La parola “complessità” è una parola la cui troppa pienezza ne fa una parola vuota. Più essa viene utilizzata, più il suo vuoto aumenta. C’è quindi una sfida della complessità: essa si ritrova in ogni conoscenza, quotidiana, politica, filosofica e, in maniera ormai acuta, nella conoscenza scientifica. Essa si espande, come vedremo, anche sull’azione e sull’etica.
In copertina e nel testo, Cottlesbridge Landscape, Dale Hickey
Questo è articolo un estratto di “La sfida della complessità” pubblicato da Le Lettere.
di Edgar Morin
La parola complessità è sempre più diffusa e per questo la complessità sembra sempre più riconosciuta. Questo riconoscimento della complessità ci fa non chiarire, ma eludere i problemi che essa pone: dire “è complesso” è confessare la difficoltà di descrivere, di spiegare, è esprimere la propria confusione davanti a un oggetto che comporta troppi tratti diversi, troppe molteplicità e indistinzioni interne. I sinonimi di complesso sono, secondo il dizionario, «arduo, difficile, spinoso, confuso, ingarbugliato, contorto, aggrovigliato, intrecciato, indecifrabile, inestricabile, oscuro, faticoso». La parola complessità esprime contemporaneamente la situazione contorta della cosa designata e l’imbarazzo di chi parla, la sua incertezza nel determinare, chiarire, definire e, infine, la sua impossibilità di farlo. La parola complessità, nel suo uso banale, significa tutt’al più «non è semplice, non è chiaro, non è bianco né nero, non bisogna fermarsi alle apparenze, ci sono dubbi, non si sa bene». La parola complessità, in conclusione, è una parola la cui troppa pienezza ne fa una parola vuota. Più essa viene utilizzata, più il suo vuoto aumenta.
C’è quindi una sfida della complessità. Essa si ritrova in ogni conoscenza, quotidiana, politica, filosofica e, in maniera ormai acuta, nella conoscenza scientifica. Essa si espande, come vedremo, anche sull’azione e sull’etica.
La dissoluzione della complessità
L’incapacità di riconoscere, trattare e pensare la complessità è un risultato del nostro sistema educativo. Questo ci insegna a convalidare ogni percezione, ogni descrizione, ogni spiegazione in base alla chiarezza e alla distinzione. Ci inculca un modo di conoscenza emerso dall’organizzazione delle scienze e delle tecniche nel XIX secolo, che si è esteso all’insieme delle attività sociali politiche e umane. In tutti i campi, esso astrae, cioè estrae un oggetto dal suo contesto e dal suo insieme, rifiutandone i legami e le intercomunicazioni con il suo ambiente, l’inserisce in un compartimento che è quello della disciplina le cui frontiere spezzano arbitrariamente la sistemicità (la relazione di una parte con il tutto) e la multidimensionalità dei fenomeni; esso conduce all’astrazione matematica che opera di per se stessa una scissione con il concreto, privilegiando tutto ciò che è calcolabile e formalizzabile. Disgiunge e compartimenta i saperi, rendendo sempre più difficile la loro contestualizzazione. Ci induce a ridurre la conoscenza degli insiemi complessi agli elementi che li costituiscono e, come afferma Piaget, «a considerare come semplice ciò che appare tale attraverso la dissociazione del complesso». Ci insegna che dietro l’apparente complessità dei fenomeni si nascondono le semplici leggi della natura, e che si tratta di strutture anonime che operano attraverso la singolarità concreta degli esseri umani e della loro società. Anche il concetto fondamentale di determinismo fa dell’incertezza non una delle caratteristiche del nostro modo di rapportarci all’universo, ma lo stato provvisorio d’ignoranza di un Ordine nascosto. Nello stesso tempo esso giustifica l’applicazione della sua logica meccanica ai problemi viventi, umani, sociali.
