Il nostro rapporto simbiotico con la tecnologia ci mette alla mercé di esperti che spesso reiterano le gerarchie oppressive tipiche delle nostre società. Eppure, ci dice Milani, un’altra evoluzione tecnologica è ancora possibile.
IN COPERTINA e lungo il testo, Luca Pancrazzi, Scala (1993) – Olio su tela – AstA Pananti in corso
Questo testo è tratto da Tecnologie conviviali di Carlo Milani. Ringraziamo Eleuthera editrice per la gentile concessione.
di Carlo Milani
«Io non ci capisco niente di queste cose!», «Ti prego, solo per questa volta!», «A te non costa nulla!», «Tu sei capace!», «Ti ci vuole un minuto!».
Ho sentito molte volte affermazioni del genere, alternate in sequenze diverse ma sostanzialmente analoghe. Il dominio sta nei dettagli, o per meglio dire, nei minimi, singolari accantonamenti di potere che generano un accumulo di potere stratificato e strutturato in maniera gerarchica, capace di farsi passare per ovvietà, logica espressione del buon senso comune, naturale stato delle cose. Il dominio tecnico non sorge per caso, per accidente imprevisto, per destino ineluttabile. Il dominio si costruisce un passo alla volta, come evoluzione, composta da un’incessante selezione di caratteri tecnici adeguati a svilupparne gli elementi base presso gli esseri umani che si relazionano con esseri tecnici appositamente concepiti.
Elementi costitutivi per la strutturazione del dominio sono, ad esempio, la propensione alla delega cieca all’autorità, alla sottomissione, all’obbedienza e al conformismo; l’acquiescenza nei confronti della gerarchia. I caratteri tecnici selezionati in serie successive di strumentazioni tecniche perfezionano l’alienazione tecnica, la approfondiscono perché tendono a favorire comportamenti umani adeguati alle strutture di dominio, tipicamente concatenati in automatismi inconsapevoli, presentati come naturali, ovvi e inevitabili, da apprendere per rapportarsi correttamente alla macchina. In questo modo, nel corso del tempo, si verifica un rafforzamento di determinati tratti, ritenuti adeguati e per questo selezionati per moltiplicarsi nei mille rivoli del dominio che vanno a costituire la co-evoluzione tecnica dominante.
Il momento del guasto sembra essere cruciale per rivelare le relazioni di potere che intercorrono fra gli attori dell’interazione tecnica; perciò prenderemo sul serio queste formule di ricorso all’expertise, per quanto appaiano banali, analizzandone i presupposti e gli agiti impliciti, oltre che il significato esplicito.
Da una parte, le persone inesperte si sminuiscono, minimizzano le proprie competenze: «Non capisco, sono ignorante, non ci arrivo». Rimane sottinteso un ragionamento relativo al prezzo da pagare per mantenere una relazione soddisfacente con la macchina: implicitamente, non si dà il caso di una libera relazione consensuale, non prezzolata. Infatti, di fronte alla ritrosia dell’esperto, scatta la recriminazione: «Cosa ti costa? A me costa molto! Invece a te, che sei esperto, non costa nulla». Così, quando l’accento si sposta sull’esperto, il ragionamento sul costo relazionale si fa esplicito: «O esperto, tu sei capace, e questa superiore capacità implica che impieghi meno tempo ed energia rispetto a un non esperto per ripristinare il guasto. Ripristinare una relazione soddisfacente è meno oneroso per te, o esperto»! La continuità di attitudine è evidente: si sminuiscono le energie che l’esperto dovrebbe spendere, minimizzandone la fatica.
Di fronte alla fatica prospettata dal guasto, si affida a qualcun altro il compito di ripristinare il potere tecnico sotto forma di norma comportamentale dello strumento; si effettua cioè una delega. Come spesso accade, l’etimologia aiuta a capire la posta in gioco. Delegare, dal latino de-legare, significa mandare legato, deputare; la particella «de» indica un movimento di allontanamento. Delegare perciò significa allontanare da sé la macchina guasta, affidarla alle cure di qualcun altro, con l’accordo che ce la restituirà funzionante.
