimolazione che tale recettore conferisce si sarebbe rivelata un vantaggio per quei nostri antenati che presero il rischio di esplorare nuovi territori alla ricerca di nutrimento. Ai nostri giorni, questo allele è considerato comune tra le persone che soffrono di disturbi da deficit di attenzione, che finiscono per essere considerati patologici per l’assenza di paesaggi paleolitici inesplorati che caratterizza le condizioni esigue e sotto-stimolanti della vita urbana contemporanea. Le aule scolastiche costruite secondo canoni metrici standardizzati, omogeneizzate e povere di spazi verdi, sarebbero quindi il primo esempio di ambiente nel quale i portatori di questo allele rischiano di essere disadattati.
Il tentativo di attenuare l’inadeguatezza, aumentando il nostro “margine di tolleranza nei confronti delle infedeltà del milieu” è una delle maggiori, se non la più comune, fra le cause di dipendenza che dev’essere riconosciuta in quanto disturbo iper-dopaminergico. L’inclusione di queste malattie legate allo stress non presuppone più il classico e ormai obsoleto “modello di malattia”, il quale tratta la dipendenza come un disturbo neurobiologico del sistema dopaminergico provocato dal cervello “dirottato” da sostanze intossicanti.
Se questo modello offre un meccanismo troppo semplicistico per separare gli alcolizzati, i drogati e i fruitori di pornografia dai semplici consumatori, la ricerca contemporanea va nel senso opposto, isolando la dipendenza dalla nozione di quantità di sostanze specifiche che supererebbero una certa soglia di accettabilità, per concentrarsi ulteriormente sui milieux iper-dopaminergici e quindi su una cultura sempre più universale di consumo ossessivo.
La tossicomania si situa ormai sempre più al crocevia tra la neuroplasticità cerebrale e l’instabilità di ciò che lo psicologo clinico Jean-Pierre Couteron, ex-presidente della Federazione francese di tossicomania, ha battezzato “società addictogena” [société addictogène]. La patologia non risiede più unicamente nel tossicomane, ma emerge ed è appresa attraverso la modellazione viziosamente circolare dei circuiti sinaptici attorno a intensità fabbricate che si sostituiscono ai legami sociali e alla nostra capacità di costruirli. Mentre i milieux diventano iper-competitivi e antisociali, dosi sempre più elevate di stimuli massimizzati dall’offerta rispondono al contempo all’aumento dei livelli di riferimento di dopamina e alla desensibilizzazione che deriva dall’assuefazione del cervello.
Capitalismo e dipendenza
Si possono osservare due esempi storici della tossicomania come strategia di gestione dello stress ecologico: negli anni 1730-1750, agli inizi anomici della società industriale britannica, il cosiddetto Gin Craze, in cui il consumo di gin aumenta rapidamente e segnatamente a Londra, e parallelamente nelle sale da gioco e d’oppio illegali nelle quali le popolazioni dislocate della società dopaminergica hanno assorbito i disaggiustamenti dal XVIII al XIX secolo.
I fenomeni della “morbosità bianca” [white morbidity] e la crisi attuale degli oppiacei negli Stati Uniti si combinano con l’aumento vertiginoso del ricorso non medico al tramadolo in alcune parti dell’Africa e dell’Asia, per tacere dell’onnipresenza dello sguardo vuoto diretto agli schermi dei nostri apparecchi digitali, esempio che Bruce Alexander descrive come la “mondializzazione della dipendenza” contemporanea del capitalismo.
Ciononostante, esiste una differenza tra le anteriori epidemie storiche e quelle che marcano il nostro presente iper-dopaminergico. Durante i periodi di rapido cambiamento tecnologico aumenta l’abuso – l’evoluzione della distillazione e delle tecniche o degli strumenti di somministrazione della stimolazione – mentre nuove fonti di stimolazione disruptano le norme sociali precedentemente organizzate attorno a tecnologie anteriori. Tuttavia, è possibile pensare che l’organizzazione della cultura possa rivelarsi molto efficace per regolare il consumo.