Così, isolando e/o frammentando i suoi oggetti, questo modo di conoscenza cancella non solo il loro contesto, ma anche la loro singolarità, la loro località, la loro temporalità, il loro essere e la loro esistenza. Esso tende a spolpare il mondo. Riducendo la conoscenza degli insiemi alla somma dei loro elementi, indebolisce la nostra capacità di accorpare le conoscenze; più generalmente, atrofizza la nostra attitudine a collegare (le informazioni, i dati, i saperi, le idee) a solo vantaggio della nostra attitudine a separare. Ora, una conoscenza può essere pertinente solo se situa il suo oggetto nel suo contesto e possibilmente nel sistema globale di cui fa parte, se crea una navetta che senza sosta separi e colleghi, analizzi e sintetizzi, astragga e reinserisca nel concreto.
Certo, ogni conoscenza comporta la sua parte più o meno grande di decomplessificazione, nel senso in cui essa elimina come non significativi, contingenti, epifenomenici, un certo numero di tratti del fenomeno considerato. Ma noi siamo educati a una iper-semplificazione, che scarta tutto ciò che non rientra nello schema della riduzione, del determinismo, della decontestualizzazione.
L’intelligenza cieca
Da ciò un’intelligenza cieca che ha invaso tutti i settori tecnici politici e sociali.
-->Così l’economia, che è la scienza sociale matematicamente più avanzata, è la scienza socialmente e umanamente più arretrata, poiché si è tratta fuori dalle condizioni sociali, storiche, politiche, psicologiche, ecologiche inseparabili dalle attività economiche come anche dalle decisioni, strategie, innovazioni, invenzioni che vi intervengono (Morgenstern 1972). Maurice Allais afferma giustamente: «In economia tutto dipende da tutto, tutto agisce su tutto». E von Hayek: «Nessuno può essere un grande economista se è solo un economista». Egli aggiunge anche che «un economista che è solo economista diventa nocivo e può costituire un autentico pericolo». Questo è il motivo per cui gli economisti sono sempre più incapaci di prevedere e predire il corso economico anche a breve termine. La scienza economica classica costruisce la sua disciplina come un sistema chiuso, e solo una minoranza di economisti “aperti”, da Perroux a Passet, opera per spezzare questa chiusura. Morgenstern mostra che la nozione di prodotto nazionale lordo registra ciecamente come accrescimento positivo ogni cattivo funzionamento del sistema (aumento degli ingorghi, quindi del consumo di carburanti, quindi delle loro emissioni, quindi delle spese sanitarie).
C’è un’associazione sorprendentemente antinomica tra le meravigliose opere venute fuori dalla razionalità tecnica, come i grandi ponti, i grandi tunnel, le dighe monumentali, gli aerei supersonici, i razzi spaziali e la cecità sulle conseguenze umane, sociali e culturali di tali opere. L’assenza di contestualizzazione determina una razionalità chiusa, o razionalizzazione. Così la razionalizzazione astratta e unidimensionale trionfa sulla terra. In Africa l’agronomia detta razionale ha potuto sviluppare grandi sfruttamenti di monocolture a rendimenti superiori, ma essa ha distrutto l’agricoltura di sussistenza, tutto un tessuto concreto di relazioni sociali, ha condannato le popolazioni alle bidonvilles o all’emigrazione. Gli ingegneri hanno pianificato con grande efficacia l’ammirevole diga d’Assuan per produrre elettricità e regolare il corso del Nilo, ma la diga ha trattenuto una parte del limo che fertilizzava la bassa valle e una parte dei pesci che nutrivano le popolazioni delle rive. Là, come altrove, il contesto umano, culturale, sociale è stato ignorato nei grandiosi programmi tecnici concepiti in modo astratto. I capolavori più monumentali di questa razionalità tecno-burocratica sono stati realizzati in URSS: si è per esempio deviato il corso dei fiumi per irrigare, anche nelle ore più calde, ettari senza alberi di colture di cotone, donde la salinizzazione del suolo per risalita, l’evaporazione delle acque sotterranee, il prosciugamento del Mare di Aral. Sfortunatamente, dopo la caduta dell’Impero, i nuovi dirigenti hanno fatto appello a degli esperti liberali dell’Ovest i quali, ignorando deliberatamente che un’economia concorrenziale di mercato ha bisogno di istituzioni, di leggi e di regole, non hanno elaborato l’indispensabile strategia complessa che avrebbe operato una trasformazione a costi umani inferiori. Infatti il programma economico liberale è stato puramente e semplicemente sostituito al programma statale. E là, come altrove, secondo una legge di Gresham, stabilita da H. Simon, l’attività programmata scaccia l’attività non programmata.