-->La delega tecnocratica è un meccanismo complesso, attivato da diverse leve, ma con uno schema ricorrente abbastanza semplice che in definitiva coincide con un aumento dell’alienazione tecnica, della lontananza ed estraneità fra esseri umani ed esseri tecnici. Il tema sottostante è sempre lo sforzo necessario per ripristinare il guasto, o, più in generale, per nutrire la relazione con gli esseri tecnici. Infatti, al di là del momento forte rappresentato dalla crisi del guasto, la delega tende a reiterarsi a livello di comportamento individuale, fino a diventare costume sociale diffuso. Tende a pervadere ogni istante delle relazioni fra esseri umani ed esseri tecnici, a farsi regola, a strutturarsi in una gerarchia organizzata in livelli fissi.
La più comune giustificazione addotta per la delega tecnocratica tira in ballo la conoscenza e la specializzazione. Dice il buon senso comune: non si può saper tutto, bisogna pur fidarsi degli specialisti, di chi ha maggiore autorità in un certo ambito. Anche Bakunin concorda:
Respingo forse ogni autorità? Lungi da me questo pensiero. Allorché si tratta di stivali, ricorro all’autorità del calzolaio; se si tratta di una casa, di un canale o di una ferrovia, consulto quella dell’architetto o dell’ingegnere. Per ogni scienza particolare mi rivolgo a chi ne è cultore. Ma non mi lascio imporre né il calzolaio, né l’architetto, né il sapiente. Li ascolto liberamente e con tutto il rispetto che meritano le loro intelligenze, il loro carattere, il loro sapere, riservandomi nondimeno il mio diritto incontestabile di critica e di controllo1.
Il vecchio Bakunin ha spesso ottime argomentazioni e questa non fa eccezione. L’autorità nel senso di autorevolezza dell’artigiano competente non è in discussione. Dobbiamo però fare la tara a questo discorso, espungendo l’afflato positivista ottocentesco che tende a presentare la scienza come una sorta di religione laica. La pratica della ricerca scientifica è molto spesso retta da principi competitivi e da logiche di spartizione politico-finanziarie, da velleità personali, da motivazioni tutt’altro che nobili, da una volontà di prevaricare a scapito della collaborazione fra pari.
A livello pubblico, di comunicazione scientifica e politica, la conoscenza scientifica assume spesso una postura dichiaratamente pastorale, di guida delle masse ignoranti, mutuata dalla pratica religiosa del governo delle anime. La tecnoscienza è tutt’altro che la panacea di ogni male, soprattutto quando si presenta come unica via per la salvezza del mondo. Il governo tecnico è un governo che tende inevitabilmente all’autoritarismo, perché tende a rendere operative soluzioni tecniche basate su verità scientifiche, a loro volta presentate come fonti di autorità inoppugnabili. Sappiamo invece che l’avventura scientifica è una continua evoluzione e che le verità scientificamente provate oggi potrebbero essere riviste alla luce delle scoperte di domani.
D’altra parte, sappiamo che il diritto di critica e controllo può esprimersi in maniera perversa, come accade di fronte a questioni scientifiche controverse come l’energia nucleare, i ritrovati biomedicali (a cominciare dai vaccini), le manipolazioni genetiche e così via. In casi simili, il libero ascolto di posizioni contrastanti e conflittuali tende a cedere alla fascinazione per sedicenti esperti, moltiplicatisi al punto che in definitiva ciascuno tende a seguire le proprie inclinazioni e a trovarle confermate in una presunta critica (para)scientifica al discorso dominante. I motori di ricerca e i social network tendono a confermare e nutrire i pregiudizi umani, non a far maturare posizioni critiche, frutto di un accurato vaglio e selezione.
A ogni modo, tenendo presente queste precisazioni, potremmo aggiungere l’autorità dell’esperto informatico a questo elenco di autorità liberatorie? Potremmo annoverare l’autorità dell’esperto informatico fra quelle di abili artigiani, o di accorti scienziati, in grado di migliorare l’esistenza nel senso della reciproca libertà degli uguali? Nella stragrande maggioranza dei casi, purtroppo, no. La ragione è al tempo stesso semplice e complessa.