Una rilettura post-millenaria delle guerre dell’oppio in Cina mette l’accento sul successo dei rituali tradizionali cinesi di fumo per assorbire l’aumento ingente dell’offerta e facilitare la gestione delle abitudini funzionali. Frank Dikötter attribuisce agli stereotipi biologici dell’orientalismo coloniale il pregiudizio secondo il quale nel corso dell’evoluzione i cinesi avrebbero sviluppato una debole volontà e sarebbero imbottiti di oppiacei, idea ugualmente sfruttata dal risorgimento nazionalista cinese.
Le politiche nazionaliste d’interdizione dell’oppio e l’emergere del modello della dipendenza in quanto malattia [disease model of addiction] sono stati ancor più distruttrici in termini di eliminazione degli ammortizzatori sociali della cultura imperiale “retrograda”. Tale modello ha riscritto la storia introducendo l’idea di un oppio totalmente e singolarmente tossico, distruttore dell’agricoltura, dell’etica del lavoro e del carattere nazionale.
Fredric Jameson ha scritto che “il tardo-capitalismo, o capitalismo postmoderno, ha per lo meno fornito il vantaggio epistemologico di rivelare che la struttura definitiva della merce coincide con quella della tossicomania”. Tuttavia, questo poteva essere già evidente sin dall’epoca delle guerre dell’oppio, quando il cambio di statuto di questa droga coincise con la sua mercificazione.
In ogni caso, le epidemie di dipendenza nella storia tendono a svanire man mano che le società affette riaggiustano le loro norme educative e la loro organizzazione sociale per inglobare le tecnologie fino a quel momento perturbatrici. Stiegler sostiene che nell’epoca attuale dell’economia della “disrupzione” lo schema storico dell’innovazione che conduce a un “riaggiustamento” dell’organizzazione sociale crolla di fronte alle nuove tecnologie digitali.
Non è quindi sorprendente che il consumo mondiale sia esploso nel corso degli ultimi trent’anni, nello stesso periodo in cui la scoperta del cambiamento climatico avrebbe dovuto implicare che ne prendessimo le misure per frenarlo.
La rivoluzione conservatrice del consumer capitalism
A partire dalla rivoluzione conservatrice degli anni ’80, una serie di ondate incessanti di cambiamento tecnologico si sono combinate alle riforme del mercato del lavoro per ridurre le reti di previdenza sociale e incitarci ad adattarci a un modo di vita presentato come una “distruzione creatrice” sempre più darwiniana e competitiva.
I sistemi di previdenza e d’integrazione sociale non hanno il tempo di colmare la disintegrazione provata dalle ondate di sovraccarico tecnologico-stimolante. Combinati con l’obsolescenza programmata concepita per ridurre la durata di vita degli apparecchi tecnologici, questi cambiamenti strutturano il nostro modo di esistenza attorno alla “corsa all’imitazione del resto della società”, che ne diventa il modello predefinito.
È in questo contesto che il modo di consumo contemporaneo si fonda su molteplici dipendenze intrecciate che si sovrappongono a una meta-narrazione di adattamento senza fine, lasciandoci di fronte alla difficoltà di assimilare la curatività delle dosi “ormetiche” e intermittenti. Uno stato di eccitazione costante è diventato la regola ideologica, qualsiasi siano i danni a lungo termine che essa possa infliggere alla capacità di costruirsi una vita.
Previc aggiunge che il prevalere dei disturbi dopaminergici è “molto più raro o per lo meno si manifesta meno severamente nelle società non industriali”. Infatti, i disturbi dopaminergici rappresentano potenzialmente “la più grande minaccia per la salute mentale” nel mondo industrializzato e post-industrializzato. Tuttavia, le nuove ricerche sulla grave carenza diagnostica delle malattie mentali nei paesi emergenti sollevano delle questioni sulla prima parte di questa affermazione.
