Essere fedeli per sopravvivenza significa non esserlo affatto. Un racconto di racconti di famiglia e di differenza tra generazioni, può aiutarci a capire perché.
IN COPERTINA un’opera di carlo carrà, all’asta oggi da pananti casa d’aste.
Di Greta Plaitano
Dissoluzione: atto, operazione di dissolversi e più spesso il fatto o il processo di dissolversi. In chimica, il disciogliersi di una sostanza in un solvente o in un liquido di attacco. In senso figurato, disfacimento, disgregazione.
Quest’estate, benché me lo meritassi, ho scelto di non andare davvero in vacanza. Al posto di prendere un volo per una località esotica ho deciso di passare dieci giorni con i miei genitori a mettere a posto la casa di mia nonna. Di nonna Adele, che manca ormai da due anni, io ho ereditato soltanto tre cose: una catenina d’oro, la testardaggine e una quarta abbondante di reggiseno. I miei genitori, invece, hanno ricevuto un sacco di burocrazia da gestire prima, durante e dopo il lutto (una delle grandi meraviglie della morte di una persona cara) e una casa squallida senza alcun valore economico nel paesino dove è nata.
Arrivati in paese, uno sputo di case nell’entroterra sopra Salerno dove i nonni tornarono a passare la pensione dopo quarant’anni di lavoro a Milano, i miei genitori hanno trovato la casa in condizioni pietose. Umido, muffa e intonaco caduto a terra li hanno convinti non soltanto ad aprire porte e finestre, ma a buttare quasi tutto ciò che ci è rimasto di quelle vite sacrificate che hanno cambiato la nostra. Io sono arrivata pochi giorni dopo la sofferenza punitiva di mia madre – che ha organizzato due furgoni pieni di mobili da mandare in discarica e disinfettato ogni angolo dei pochi sopravvissuti – trovando quattro cartoni pieni di cianfrusaglie raccolte tra la cucina e la camera da letto e due ceste di plastica nera con il contenuto approssimativo dei pensili del suo bagno.
Nonostante io lavori con il passato quasi ogni giorno, studiando e scrivendo storie di persone morte da tempo, frugare tra i resti della vita di mia nonna è stato più faticoso del previsto. Non dovendo fare un elenco di consistenza, un inventario o uno studio storico, il mio compito è stato soltanto quello di selezionare con cura e affetto cosa salvare di lei e cosa lasciare andare. La mia forma mentis però, nel corso degli anni, è diventata troppo ferma e mi ritrovo a stilare una lista sommaria:
bomboniere diverse (ninnoli d’argento e di vetro, bambinetti e oche, bottiglie con fiori secchi e confetti ammuffiti dentro sacchettini di tulle azzurri e bianchi), statuette di madonne a colori sbiadite, santini vari (soprattutto Padre Pio, San Francesco e Sant’Antonio), scatole di latta, una macchinetta per misurare la pressione di colore rosso, bassorilievi brutti di angeli in legno, una fotografia strappata di quello che presumo essere mio padre, bicchieri e tazzine con fantasie a fiori dozzinali, una radiosveglia degli anni ’80 funzionante, quattro volumi delle pagine gialle, due rosari in plastica, un portachiavi a parete con un Cristo dorato in alluminio e la scritta “Benedici la mia casa e la mia famiglia”, una pila di radiografie formato A3 (cranio, vertebre, reni e vescica, torace), libretto di istruzioni di un telecomando perso, libretto sanitario del cane ancora vivo (Masaniello, come il rivoluzionario napoletano del ‘700), una scatola di legno piena di fotografie, tre rubriche con i numeri scritti in grande di parenti e amici compilate da mio padre (alcuni sottolineati in rosso), Souvenirs (palla di vetro di Roma con i brillantini, un piatto da Parigi con la Torre Eiffel), cinque programmi dei testimoni di Geova intonsi, due vasi di ceramica dipinti a mano (comprati a Vietri), fotografie dei bisnonni in cornici d’argento sgarrupate, un ritratto di famiglia a colori scattato il giorno della mia laurea triennale, la tessera elettorale di mio nonno Raffaele, i libretti sanitari (su quello di nonna manca il gruppo sanguineo), un album con le foto del pranzo dei loro cinquant’anni di matrimonio.