Semplice, perché è semplice comprendere intuitivamente la differenza fra un paio di scarpe che un calzolaio può riparare, ad esempio sostituendo un tacco usurato, e un computer che non risponde ai «normali» comandi del suo proprietario, il quale però non riesce nemmeno a spiegare bene in cosa consista il problema all’esperto informatico di turno. Quest’ultimo, a sua volta, magari è esperto di uno specifico tipo di dispositivi elettronici, equipaggiati con un certo software, ma non sa proprio come cavarsela di fronte ad altri modelli. Incomprensioni e malintesi sono la regola.
Ma al contempo la ragione è complessa, perché ha a che fare con la complessità delle concatenazioni reticolari e delle retroazioni sistemiche che rendono l’informatica tanto potente. Un potere sostanzialmente opaco perché eccessivamente (volutamente) complicato, appositamente progettato e realizzato in termini industriali per favorire la specializzazione e la delega tecnocratica. Nessun umano è in grado di comprendere davvero nei dettagli il funzionamento di un sistema informatico, con tutti gli strati di cui è composto, con tutte le implicazioni delle interazioni fra diversi livelli; né di contemplare tutti gli effetti scatenati da un’azione (magari inconsapevole, frutto di un automatismo comportamentale) compiuta da un agente umano con un banale dispositivo elettronico connesso alla rete globale. Si possono descrivere a grandi linee i comportamenti previsti, ma con un grado di affidabilità e completezza non paragonabile a quanto può accadere per la competenza del calzolaio rispetto all’interazione con le calzature, anche su diversi terreni e in circostanze meteorologiche differenti.
Diecimila ore di pratica è la misura comunemente assunta per indicare il tempo che occorre a un umano per diventare un «professionista» nel proprio campo. Senza assolutizzarla, questa misura può aver senso se ci si riferisce a un’attività nota, con un cursus studiorum magari definito in secoli di affinamento (dall’antichità alle corporazioni medievali fino alle discipline contemporanee) e una chiara sequenza di risultati che si deve essere in grado di raggiungere. Sempre a patto che esista un’attitudine, una volontà e un sostrato favorevole allo sviluppo di determinate abilità. A ogni modo, al di là del talento, della predisposizione e della conformazione fisica, con una pratica costante sotto la guida di insegnanti sensibili e disponibili a imparare insieme, è possibile senz’altro diventare artigiani provetti in moltissimi ambiti: calzolai, ma anche pittori, scultori, medici, giocatori di una determinata disciplina sportiva, musicisti, scrittori e così via.
Ma questa misura di diecimila ore per raggiungere una sorta di caratterizzazione identitaria professionale non ha alcun senso se riferita all’informatica, cioè a un’attività la cui unica costante, fin dalla sua comparsa a metà del xx secolo, è il radicale cambiamento continuo, l’espansione forsennata, l’integrazione sistematica con le strutture pre-esistenti, la ramificazione in una quantità abnorme di rivoli del tutto eterogenei fra loro. Forse, agli inizi del anni Novanta del xx secolo, quando Internet era affare di pochi e il web stava nascendo, con diecimila ore di pratica (dai tre ai cinque anni di impegno costante a tempo pieno) era possibile diventare esperti di informatica, nel senso di persone in grado di gestire la relazione con le apparecchiature informatiche esistenti in maniera soddisfacente. Questo però è assolutamente impossibile oggi, e in futuro ancora di più, man mano che compariranno nuovi esseri tecnici digitali. Sarà sempre più assurdo pretendere da un singolo individuo umano di padroneggiare quel che viene ascritto all’ambito dell’informatica. Per cui diventa, necessariamente, una questione sociale e collettiva. D’altra parte, un convivio non si fa in solitudine: è logico che le competenze e le capacità individuali acquisiscano un valore effettivo solo in combinazione con quelle altrui.