Lo stesso vale per la continuità dei fattori ecologici all’origine dell’ascesa delle società addictogene. È possibile comprendere l’economia dell’adattamento che sottende la fabbricazione della dipendenza in Occidente come una continuazione diretta delle politiche concepite durante il colonialismo per inculcare e imporre la dipendenza all’Africa e all’America Latina e in seguito per mezzo dei programmi di “riaggiustamento strutturale” del FMI e del WTO. Ciò ha causato un disaggiustamento prolungato in cui il consumo si sostituisce ai sistemi comunitari di vitalità e di sostegno sociale.
Colonialismo, guerra dell’oppio e adattamento forzato
Tra il XVII e l’inizio del XX secolo la Compagnia delle Indie orientali britannica ha imposto all’agricoltura indiana delle riforme organizzative che hanno dato il timbro all’insieme del Capitalocene limbico, oltre a provocare un’immensa carestia e catalizzare le guerre dell’oppio. Prima della colonizzazione, l’agricoltura di sussistenza in terreni comuni era la norma. Un sistema tradizionale di stoccaggio dei cereali e un sostegno reciproco e mutuo hanno permesso agli agricoltori di arginare le conseguenze peggiori dell’instabilità climatica.
Ma i britannici hanno chiuso i terreni comuni e obbligato la vendita delle riserve di cereali per aumentare la produttività agricola, introducendo forzatamente colture destinate all’esportazione – ivi comprese quelle dell’oppio – per sostituire le colture di sussistenza. Lo stesso oppio è stato riversato in Cina per instaurare delle abitudini e una domanda che sarebbero finanziate dalla vendita, fino a quel momento rifiutata, di tè cinese a un pubblico britannico nuovamente entusiasta della caffeina.
Alcune storie simili di adattamento forzato provengono dall’America Latina, dove la diversità delle colture gestita con cura dagli agricoltori indigeni ha ceduto il passo – sotto coercizione – alla dominazione delle piantagioni di zucchero destinate all’esportazione, stimolando la consumazione calorica e la dopamina che a sua volta ha liberato la manodopera contadina europea che ha potuto concentrarsi nelle industrie urbane.
Più tardi, gli sforzi postcoloniali, volti a rovesciare il sottosviluppo industriale e la dipendenza del mondo in via di sviluppo da tecnologie industriali occidentali, sono stati ridotti fino a nuova sottomissione dai prestiti occidentali, distribuiti secondo la logica del dealer che cerca di intrappolare nelle sue maglie nuovi clienti, e che hanno semplicemente rafforzato le relazioni clientelari. Le condizioni per l’accesso al credito, ed eventualmente la loro annullazione o ristrutturazione, hanno osato ancora di più, richiedendo la distruzione delle tecniche di riaggiustamento sociale giudicate restrittive per il libero funzionamento del mercato.
La “resilienza” è giunta a definire il contrario di ciò che il filosofo della medicina Georges Canguilhem intende per salute: non già la capacità di reinventare il proprio milieu di fronte alle perturbazioni ambientali, ma l’implacabile adattamento delle economie nazionali alla concorrenza internazionale. La proletarizzazione della dipendenza rispetto alle tecnologie occidentali sotto licenza è così duplicata dall’inibizione attiva delle forme locali di vitalità comunitaria.
Mondializzazione e dopamina
La dopamina è legata alla mondializzazione, da una parte, per il suo contributo alla spazializzazione astratta, all’esplorazione, alla conquista e al perseguimento della stimolazione; e dall’altra parte per i suoi legami con la distruzione della località, di cui si è oggi testimoni. Se la storia della società dopaminergica nasce più o meno con lo stress e le seduzioni della vita in città, allora ci si può chiedere, con il collasso centrifugo dei centri urbani, se la città e la società dopaminergica non vivano al contempo la loro agonia.