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Forse mio padre, 1963.
A un occhio esterno forse questi reperti possono sembrare solo il frutto di un’accozzaglia di resti di qualcos’altro: una vita che aveva di certo una storia più grande. Ma in verità l’esistenza di Adele dopo la pensione era diventata questo. Pochi oggetti apparentemente senza logica, una fede di forma più che di sostanza, una casa con un piccolo giardino in mezzo a un paese ignorante ma buono, un cane trovatello con cui andare in montagna a cercare funghi, un marito che non ha mai lasciato anche se avrebbe dovuto.
Osservando quella lista surreale, decido di salvare una decina di cose. Insieme alla scatola di fotografie (che aprirò fra qualche mese) ai santini (che non butto per paura porti sfortuna) e alle rubriche, tengo una radiografia del torace che nascondo velocemente in valigia e poi mi fermo con la lentezza che questa mansione merita a sfogliare l’album dell’anniversario di matrimonio. Nelle foto io ho vent’anni e sono già in sovrappeso, i miei genitori sono felici, anche Raffaele sorride un po’ in imbarazzo mentre taglia una torta glassata al ristorante, mia nonna invece è sempre dura, anche quando ride. La vedo lì, piccola e rigida, con i suoi capelli di un rosso quasi fluorescente (era allergica alle tinte industriali e doveva farsi fare un Henné accesissimo) e noto il lembo di pelle tra la parte inferiore del naso e il labbro superiore, perennemente tirato nonostante la fila ordinata di solchi verticali che ne segnano l’espressione. Pagina dopo pagina mi convinco che le rughe di mia nonna non siano il frutto della vecchiaia o dei sacrifici passati a fare dolci alla Bindi – una delle aziende più grosse d’Italia di cui lei è stata una delle prime dieci dipendenti – ma delle parole che non ha potuto dire.
Tessera dipendenti della Bindi di mia nonna, senza data.
I ricordi sono un impasto intricato di quello che è stato e di cosa vorresti fosse accaduto. E nella mia testa io sono convinta che un’estate, quando ormai viveva sola da tre anni, prima che i miei genitori la riportassero a Milano per farla curare, Adele mi abbia detto una frase importante. I nostri momenti di dialogo erano sempre pochi, frettolosi, e l’intimità si affermava per caso, quasi sempre durante lunghe partite a scala quaranta, in cui le sue risate calmavano la mia rabbia infantile che sopraggiunge ancora quando perdo a qualcosa (qualunque cosa). Parlavamo dei parenti, cercando di ricostruire l’albero genealogico (secondo i nostri calcoli dovrei avere oltre 200 cugini di secondo grado), dei funghi (quali crescono in che punti precisi della montagna) e di come si era messa con il nonno (si erano sposati dopo una fuitina, come da prassi nel meridione italiano di quegli anni). In mezzo a queste conversazioni che mi sembravano il romanzo di una vita lontanissima dalla mia, sotto un gazebo arrugginito ricoperto di vite, una volta credo mi disse “mi raccomando, non ti sposare”. “Ma nonna tu sei sposata!”, “Appunto! Pensaci bene, non ti sposare”.
In realtà è molto probabile che questa frase non sia mai uscita dalla sua bocca, che cento altre volte mi chiedeva quando mi sarei maritata, soprattutto per rispondere alle sue amiche della chiesa, le cui nipoti infestano ancora oggi la mia bacheca di Facebook con post di matrimoni apocalittici e battesimi sontuosi, che consistono principalmente in tripudi di palloncini, torte a quattro piani e invitati vestiti in poliestere damascato. Ma mi piace pensare che mia nonna in fondo avesse capito che ero un po’ strana, che mi piaceva studiare e che a Milano le cose si facevano ormai diversamente. Il giorno della mia laurea aveva pianto senza sapere bene cosa stesse succedendo e so per certo che si vantava della mia lode conquistata anche in magistrale, nonostante non capisse perché fosse così importante prenderne addirittura due di lauree. Il dottorato fu quasi impossibile da spiegare e tutt’ora dico in paese che è una cosa importante dove sei pagato per pensare, o almeno, è ciò che speravo fosse prima di farlo.