In primo luogo perché il sostrato materiale cambia rapidamente, ad esempio con la comparsa di dispositivi del tutto nuovi, con caratteristiche peculiari. I cosiddetti telefoni furbi (smartphone) con schermo tattile non esistevano prima del 2007; in poco più di un decennio sono diventati di gran lunga i principali mediatori delle connessioni umane alla rete di Internet. Ma un esperto informatico potrebbe tranquillamente ignorarne (quasi) l’esistenza, o comunque non aver maturato particolari abilità con quei dispositivi, perché magari si dedica alla concezione e gestione di macchine virtuali ospitate su server remoti, o si occupa della progettazione di linguaggi informatici e protocolli di alto livello a prescindere dal sostrato meccanico.
In secondo luogo perché le reti informatiche sono composte di molti strati complessi che interagiscono fra loro in maniera estremamente rapida, con retroazioni cibernetiche, per cui anche gli esseri umani fanno parte di queste reti in maniera diversa rispetto a quanto avviene nelle relazioni con i classici utensili «semplici» (martello, forbice, ecc.) o con le macchine «complesse» (automobile, bicicletta, ecc.). Da portatore di utensili abbastanza chiaramente distinguibile dagli utensili stessi, l’essere umano tende a diventare ingranaggio di un sistema complesso, integrato quanto ogni altro elemento meccanico, elettrotecnico, chimico.
In realtà, la dinamica interattiva di fondo è simile a prescindere dalla complessità tecnica, perché da parte umana è pur sempre necessario mettere a punto automatismi cognitivi (apprendistato tecnico) per interagire in maniera soddisfacente con gli esseri tecnici. Non ci domandiamo «come funziona questo affare?» ogni volta che afferriamo un martello, e nemmeno «che diavolo è questa leva?» ogni volta che guidiamo un’automobile: meno male, altrimenti finiremmo con le dita pestate o schiantati.
Dalla cibernetica all’informatica industriale
Certamente l’automobile non ha senso senza la rete stradale, né il treno senza la rete ferroviaria; entrambe sono strutture reticolari complesse, innervate dalla distribuzione di comunicazioni e controlli per regolarne i flussi informativi e quindi la circolazione di veicoli. A partire dagli anni Quaranta del xx secolo è stato impiegato il termine cibernetica per designare lo studio dei fenomeni di controllo e comunicazione e in particolare l’invio di messaggi di comando effettivo, cioè di messaggi che modificano il comportamento di ciò che riceve il messaggio stesso (umano o non umano). Oggetto di studio della cibernetica è l’adattamento reciproco fra esseri viventi ed esseri non viventi in termini di autoregolazione dei sistemi. La cibernetica è nata in un’epoca in cui l’informatica era più teoria che pratica incarnata in apparecchiature concrete.
L’intensità dei cicli di adattamento (reciproco) nelle reti informatiche globali è notevolmente maggiore rispetto alle reti analogiche precedenti, come autostrade, ferrovie e fogne. La mia tesi è che siano preponderanti le dinamiche di esattamento tossico, orientato all’aumento di automazione e preordinato a scopi di lucro e dominio a livello individuale e collettivo, rispetto a dinamiche di adattamento/esattamento non orientate al dominio. Esattamento (o exattamento) è una traduzione dell’inglese exaptation, che grossolanamente possiamo figurarci come evoluzione che procede dall’organo alla funzione.
In termini più tecnici, nell’esattamento un carattere, o un insieme di caratteri (sotto forma di organo complesso), precedentemente plasmato dalla selezione naturale per una particolare funzione (adattamento), viene cooptato per un nuovo uso, cioè per svolgere funzioni prima inesistenti. Oppure, un carattere (o un insieme di caratteri, specie sotto forma di organo complesso) viene cooptato per un uso attuale, cioè per svolgere una funzione già esistente ma attraverso una nuova sequenza, in un modo nuovo; l’origine di tale carattere (insieme di caratteri, organo) non può essere direttamente ascritta alla selezione naturale, ma piuttosto a una variazione conservata per altre ragioni più o meno casuali (quindi un non adattamento).
Gli esattamenti differiscono radicalmente dagli adattamenti, che procedono dalla funzione all’organo, per cui la selezione naturale (o tecnica) plasma un carattere per un uso attuale, per svolgere in maniera più adeguata (con meno sforzo, in modo più efficiente ed efficace) una funzione già esistente e individuata.