La costituzione dello Stato moderno è ugualmente nata dalle pressioni dell’intossicazione urbana. Durante il XIX secolo, l’acqua delle città era infestata dal colera, i cui effetti deleteri erano attenuati dalle proprietà antidiarroiche degli stupefacenti e le proprietà anti-microbiche dell’alcol. La costruzione dei sistemi di distribuzione idrica e delle fontane pubbliche ha fornito secondo Courtwright al contempo l’igiene e fonti alternative di stimolazione. I parchi e gli spazi pubblici hanno avuto un effetto simile.
Tuttavia, la scomparsa continua di questi spazi è già stata riconosciuta come un fattore che favorisce l’aumento dell’ADHD, descritto come “il rovescio della stessa medaglia mentale” della dipendenza, poiché entrambe le condizioni comportano abitualmente un cambiamento compulsivo di concentrazione, lontano dagli oggetti d’attenzione di preferenza sociale, e verso fonti di stimolazione più potenti e distraenti, quali gli schermi e i videogiochi.
Uno dei grandi problemi della fase digitale del dopa-mining è in questo senso che la convenzionale organizzazione delle nostre vite e dei nostri spazi di vita analogici offre generalmente poche alternative sufficientemente attraenti per ammansire coloro che si sono ritirati dalla società. Se le città sopravvivono più o meno in quanto entità commerciali, è dovuto in gran parte al fatto che le loro vie principali sono state colonizzate dai punti vendita che forniscono gli oggetti stessi di dipendenza e intensa stimolazione, quali ad esempio gli smartphone, le sigarette elettroniche, il caffè e l’alcol, che ci spingono lontano da esse. In quanto sito di assembramento rituale e luogo di riposo localizzato, la città cede infatti il suo posto alle microsfere virtuali delocalizzate di Amazon, Netflix e altri media sociali.
Di qui, l’ironia della crisi planetaria in corso: essa corrisponde alla frattura del mondo, intesa nel senso heideggeriano di una ecologia del possibile. Bruno Latour ha recentemente analizzato la politica della rinnegazione del cambiamento climatico attorno all’idea dell’“assenza di un mondo comune da condividere”. Davanti alla scelta tra il sacrificare il loro modo di vita o mantenere lo status quo al prezzo di condannare vasti lembi del globo alla devastazione, le élite politiche si sono ritratte dall’aspirazione di governare in nome dell’interesse della maggioranza, cercando semplicemente di rinchiudersi in nicchie privatizzate da cui esse possano superare l’apocalisse.
Sfere, bolle, spuma
L’argomento di Latour funziona ugualmente per descrivere uno spettro molto più ampio di comportamenti del capitalismo limbico, nella misura in cui il rinnegamento – un sintomo classico della dipendenza – è diventato il modo predefinito dell’esperienza. Infatti, si è tutti apparentemente impegnati in un processo di ritiro dagli spazi pubblici universali un tempo caratterizzati da un’attenzione comune, da progetti collettivi e da ciò che Jacques Rancière chiamerebbe “aisthesis comune”, o in ogni caso un’esperienza unificatrice di ciò che costituisce lo stesso luogo.
In una società dopaminica e addictogenica, il mondo condiviso soccombe alla frammentazione in bolle di isole private ermeticamente autonome, in comunità chiuse e nelle camere virtuali di risonanza di Internet [internet echo chambers] nelle quali si può sfuggire ai sentimenti di disperazione da stress. Il riferimento alle bolle richiama qui non soltanto le filter-bubbles del Web 2.0 evocate da Eli Pariser, ma anche le strutture sociali e psicologiche dell’immunità, le “architetture delle capsule” e la “schiuma” di Peter Sloterdijk.
“Nel mondo della schiuma, le bolle individuali non sono assorbite in un solo iper-globo integrativo”, ma rimangono separate. Il Capitalocene limbico si rivela essere l’ultima tappa della schiuma del mondo ormai segmentato in capsule autonome.