Svuoto i cestini del bagno per terra. Devo finire quello che ho incominciato e continuo a prendere appunti per paura di dimenticare i pezzi irrisori del suo quotidiano: sei spazzole per capelli (sporchissime), trucchi (un fard rosa, un pennello, quattro rossetti rossi del mercato), due orologi rotti, due tronchesini, una lima per unghie, uno smalto color corallo, una confezione di cotone, due collanine in plastica (perle bianche e azzurre), quattro ciondoli con la madonna, uno shampoo anticaduta, una saponetta di Marsiglia, tre confezioni di profumo (nessuna accettabile), una lacca Janettil fissaggio forte (color marrone finto legno, la donnina di profilo con la cofana di capelli neri non sorride), i suoi occhiali da vista.
Mia madre mi racconta che la nonna si vergognava a dire di non saper leggere e che quando era in mezzo alla gente, anche in chiesa, fingeva di non vedere bene anche se portava gli occhiali. Ovviamente li tengo, insieme alla confezione di lacca vuota, lo smalto ancora buono e una madonna che infilo in tasca sperando porti bene. Credo che niente di quello che sto facendo abbia davvero un senso ma lo faccio comunque. Rido fra me e me pensando alle contraddizioni sottese dell’insegnamento e, in particolare, alla studentessa che un mese fa mi ha chiesto la supervisione della sua tesi intorno alla storia del collezionismo. In un ricevimento durato oltre due ore con L. – dotata di un’intelligenza critica fuori dal comune e di conseguenza di una buona dose di insicurezza e paranoia – ho improvvisato una padronanza di argomenti che in realtà conosco poco, proponendole un percorso a metà strada tra la storia dell’arte e la storia dei media, basato sulla differenza tra i concetti di raccolta e di accumulazione. E dopo averla inondata di bibliografia e aver citato Panofsky sottolineando l’importanza di cercare in ogni cosa “la logica specifica dell’oggetto specifico”, adesso mi chiedo: sto creando una collezione di oggetti che raccontano la vita di Adele? O che raccontano il mio ricordo di Adele? E se invece stessi soltanto accumulando le reliquie di una povertà che ho dentro ma che in realtà non mi appartiene più?
Ho scoperto solo da grande che mio nonno era un violento e, quando l’ho scoperto, lui era troppo vecchio per sembrarlo davvero e io ancora troppo piccola per accettarlo. A quattordici anni, mentre lo osservavo accarezzare il cane e giocarci come un bambino credevo che la cattiveria alla quale accennava ogni tanto mia madre fosse soltanto lo strascico di uno di quei suoi scatti rabbiosi in cui sbatteva qualcosa sul tavolo, estremizzato forse una volta per errore. Mia nonna non sembrava una donna sofferente, o meglio, non lo era affatto. Il suo corpo sì, era il racconto di una vita di lavoro (il naso storto che gli aveva rotto il calcio di un asino quando aveva cinque anni e andava a raccogliere il fieno, le mani rovinate dall’acqua e dalla catena di montaggio, ruvide come uno scoglio) ma la sua voce diceva altro. Senza il lessico giusto riusciva a esprimere tutto ciò che aveva in testa, a dare un valore a ogni azione, a essere buona anche con chi non lo meritava. Essere analfabeta era sì una vergogna, ma non le aveva impedito di vivere e di crescere due figli, sviluppando delle strategie tutte sue. Nonostante lo scambio irreparabile tra zucchero e sale nei barattoli di latta, dettaglio non irrilevante quando ci si accingeva a fare il caffè nella sua cucina, Adele si era creata un itinerario di sopravvivenza molto preciso in mezzo alle parole, quelle assurde forme grafiche che non sapeva vedere ma di cui intuiva il potenziale. Ricordo di averla ammirata di nascosto una delle prime volte che la accompagnai al supermercato senza i miei genitori. Da sola, in mezzo alle corsie di un discount disordinato ricoperto di paste di grano duro e cibo per cani, si muoveva con estrema sicumera, afferrando pacchi di biscotti, confezioni rosse di caffè scontato e bagnoschiuma alla menta. Mentre la scrutavo da lontano, con la paura costante di perderla, mi aveva assalita di colpo la consapevolezza che lei non sapesse davvero cosa stava comprando. Lei, al contrario di tutte le persone lì dentro, non sapeva distinguere i nomi giocosi delle merendine e il loro aumento di prezzo motivato dalla pessima idea di togliere l’olio di palma, e nemmeno osservare la seduzione rosata dei prodotti femminili o scegliere con cognizione di causa tra le offerte 3+1 dei cartoni di latte a lunga conservazione.