Gli esattamenti sono parte dell’evoluzione naturale da sempre, e sono assolutamente fondamentali, al pari degli adattamenti. Dal punto di vista dell’analisi del potere non c’è soluzione di continuità fra esseri naturali ed esseri artificiali, fra esseri organici ed esseri inorganici, fra esseri viventi ed esseri non viventi. Propongo quindi di considerare esattamenti e adattamenti come elementi primari dell’evoluzione tecnica fin da quando il primo strumento tecnico è stato messo a punto da un nostro antenato australopiteco. Questo per evidenziare che non si tratta di un fenomeno nuovo, sorto improvvisamente con l’era digitale, ma di un continuum evolutivo che però ora si presenta come straordinariamente sbilanciato dalla parte dell’evoluzione di sistemi tecnici orientati al dominio. Non è cambiata la sostanza, ma è cambiata la rapidità, l’intensità, la scala e le reazioni sistemiche dell’adozione di determinati adattamenti ed esattamenti tecnici.
Nel caso delle reti attuali, la selezione di caratteri che il sistema individua come desiderabili avviene quindi secondo dinamiche più intense, rapide, dirompenti rispetto agli esattamenti tecnici fin qui noti. Inoltre avvengono su scala industriale globale, con effetti a catena a ogni livello della scala, dal comportamento del singolo individuo umano alla linea di montaggio dei dispositivi elettronici, alle contese geopolitiche per il controllo e l’estrazione delle materie prime (terre rare, litio, ecc.). La sensazione di disagio e alienazione tecnica è principalmente riconducibile alla forzatura orientata al dominio di selezioni evolutive tramite esattamenti tecnici tossici delle relazioni fra esseri umani ed esseri tecnici.
Discuterò nel prossimo paragrafo i meccanismi di selezione tecnica tramite esattamento teso all’automatismo. Importa ora aver ben chiaro che, per funzionare, nel senso di presentarsi in maniera fluida e reattiva alle interazioni umane, la rete globale di Internet necessita di una quantità di expertise irriducibile al singolo esperto e persino a una categoria specifica di esperti. Anche gli esperti effettuano deleghe ad altri esperti, di cui si fidano per conoscenza diretta o più spesso ai quali sono costretti ad affidarsi giocoforza, serrando sempre più le maglie di una catena senza fine in cui gli umani tendono ad affidarsi ciecamente ai dispositivi con cui vivono, da cui le loro vite in effetti dipendono in maniera crescente. Quando il flusso interattivo incontra qualche ostacolo, ecco insorgere l’ira, la frustrazione, la noia.
Certo, l’umano si affida da sempre a ritrovati tecnici per abitare il mondo. Una volta si ricorreva a mappe del territorio per orientarsi, e a enciclopedie cartacee per trovare definizioni. Oggi siamo nell’era digitale, perciò può sembrare naturale progresso tecnico (un’espressione che è un concentrato di assurdità e pregiudizi!) il fatto che navigatori digitali intelligenti sopperiscano al senso dell’orientamento umano, o che i motori di ricerca (magari consultati con assistenti vocali altrettanto intelligenti) semplifichino il recupero di informazioni.
Ma, al di là della contrapposizione poco illuminante fra analogico e digitale, sussistono differenze fondamentali fra la consultazione della mappa e quella del navigatore digitale. Si tratta di operazioni che implicano tipologie di fiducia molto diverse per intensità e soprattutto per il ritmo relazionale, per la frequenza di scambi impliciti in procedure apprese in maniera perlopiù inconsapevole dagli agenti umani. Infatti questi ultimi raramente sanno spiegare come hanno appreso a interagire con gli esseri digitali, pur avendoci a che fare senza difficoltà quotidianamente. Nessun corso di perfezionamento, nessuna scuola, nessun apprendistato: si evoca invece l’intuitività di alcune interfacce, la semplicità di determinate procedure e dispositivi, che di intuitivo e semplice non hanno assolutamente nulla. Spesso viene invocata una predisposizione all’interazione tecnica che sa di predestinazione nascosta, variamente mescolata a considerazioni scientificamente infondate sull’essere nativi o immigranti digitali. Invece è dimostrato e dimostrabile che qualsiasi essere umano dotato di determinate caratteristiche fisiche (principalmente, una corteccia cerebrale che risponde a determinate sollecitazioni visive), a prescindere dall’età anagrafica può maturare relazioni di familiarità con sistemi tecnici digitali e sviluppare abilità solitamente considerate appannaggio dei cosiddetti nativi digitali. Al punto da poter sviluppare anche dinamiche di abuso.