Questa ricerca di insularità e di “spazi sicuri” è, secondo lo psichiatra Daniel Casriel, esattamente ciò che è in gioco nella dipendenza. Casriel ha compreso che l’“incapsulamento”, “anestetizzando” i sentimenti di incapacità di affrontare le scelte, è la terza via per le persone inadatte all’alternativa tra il “combattere o fuggire” [fight or flight]. E la sua generazione di farmacoterapeuti ha cercato di andare contro la tendenza al ritiro ricreando un ponte tra le zone di ritiro dei tossicomani e la sfera pubblica, riassorbendo le bolle individuali di schiuma in un milieu comunitario.
Il loro progetto di disintossicazione attraverso una reintegrazione di tossicomani nella sfera pubblica ha deragliato in virtù di una combinazione di consumismo di riadattamento – cioè modelli di trattamento che rafforzano le tendenze fortemente proletarizzanti che dovrebbero invece combattere – e di riorientamento politico verso la guerra contro le droghe. Tuttavia, i promotori di questa nuova sintesi del pubblico si sono ugualmente scontrati con la difficoltà di sostituire le dipendenze tossiche con altre, giudicate benefiche.
Le comunità terapeutiche, sul modello di quelle della Phoenix House, erano accusate già negli anni ’70 di funzionare come dei “mondi tossicomani incapsulati” dove i residenti erano autorizzati a vivere senza riflettere sul loro reinserimento nello spazio condiviso dal quale si erano ritirati a causa della loro dipendenza.
Gli effetti sintomatici dell’astinenza planetaria
Se il cambiamento climatico è un problema del Capitalocene limbico, cioè un fenomeno di consumo da dipendenza indotto dalla proletarizzazione generalizzata, quali sono dunque le conseguenze per il modo in cui si deve prenderne cura? È interessante notare che esiste un argomento parallelo al contempo nel paradigma dominante dei trattamenti della tossicomania e, in certa misura, nei discorsi sul riscaldamento globale. La sua logica principale sottostante consiste nel sottolineare la necessità di una rottura radicale con i modi di consumo esistenti.
Si deve a Daniel Ross l’osservazione per la quale attraverso un’immagine intensamente sfruttata dalle industrie della denegazione del cambiamento climatico, l’immaginazione pubblica è dominata da visioni dove la riduzione del carbone è veicolata dal fantasma di una brutale astinenza forzata: l’improvviso ritiro da un modo di vita organizzato attorno al consumismo tecnologico, seguito dalla miseria dell’astinenza senza fine, in cui si fa il “conto alla rovescia” su scala planetaria per la fine del mondo, mentre si persevera a bucarsi “ancora un’ultima volta” estraendo grazie al fracking idrocarburi di scisti.
Nella migliore versione di questo scenario, si potrebbe riuscire a uscirne in quanto tossicomani “funzionali”, concedendoci con cura qualche minuto di Internet, qualche dose di petrolio e degli acquisti quotidiani in plastica limitati alle dosi strettamente già controllate (inefficacemente) e consigliate a caratteri minuscoli dall’incoerenza della società “economicamente verde” [greenwashed society]. Tutto ciò per evitare l’intollerabilità dei sintomi di dipendenza, che sarebbero risentiti al contempo individualmente e collettivamente: forse non i vomiti e la diarrea indotti dall’arresto degli oppiacei, ma sicuramente l’ansia, l’irritabilità e la fatica. Chi sa come tutto ciò potrebbe evolvere a livello politico e sociale?
Il disgusto di tali sintomi, per tacere della convinzione della loro assoluta non-sostenibilità, è già stato implementato in modo circolare per prescrivere le diagnosi di dipendenza rispetto al consumo patologico dei media digitali. I saggisti ambientalisti hanno ugualmente insistito affinché l’astensione dal consumo di tecnologia non possa assolutamente essere un’opzione. Spesso si sostiene infatti che sempre più tecnologia sarà necessaria per salvare il mondo, e non un ritorno al “sacrificio collettivo”.