In medicina progressi eclatanti sono stati compiuti, e continuano a esserlo, nell’eliminazione o nella riduzione di epidemie, nella moltiplicazione dei vaccini, nei trapianti d’organi, negli sviluppi prodigiosi della chirurgia, nelle prime tappe della medicina predittiva, ma l’iperspecializzazione medica produce numerosi effetti nocivi: gli organi sono trattati indipendentemente gli uni dagli altri e indipendentemente dal corpo. Così i rimedi che guariscono un organo determinano spesso nuovi mali in altri organi e, a causa della stessa decontestualizzazione, i medicamenti producono le malattie dette iatrogene. Il corpo stesso è concepito come un’entità somatica chiusa che dipende solo dal trattamento chimico. Il corpo è così dissociato dallo spirito e lo spirito è trattato dalla psichiatria o dalla psicoanalisi per se stesso, indipendentemente dal contesto familiare, culturale, sociale. Il medico generico, che ha la possibilità di collegare gli organi al corpo, il corpo allo spirito e quest’ultimo all’ambiente familiare e culturale, giocava infatti proprio questo ruolo in passato, quando conosceva personalmente, psicologicamente, familiarmente e in modo continuo le sue pecorelle.
Oggi, il medico generico delle città è diventato non il direttore d’orchestra che conosceva la partitura di tutti gli strumenti, ma l’esperto di scala minore che smista i suoi clienti, dei quali il più delle volte non ha che una conoscenza rapida e superficiale, presso specialisti e strutture radiologiche ed ecografiche. Certo, una reazione ha cominciato a sorgere in questo campo come in molti altri e si assiste alla diffusione della nozione psico-somatica che prende in considerazione non solo l’effetto mentale delle malattie del corpo, ma l’effetto corporeo dei disturbi mentali; si assiste anche alla diffusione della psicoterapia familiare o di gruppo. Ma non siamo ancora giunti a considerare i nostri mali metodicamente, nelle loro caratteristiche bio-psico-sociali. Non si sono ancora istituiti né gli apparati né i modi di pensare che permetterebbero di operare questi collegamenti.
Ora, la filosofia era il tipo di pensiero che avrebbe permesso di collegare le conoscenze, di risituarle nel concreto e nella complessità e di apportarvi la capacità di riflessione globale di cui sono sprovviste le intelligenze puramente specializzate. Ma una grande disgiunzione ha separato scienza e filosofia e il mulino della filosofia, cessando di trarre alimento dalle scienze, e in particolare dalle conoscenze chiave sul mondo, sulla realtà fisica, sulla vita, sulla società, gira a vuoto, dedicandosi essenzialmente a macinare la sua stessa sostanza, il che del resto comporta la sua fecondità, ma rompe con una delle sue missioni tradizionali, quella di pensare e riflettere sui saperi acquisiti dalle scienze.
In molteplici ambiti, quindi, l’intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista spezza la complessità del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è collegato, unidimensionalizza il multidimensionale. È un’intelligenza contemporaneamente miope, presbite, daltonica, guercia; essa finisce nella maggior parte dei casi per essere cieca. Distrugge sul nascere le possibilità di comprensione e di riflessione, eliminando anche tutte le possibilità di un giudizio corretto o di una visione a lungo termine. Così, più i problemi divengono multidimensionali, più vi è l’incapacità di pensare la loro multi-dimensionalità; più i problemi divengono planetari, più essi divengono impensati; più progredisce la crisi, più progredisce l’incapacità di pensare la crisi. Incapace di esaminare il contesto e il complesso planetario, l’intelligenza cieca rende incoscienti e irresponsabili. Essa crede nella pertinenza e nell’affidabilità delle sue attività programmatrici che spesso ignorano le condizioni, i limiti e le possibilità del contesto di queste attività.