Dal punto di vista materiale, si tratta di sviluppare dinamiche di interazione diverse per quanto riguarda i mediatori tecnici chiamati in causa (cartine, software presentati da schermi digitali, volumi enciclopedici e così via), così come per le abilità richieste: leggere una cartina geografica, interagire con un software di navigazione o consultare un’enciclopedia cartacea. Non dipende dall’età, ma dalla motivazione, dall’occasione, dal contesto e così via.
In ogni caso, la delega all’operato dell’esperto, da temporanea e revocabile, tende a diventare delega all’operato dell’essere tecnico fissa e irrevocabile; anzi, delega continuamente reiterata e aumentata di grado e intensità, in un crescendo di alienazione tecnica. Questo avviene sotto una duplice pressione. Da una parte, per via delle caratteristiche intrinseche dei sistemi informatici attuali, frutto della predazione dissennata delle risorse (materie prime naturali e sfruttamento della manodopera ridotta a risorsa umana): questi sistemi mirano a riprodurre strutture operative e comunicative gerarchiche, implementate con modalità opache per l’utente e orientate all’estensione illimitata dei regimi di mercato. Dall’altra, per via della propensione al dominio maturata da alcuni millenni dagli esseri umani. Una propensione che si nutre non solo della brama di comando dispotico, ma anche e soprattutto del desiderio di sottomissione, dell’ansia di obbedire, della scarsa volontà di prendersi cura della faticosa gestione della tecnica.
Gli straordinari poteri che scaturiscono dall’interazione con gli esseri tecnici sono estremamente appetibili per chiunque, e sono facile preda di chi è in grado di assicurarsi l’obbedienza degli esperti che, dopotutto, sono pur sempre esseri umani. Così la gerarchia esistente si trova inequivocabilmente rafforzata ogni qual volta un esperto si conforma alle relazioni di comando/obbedienza; per converso, viene indebolita dal rifiuto degli esperti di collaborare al sistema di dominio esistente, ma può essere dissolta solo se molti più esseri umani si fanno carico del sistema tecnico, disertando le «normali» subordinazioni dispotiche.
In concreto, la delega tecnica tende a farsi alienazione tecnica strutturale nel caso del guasto, perché sono necessari diversi esperti per venire a capo del problema; esperti subordinati fra loro in sistemi gerarchici: lo abbiamo già visto nel caso dell’iPhone nel primo capitolo. Ma questo accade anche nel caso del funzionamento regolare. Questa percepita normalità della delega alienante è molto più grave dal punto di vista libertario. Quella che viene percepita come ovvia normalità è in effetti il prodotto dell’azione coordinata di un’enorme quantità di sistemi che richiedono una quantità straordinaria di controlli e monitoraggi (retroazioni cibernetiche) da parte di umani e non umani, ovvero cure specifiche da parte di esperti di vario tipo. Cure per i cavi sottomarini in fibra ottica percorsi dalla luce che, come abbiamo visto, costituiscono l’ossatura stessa della rete; cure per l’assemblaggio industriale dei dispositivi a partire da una miriade di componenti; cure necessarie per la programmazione dei software (dal codice sottostante fino alle interfacce utente), che consentono l’interazione umana; cure indispensabili per risolvere errori, effettuare aggiornamenti e regolari manutenzioni. Cure prodigate quasi sempre sotto l’egida di sistemi gerarchici per nulla disposti a lasciar spazio alla convivialità; cure obbligate dall’obsolescenza programmata dei sistemi, imposte come abitudine di co-dipendenza tossica dall’ignoranza e dalla noncuranza generalizzata.