Il dubbio vantaggio di inquadrare il collasso ecologico a partire dal prezzo intollerabile che si pagherebbe a causa di una brutale astinenza, e più in generale di aggrapparsi a un modello della dipendenza patologica che ci permette di distanziare il cambiamento climatico dal consumo patologico, è ciò che ci esonera dal prendere delle misure climatiche preventive prima che non sia effettivamente troppo tardi, quando si toccherà il fondo mitologico, in cui gli iceberg saranno scomparsi.
Toccare o non toccare il fondo (rock bottom)
“Toccare il fondo” [rock bottom], il secondo e più celebre enunciato dei dodici passi degli Alcolisti anonimi (AA), è il momento cruciale in cui si suppone di ammettere la “disperazione” e la “sconfitta completa” di fronte a un’ossessione mentale così sottilmente potente che nessuna quantità di volontà umana potrebbe spezzarla. Improvvisamente, sembra che l’oggetto della dipendenza diventi così divorante da escludere tutto ciò che ci è caro dall’orbita sempre più ristretta della nostra attenzione.
Secondo questa logica, l’alcolista tipico è così egoista e manca talmente di cure che sarà spinto all’azione soltanto quando diventerà letteralmente una questione di vita o di morte. Soltanto dopo aver perso il proprio lavoro, i suoi soldi, la sua famiglia e la sua salute – e può essere anche la sua casa, e adesso il suo pianeta – egli riconoscerà la necessità di sostituire attraverso l’intermediazione di Dio la motivazione fornita dagli AA alla sua propria volontà difettosa.
Dovremmo notare un certo grado di margine di manovra nella formulazione originale dei dodici passi. Il cofondatore degli AA, William Griffith Wilson (conosciuto come Bill W.), fa riferimento a un successo precoce nel reclutamento “di giovani che non erano più che dei potenziali alcolisti”, e afferma che “uno degli obiettivi degli allora nascenti AA è di risparmiare loro l’inferno innalzando il livello del fondo [bottom] che gli altri tra noi avevano toccato fino al punto in cui essi lo toccherebbero prima”. Questa ambizione è stata poi abbandonata e Bill W. osserva che “poche persone cercheranno sinceramente di praticare il programma degli AA a meno che non abbiano toccato il fondo”.
Malgrado i dubbi sul suo fondamento scientifico, la dottrina della necessità di “toccare il fondo” [rock bottom] si è in seguito rinforzata per diventare una pietra angolare dell’industria della riadattazione.
La consacrazione di “toccare il fondo” è dovuta, secondo la specialista della dipendenza Maia Szalavitz, in parte al sistema giudiziario che legittima il trattamento punitivo contro-produttivo dei tossicomani, segnatamente travestendo il castigo in amore puro e duro. Questo giudizio critico è condiviso anche dallo psichiatra clinico di Harvard, Lance Dodes, che individua nel mito di “toccare il fondo” la forma definitiva del marketing per una cura difettosa proposta dalle industrie della riabilitazione alle quali si è incoraggiati a ricorrere con sempre più fervore proprio quando essa non funziona.
Il successo continuo dell’industria della riabilitazione non può essere dissociato dal modo in cui i suoi fallimenti sono sistematicamente spiegati riferendosi a clienti che non vogliono assolutamente “questo” [it, ça] in modo sufficientemente disperato, non avendo ancora toccato il nadir richiesto per incitarli alla sobrietà. L’accento tipicamente neoliberale sulla deficienza della responsabilità personale occulta comodamente la tendenza del sistema della riabilitazione a ri-produrre la ricaduta, esigendo l’adattamento dei dipendenti a circostanze stressanti, imposte dall’istituzione stessa, che li spinge in primo luogo alla dipendenza.
Tuttavia, l’astinenza non è più fortunatamente lo schibboleth che fu un tempo nei circoli terapeutici. La maggior parte delle “industrie della riabilitazione è basata su un modello difettoso che non è cambiato dagli anni ’30”, cioè quello fondato sulla reificazione dei dodici passi in una sorta di modello consumeristico prodotto in massa, dottrinalmente rigido e proletarizzato, mai concepito dagli antenati kropotkiniani degli Alcolisti Anonimi.