Poi, senza il bisogno di chiederglielo, avevo capito: le lettere non erano altro che forme appoggiate su stralci di colori. Sgargianti o pallide che fossero, queste tinte costituivano una base d’appoggio sicura, sulla quale si ripetevano delle sequenze sempre uguali che lei, col tempo, aveva imparato a riconoscere. E alcuni marchi, forse proprio perché indirizzati a una parte di popolazione che ancora stentava a scomparire, avevano adottato una tattica inaspettata e lungimirante (alla quale mia nonna si era aggrappata con forza) scegliendo di non cambiare nulla nel packaging dei suoi prodotti più venduti. Così Adele e migliaia di altre nonne, fedeli non per scelta ma per sopravvivenza, avevano comprato per decenni la stessa lacca, lo stesso caffè, la stessa sottomarca di biscotti per noi ignari nipoti.
Questo speciale tipo di fedeltà mia nonna l’ha esercitata per tutta la vita non soltanto nella spesa settimanale di generi alimentari e sigarette (comprando rigorosamente MS morbide) ma anche in quello che ho sempre chiamato, sbagliando, amore per mio nonno. Le loro dinamiche coniugali per le quali un tempo provavo un magma ingenuo di tenerezza e venerazione, oggi mentre le ripenso mi fanno solo soffrire. Il loro quotidiano, che sembrava celare ben poco mistero, era composto da un’abitudine a dir poco perentoria. Al mattino, il caffè doveva essere pronto per Raffaele intorno alle 5, massimo cinque e mezza. La pasta al sugo e la carne arrostita andavano servite a giorni alterni, alle 11.30 e alle 18.30 precise. Poteva scendere in piazza da sola mezz’ora prima della messa ma con pochi soldi contati, una sorta di paghetta settimanale della pensione che si era guadagnata faticosamente, che si infilava in fretta nel reggiseno tra la parte alta della tetta e l’incavo dell’ascella. A volte metteva il rossetto rosso, ma lui non era d’accordo e in gioventù glielo aveva dimostrato nei modi più beceri. Si lamentava di tutto ciò che lei gli offriva con una dedizione tutt’altro che servile, ma fiera e stacanovista. Eppure, ogni tanto le dava una cosa strana che non era davvero una carezza (anche se a lungo così l’avevo fraintesa) ma un tocco netto, a metà tra un buffetto e uno schiaffo.
Fotografia di Raffaele inviata a mia nonna quando lavorava in Germania, senza data.
Dopo aver portato i sacchi neri pieni di lei fuori dalla porta d’entrata torno in bagno e, mentre annuso uno di quei rossetti stantii, inizio a strofinarmelo con foga sulla bocca, facendo attenzione a seguire lo stesso identico errore di Adele, fuoriuscendo dai bordi tra il labbro superiore e l’arco di cupido. Mi guardo allo specchio e capisco che non ho più l’età per concedermi di pensare a quella cosa come a una forma qualsiasi di amore. Me ne convinco pensando alla relazione tossica che una mia cara amica intesse con un uomo da più di cinque anni. Lui non è cattivo come si dice e nemmeno ignorante come mio nonno. E lei non è debole come si pensa e nemmeno innamorata come le piace credere. Ma, proprio come Adele, ha trovato troppo presto una sostanza d’attacco, nella quale si dissolve lentamente, senza fare rumore, e si dimentica ogni giorno che essere fedeli per sopravvivenza significa non esserlo affatto.
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