La rete di Internet è molto più complessa di qualsiasi altra rete tecnica mai realizzata, più che altro perché tende a interagire in maniera sistemica con le reti già esistenti, inglobandole così in una rete più ampia: si pensi alle lavatrici «intelligenti» e agli altri dispositivi della cosiddetta Internet delle Cose (iot, Internet of Things), elettrodomestici e altri oggetti connessi in rete, gestibili da remoto. La delega strutturale ai tecnocrati sembra essere inevitabile, e in effetti lo è, almeno per come si è evoluta e strutturata oggi.
Delegare a livello tecnico significa investire qualcun altro della propria autorità nei confronti di quel sistema/strumento; significa dare ad altri il proprio potere. Nel caso dei computer è molto evidente: consegniamo le parole d’ordine, le password per accedere al dispositivo e poterlo comandare; al contempo, diamo mandato all’esperto di fare qualsiasi cosa sia necessaria per ripristinarne il funzionamento.
Gli esperti di organizzazioni gerarchiche spiegano come effettuare deleghe in maniera corretta, cioè, dal loro punto di vista, in modo da massimizzare l’effetto della delega stessa, per moltiplicare il potere diffuso e poterlo poi riassorbire, accumulandolo e rinsaldando in tal modo la gerarchia stessa, la lealtà nei confronti dell’autorità dei dominanti da parte dei subordinati. Nel caso della delega tecnica strutturale, la nostra domanda invece rimane: è possibile delegare bene, in senso libertario, cioè in modo da aumentare la diffusione del potere, della capacità di intervenire nella messa in opera di norme condivise, ma di evitare al contempo il fortificarsi delle relazioni di dominio?
La risposta breve è: sì, se riusciamo a far circolare la conoscenza, ovvero la linfa stessa che nutre le relazione all’interno di una rete. Dobbiamo ricordare che lo strumento è diverso dalla rete, il dispositivo non è la rete, e d’altra parte la rete si riconfigura continuamente, è un processo di ontogenesi, di creazione di esistenza incessante, proprio perché si evolve attraverso la selezione di caratteristiche reputate adatte. Ma al tempo stesso dobbiamo tenere presente che possiamo separare gli strumenti che compongono una rete solo in maniera astratta, per comodità di studio; lo stesso vale per la separazione netta fra elementi tecnici e umani che partecipano a una stessa rete.
Per delegare bene, è necessario che le conoscenze circolino il più possibile, non solo e non tanto come sapere astratto, applicabile a ogni situazione, ma come competenze di cui ci si può impratichire sotto forma di esperienze sempre e comunque uniche, individuali. Devono circolare anche (soprattutto!) quando sono spurie, incomplete e magari insoddisfacenti. Non dobbiamo perdere di vista il percorso; è fondamentale riuscire a goderci il viaggio e maturare l’abilità di cogliere il momento opportuno, il kairos come direbbero i filosofi antichi. Dobbiamo invece evitare di concentrarci sull’obiettivo e sul risultato atteso che, nei fatti, è piuttosto nebuloso e in ogni caso difficile da esprimere in maniera precisa senza sporcarsi le mani con la cura per e insieme agli esseri tecnici.
È fondamentale divertirsi, non prenderla troppo sul serio, altrimenti invece di un piacevole e appassionante convivio ci ritroveremo immersi in uno sfiancante sforzo per convincere, sopraffare, cooptare e sottomettere gli altri ai nostri obiettivi.
Al tempo stesso, è necessario evitare di contribuire ai sistemi tecnocratici esistenti, cosa che potrebbe sembrare in contraddizione con la libera circolazione delle conoscenze, ma che in realtà non lo è affatto. Libero non significa assolutamente libero, ma relativamente libero, in relazione a qualcosa e qualcuno. Non c’è libertà possibile senza condivisione del potere. Gli accumulatori seriali di potere, che forzano l’evoluzione tecnica nella direzione del dominio, ovvero i sistemi tecnoindustriali, vanno semplicemente disertati, abbandonati e distrutti.
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