Il dogmatismo ideologico e la commercializzazione dei modi di terapia astrattamente universali hanno reso molte istituzioni terapeutiche incapaci di trasformarsi, non volendo condividere e creare conoscenze con le istituzioni “rivali” e non volendo lasciare l’autonomia decisionale ai pazienti che sono spesso costretti legalmente a curarsi, ossia a subire una riabilitazione in alternativa alla prigione senza avere nessun’altra opzione, se non il conformarsi ai regimi rigidi che sono loro imposti dall’alto.
Alle origini del movimento degli Alcolisti Anonimi – la terapia contributiva
Tuttavia, “esistono persino delle prove significative” di approcci empatici e responsabilizzanti che “permettono ai pazienti di fissare i loro propri obiettivi” che garantiscono più successo di quelli che finalmente riproducono la dislocazione ambientale che sottende il ricorso alla dipendenza. Sta emergendo una panoplia di alternative ai programmi di riabilitazione dominanti identici per tutti, che comprende degli elementi di ritorno alle radici degli AA nella teoria anarchica della “mutua cooperazione”.
In altri capitoli di questo volume si è descritto come le località potrebbero essere rivitalizzate attraverso l’uso di piattaforme digitali per coltivare la ricerca contributiva, incentrata sui cittadini, conformemente alle sperimentazioni territoriali intraprese nel territorio di Plaine Commune. Ispirato all’etica del sostegno comunitario autorganizzato e che emerge spontaneamente, il loro potenziale consiste nel fornire ai gruppi e ai network di gruppi mezzi propri per generare conoscenza di sé, permettendo loro di trasformarsi e di rivitalizzare grazie ai loro propri sforzi gli ambienti tossici che inducono all’iper-consumo come risposta terapeutica al disaggiustamento.
In questo senso, un’esperienza pionieristica è rappresentata dalla Clinica Contributiva di Plaine Commune che, sotto la guida della pedopsichiatra Marie-Claude Boissière, riunisce ricercatori, personale medico, genitori di giovani e bambini ai quali sono stati diagnosticati disturbi da sovraesposizione alle tecnologie digitali. L’obiettivo della Clinica Contributiva consiste nel lottare contro la dipendenza dagli schermi, creando una località nella quale i genitori possano apprendere gli uni dagli altri, senza essere giudicati, e generare conoscenze condivise sull’impatto della sovraesposizione agli schermi digitali e sulla relazione genitori-figli che struttura lo sviluppo dei loro bambini.
La clinica fornisce inoltre la base per ricreare delle reti di cura estesa la cui erosione ha comportato che gli adulti più isolati, affaticati e stressati si siano legati al comfort dei loro smartphone in assenza di una migliore integrazione psicosociale. Esplorando i legami tra la fatica e l’utilizzo sostenuto di apparecchi che impoveriscono il sonno, è possibile scoprire forme alternative di rinvigorimento alla sovrastimolazione digitale.
La terapia contributiva diventa così una tecnica per inventare forme di connessione emotiva e sociale che trascendano l’individualismo mercificato, dunque nuove forme di philia legate al perseguimento del bene comune che evoca Aristotele nell’Etica Nicomachea. Si possono anche vedere come una forma di lavoro (da distinguere rispetto all’impiego) e come un processo di “capacitazione” all’interno del quale la contribuzione al sapere permette alle persone di diventare ciò che “possono fare ed essere”.
Il gruppo terapeutico – therapeia e philia
Il potenziale terapeutico della ricerca contributiva può anche essere compreso attraverso gli studi sullo sviluppo umano dello psicologo russo Lev Vygotsky. La convinzione di Vygotsky era che l’azione umana è un processo di trasformazione dove gli individui, l’Homo sapiens in quanto specie, e gli strumenti esistono in una rete di mutua co-creazione.