Da tutto ciò risultano catastrofi umane le cui vittime e le cui conseguenze non sono né quantificate né assicurate, come lo sono invece le vittime delle catastrofi naturali.
Da dove proviene la certezza di questo modo di pensare così poco sensibile alle cecità e ai disastri che esso provoca?
Come vedremo adesso, da “quattro pilastri di certezza”.
I pilastri di certezza
Fino all’inizio del XX secolo – in cui entra in crisi – la scienza “classica” si è fondata su quattro pilastri di certezza, che hanno per causa ed effetto di dissolvere la complessità attraverso la semplicità: il principio d’ordine, il principio di separazione, il principio di riduzione, il carattere assoluto della logica deduttivo-identitaria.
Questi quattro pilastri hanno generato un tipo di conoscenza che ha esteso il proprio impero dalle scienze fisiche alle scienze umane, dalle scienze alle tecniche – ormai associate in tecno-scienze – da queste alle istituzioni industriali, burocratiche, private e pubbliche, e così questo impero si è ingrandito fino alle dimensioni stesse del nostro mondo contemporaneo.
• Il pilastro “d’ordine” postula che l’Universo è governato da leggi imperative. Il loro carattere assoluto deriva dall’origine della monarchia assoluta, umana e/o divina. Fino a Newton, è la perfezione divina che garantisce la perfezione delle Leggi della Natura; in seguito, essendo Dio stato ridotto alla disoccupazione tecnologica dalla scienza del XIX secolo, l’Ordine si fonda su se stesso, o piuttosto è il mondo concepito come macchina perfetta che acquista l’assolutezza strappata a Dio.
Dalla sovranità dell’ordine deriva dunque una concezione deterministica e meccanicistica del mondo. Ogni disordine, ogni caso apparenti sono considerati come carenze della nostra conoscenza o come un effetto della nostra ignoranza provvisoria.
Dietro questo disordine apparente, c’è un ordine nascosto da scoprire, ed è la ricerca multiforme, ossessiva dell’ordine nascosto delle leggi della natura che ha condotto alle grandiose scoperte della scienza fisica, da Newton ad Einstein.
• Il secondo pilastro, quello del principio di separabilità, è costituito dal principio secondo il quale è necessario, per risolvere un problema, scomporlo in elementi semplici. (II regola del Discorso sul metodo: «dividere ogni difficoltà che esaminerò in tante parti quante si potrà, è ciò che è richiesto per meglio risolverla»). Questo principio analitico è certo pertinente, ma vi manca semplicemente la consapevolezza della difficoltà che pone l’insieme in quanto insieme. Il principio di separabilità si è imposto nell’ambito scientifico attraverso la specializzazione, degenerando poi in iperspecializzazione e in compartimentazione disciplinare in cui gli insiemi complessi, come la natura o l’essere umano, sono stati frammentati in parti non comunicanti. Ciò ha prodotto:
– la separazione tra le grandi scienze e, all’interno di queste scienze, tra discipline tendenti a richiudersi su se stesse; si è quindi diffusa la specializzazione delle tecniche e infine delle scienze umane secondo gli stessi principi, il che ha condotto a una parcellizzazione generalizzata del sapere;
– l’isolamento degli oggetti dal loro ambiente e l’auto-sufficienza di detti oggetti;
– la separazione dell’oggetto di conoscenza dal conoscente, da cui il dogma di una conoscenza che sia lo specchio della realtà oggettiva, il che elimina il soggetto osservatore e concettore;
– la separazione tra scienza e filosofia, e più in generale tra la cultura umanistica e la nuova cultura scientifica, che si è compiuta nel corso del XIX secolo.
• Il terzo pilastro, quello del principio di riduzione, fonda l’idea che la conoscenza degli elementi di base del mondo fisico e biologico è fondamentale, mentre la conoscenza dei loro insiemi, mutevoli e diversi, è secondaria. Questo principio rafforza il principio di separabilità, che a sua volta rafforza il principio di riduzione. Più in generale, il principio di riduzione tende a ridurre il conoscibile a ciò che è misurabile, quantificabile, formalizzabile, secondo l’assioma di Galileo: i fenomeni non devono essere descritti che con l’aiuto di quantità misurabili. Di conseguenza la riduzione al quantificabile condanna a morte ogni concetto non traducibile attraverso una misura. Ora né l’essere né l’esistenza né il soggetto conoscente possono essere matematizzati o formalizzati. Ciò che Heidegger chiama “l’essenza divorante del calcolo” separa gli esseri, le qualità e le complessità, conducendo alla “quantofrenia” (Sorokin), e alla “aritmomania” (Georgescu-Roegen).