Nel saggio intitolato Il collettivo come fattore di sviluppo del bambino anormale, Vygotsky descrive la dimensione sociale dello sviluppo come una “funzione del comportamento collettivo, come una forma di cooperazione o di attività cooperativa”. Lo psicologo russo prende a prestito dal vocabolario dell’urbanismo il concetto di “zona di sviluppo prossimale” per spiegare come, grazie all’aiuto di una persona più competente o di un pari, il bambino diventi capace di fare cose che non era in grado di fare prima. Vygotsky ha osservato il prodursi di tale fenomeno soprattutto in situazioni ludiche dove “il bambino si comporta sempre al di là della sua età media, al di sopra del suo comportamento quotidiano; giocando, è come se fosse più grande di se stesso”.
Lo sviluppo, sostiene Vygotsky, emerge da un contesto sociale e relazionale nel quale l’individuo e il gruppo evolvono verso qualcosa di diverso, creando nuove norme nella loro relazione con l’ambiente.
Uno dei rari tentativi di mettere in pratica questa prospettiva è stato promosso negli anni ’70 dall’East Side Institute di New York, dove i terapeuti Fred Newman e Lois Holzman hanno combinato le elaborazioni teoriche sullo sviluppo di Vygotsky con i lavori di Wittgenstein sul linguaggio per creare il metodo psicoterapeutico della “terapia sociale”. La terapia sociale parte dal principio che gli individui “sono forzati ad adattarsi a condizioni che sono manifestamente sempre più contrarie non soltanto ai loro propri interessi, ma anche a quelli della specie umana nel suo insieme” – in tal senso, i drogati e i senza-tetto fanno parte di un più ampio spettro di tentativi infruttuosi di adattamento. Tale adattamento comprende il gruppo in quanto “unità di trasformazione/cambiamento/crescita/apprendimento” grazie alla quale gli individui possono essere trasformati senza concentrarsi specificamente sulla “risoluzione dei problemi” dei suoi membri.
Il gruppo diventa al contempo un metodo e un risultato, e le sue attività svolgono la funzione di zone emotive di sviluppo prossimale. Il capitolo quattro di questo volume sulla “scultura sociale di sé” descrive una “transindividuazione” simile a quella degli individui in seno a un collettivo per la condivisione delle conoscenze. Nonostante le critiche alla rigidità degli AA, Lance Dodes rinforza ulteriormente il valore di questo tipo di comunità terapeutica localizzata, suggerendo che “i gruppi sarebbero una preziosissima componente” per il trattamento della dipendenza “se fossero concepiti per aiutare i pazienti […] a sperimentare nuovi modi per tessere legami”.
La madre di tutte le situazioni critiche
In questa prospettiva, la funzione del trattamento della dipendenza è facilitare la co-creazione di forme di vita fino a quel momento impossibili da immaginare. La relazione tra ciò che costituisce la possibilità e l’impossibilità di uno sviluppo futuro dev’essere considerata come una delle fasi più importanti di un’impresa terapeutica.
Nel 1991, un altro russo, Fyodor Vasilyuk, ha cercato di investigare “unicamente ciò che una persona fa quando non ha nulla da fare, quando si trova in una situazione che rende impossibile la realizzazione dei suoi bisogni, attitudini, valori e così via”.
Questi momenti erano “situazioni critiche” nelle quali l’individuo è “incapace di affrontare le condizioni di vita, esterne o interne, esistenti”. Nella concezione della psicopatologia di Colin DeYoung e Robert Krueger, la stessa impasse è affrontata in quanto “fallimento persistente […] per generare nuovi obiettivi, interpretazioni o strategie efficaci quando quelle esistenti si avverano infruttuose”.
L’Antropocene si presenta come la madre di tutte le situazioni critiche: quella che minaccia l’abitabilità stessa del pianeta, oltre e al di là di rivelare come inefficaci le norme di esistenza attorno alle quali le nostre vite sono organizzate. Tuttavia, l’Antropocene offre al contempo un’opportunità per abbandonare le antiche norme che ci rendono malati e una fine inattesa della società iper-dopaminergica. Di qui la sua promessa paradossale di una vitalità rinnovata
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