Il principio di riduzione anima tutte le imprese che cercano di dissolvere lo spirito nel cervello, di ricondurre il cervello al neurone, di spiegare l’umano attraverso il biologico, il biologico attraverso il chimico o il meccanico. Esso anima tutte le imprese che si occupano della storia e della società umana, facendo l’economia degli individui, della coscienza, degli avvenimenti.
Un riduzionismo analogo opera nella filosofia chiusa che si sforza di ridurre l’essenza della realtà in un concetto cardine e l’insieme della realtà in un sistema cardine.
• Il quarto pilastro è quello della logica induttivo-deduttivo-identitaria identificata con la Ragione. L’induzione, la deduzione e i tre assiomi identitari di Aristotele assicurano la validità, la coerenza e la validità formale delle teorie e dei ragionamenti. La nostra logica “classica” è nata in Grecia quattro secoli prima della nostra era; essa concerne i concetti, le proposizioni, le inferenze, i giudizi, i ragionamenti; i suoi fondamenti sono stati posti nell’Organon di Aristotele. Il nocciolo della logica classica ha assunto un valore universale e non trasgredibile nei sistemi razional-empirici classici.
Il ragionamento e la costruzione teorica si attuano logicamente per deduzione e induzione. La deduzione è il procedimento che trae le conseguenze o le conclusioni necessarie da premesse o proposizioni preliminari. L’induzione, che, al contrario della deduzione, parte da fatti particolari per arrivare ai principi generali, è in partenza il processo animale e umano più comune per l’acquisizione di una conoscenza generale. Limitandosi solo alla deduzione e all’induzione, la logica classica esclude dall’ambito logico ciò che è atto dell’invenzione e della creazione (cfr. “l’abduzione” di Peirce, formazione di ipotesi esplicative, e la “retroduzione” di Hanson, individualizzazione di un nuovo schema cognitivo, in cui si possono inquadrare dei fenomeni di diversa natura). Come dice Popper (1959) «l’atto attraverso il quale una teoria è concepita o inventata non richiede analisi logica».
Una tale logica è strettamente additiva e non è in grado di concepire le trasformazioni qualitative o emergenze che sopravvengono a partire da interazioni organizzazionali. Essa rafforza il pensiero lineare, che procede dalla causa all’effetto e fa da ostacolo all’intelligenza della retroazione dell’effetto sulla causa. Essa è una logica dell’Ordine che rafforza il determinismo fintanto che quest’ultimo la rafforza. Essa espelle ogni contraddizione, compresa nell’esame razionale di un fatto d’esperienza, come segno di un errore nel ragionamento. Il principio d’identità ha costituito un basamento ontologico/metafisico per la ragione e la scienza occidentali, l’identità delle cose con se stesse costituendo in qualche modo il loro essere proprio.
Come avevamo scritto, «questa logica ha armato la concezione di un mondo coerente, interamente accessibile al pensiero, e tutto ciò che oltrepassava questa coerenza diveniva qualcosa che stava non solo fuori dalla logica, ma anche fuori dal mondo e dalla realtà». In questa prospettiva la razionalità si riconosce nella sovranità assoluta della logica deduttivo-identitaria.
C’è una corrispondenza perfetta tra logica classica e scienza classica. Il principio riduzionista della scienza classica isola delle unità elementari (molecole, atomi, ecc.,) sostanziali e invarianti, cosa a cui corrisponde lo “stesso” del principio d’identità aristotelico. Essa si fonda sul principio del determinismo universale, cui è adeguato il carattere necessario della deduzione e il carattere universalizzante dell’induzione. Così la logica classica ha rafforzato le caratteristiche fondamentalmente semplificatrici della scienza classica, la quale ha rafforzato attraverso i suoi successi l’idea della pertinenza ontologica della logica classica. Questa beneficia contemporaneamente dello statuto di verità inerente alla scienza e dello statuto imperativo proprio della norma, che a sua volta, delineando le regole della correttezza dei ragionamenti e delle teorie, assicura così la loro verità. La verità di una proposizione non è certo sotto la direzione esclusiva della logica, poiché questa verità dipende anche dal suo contenuto. Ma una volta verificato il contenuto empirico di una proposizione, la logica diviene la corte di cassazione epistemologica che le fornisce il suo criterio definitivo di verità (mentre per Aristotele la logica era un organon, cioè uno strumento di conoscenza, non il giudice della conoscenza).
Di fatto scienza, matematica e logica si sono sempre più associate fino a confondere i loro fondamenti all’inizio del XX secolo. Hilbert ha potuto sperare che la logica sovrana avrebbe controllato la scienza, mentre il circolo di Vienna ha potuto credere che la scienza sovrana avrebbe controllato ogni pensiero.
I quattro pilastri sono infatti interdipendenti e si inter-rafforzano l’un l’altro. Disgiunzione e riduzione eliminano ciò che non è riducibile all’ordine, alle leggi generali, alle unità elementari. Esse nascondono non solamente la multipresenza del disordine nel mondo, ma anche il problema dell’organizzazione. Il solo dilemma possibile rimane tra disgiunzione, separazione o riduzione. Di conseguenza è impossibile, all’interno di questo tipo di conoscenza, concepire l’unità del molteplice o la molteplicità dell’uno. Non c’è che un’alternativa tra un’unificazione che ignora la diversità (quella della gravitazione di Newton fino a E=mc2 di Einstein, in cui la mela dell’uno e il sole dell’altro non hanno consistenza) e una diversità che ignora l’unità a vantaggio di classificazioni, tipologie, cataloghi. E ciò riguardo tutti i problemi, compreso quello dell’essere umano: o si vede l’unità umana, e le differenze individuali, culturali e storiche sono trascurabili, oppure si vedono solo le differenze, e l’unità umana svanisce. Le scienze classiche furono divise tra queste due ossessioni, quella dell’unità e quella della varietà, ognuna corrispondente a un certo tipo di spirito, e del resto il loro antagonismo fu produttivo, permettendo di sviluppare nello stesso tempo la diversificazione e l’unificazione del sapere, senza tuttavia poter giungere alla concezione dell’unitas multiplex.
Il pensiero semplificante
La congiunzione dei quattro pilastri determina il pensiero semplificatore, sottomesso all’egemonia della disgiunzione, della riduzione e del calcolo, che non concepisce che oggetti semplici che obbediscono a leggi generali. Esso produce un sapere anonimo, cieco nei confronti di ogni contesto e di ogni complesso, ignora il singolare, il concreto, l’esistenza, il soggetto, l’affettività, le sofferenze, le gioie, i desideri, le finalità, lo spirito, la coscienza. Esso considera il cosmo, la vita, l’essere umano, la società, come delle macchine deterministiche, triviali, di cui si potrebbe prevedere ogni output se si conoscessero gli input. Esso seleziona sempre come vera la spiegazione più semplice, in virtù non più del rasoio d’Occam, ma di una tronchese che elimina per principio il complesso. Ma, come dice Musil in L’uomo senza qualità, in virtù di quale principio il valore esplicativo di un fatto psicologico dovrebbe essere tanto più grande quanto più semplice?
Sofisticata in rapporto al “buon senso” ingenuo, ma essa stessa estremamente ingenua in rapporto alla complessità del mondo, la semplificazione scientifica aveva creato un Universo meccanico, senza accidente, senza innovazioni, senza individui, senza esseri, senza esistenti, dissolvendo i concetti di cosmo, di natura, di individuo. In antropologia, la corrente strutturalista aveva rimpiazzato le leggi con le strutture, a discapito della nozione di essere umano. L’obiettivo delle scienze dell’uomo è dissolvere l’uomo, diceva Lévi-Strauss, mentre Foucault aveva constatato che l’uomo è un inesistente scioccamente apparso all’inizio del XIX secolo e già condannato a morte. In sociologia, che tratta dell’oggetto più complesso di tutti, il determinismo scacciava la complessità. Ciò che Watzlawick chiama terribile semplificazione è l’eliminazione di un problema posto a livello di un complesso.
L’applicazione ai fenomeni umani di un pensiero semplificatore conduce alle idee più grossolane. Come ha evidenziato Wittgenstein, «le spiegazioni dei (cosiddetti) usi primitivi sono molto più grossolane di quanto non lo siano gli usi stessi. Analogamente, il modo in cui Frazer espone le concezioni magiche e religiose degli uomini non è soddisfacente: esso infatti fa sembrare queste concezioni come degli errori» (su James Frazer, 1977). Effettivamente, la semplificazione aberrante di questo tipo di pensiero conduce inevitabilmente a considerare che ogni credenza, ogni mito, ogni dottrina di una civiltà non occidentale è un tessuto di errori e di superstizioni. Soltanto negli ultimi decenni, con la decadenza dell’Europa e la crisi feconda della razionalizzazione europea, si cessa di ridurre a errore ciò che non rientra nel nostro sistema semplificatore di intelligibilità, esso stesso errato nel suo principio.
Correlativamente, l’intelligenza emersa dai quattro pilastri è di una terribile efficacia. Rigettando il complesso nell’immondizia e non trattenendo che il quantificabile e l’algoritmabile, isolando gli oggetti e sottoponendoli a sperimentazione, ha permesso e sviluppato la manipolazione, da cui le sue innumerevoli vittorie tecniche, da cui anche la sua ignoranza relativa agli effetti perversi che avrebbero potuto generare queste vittorie.
La semplificazione diventa così strettamente correlata alla manipolazione, essa stessa correlata all’idea, o piuttosto al mito, della conquista della natura e del dominio dell’uomo sull’universo. È un principio di razionalizzazione, secondo l’espressione di Heidegger. Come ha detto un filosofo, la misurazione (mètrise) conduce al dominio (maîtrise), e a ciò bisogna aggiungere che essa conduce anche al disprezzo (méprise), nei due sensi del termine (scambiare l’astrazione per la realtà e disprezzare (mépriser) tutto ciò che non entra nel progetto di dominio (maîtrise).
Si è così costituito un “paradigma” di disgiunzione/riduzione, che comporta in sé un principio di selezione/rifiuto. Questo paradigma, presente in modo invisibile nello spirito di colui che subisce il suo ascendente, intima di dissolvere i complessi per ricondurli ai loro elementi di base, di dissolvere il non formalizzabile per ridurre il reale al suo scheletro matematico. Esso intima di separare l’oggetto dall’ambiente, l’ordine dal disordine, le discipline all’interno delle scienze, e la scienza dalla filosofia. La selezione sceglie tutto ciò che è ordine, quantità, misura. Il rifiuto elimina l’essere, l’esistenza, l’individuale, il singolare. Questo paradigma, che regola tutte le conoscenze, ha regnato nella conoscenza scientifica, tecnica, politica. A dispetto di formidabili rivoluzioni nelle scienze del XX secolo e delle autonomie interne che tale paradigma, come un Impero che sta invecchiando, ha dovuto concedere ad alcune province, e a dispetto di prese di coscienza, molteplici, ma ancora disperse, esso rimane rimpiattato sotterraneamente e agisce in maniera dominante nella maggior parte degli spiriti.
Infatti lo sviluppo inaudito delle scienze fisiche e delle loro applicazioni tecniche (utilizzo dell’energia nucleare, conquista dello spazio) è stato legato a un’incapacità inaudita di considerare nella loro complessità le realtà umane, di favorire l’intercomprensione in seno alla specie umana, di rispondere a problemi umani come guerra, carestia, povertà. Lo sviluppo delle scienze fisiche è legato allo sviluppo del sottosviluppo dello spirito tecnico-scientifico. Per questo, this time is out of joint. Traduciamo approssimativamente e abusivamente la formula shakespeariana: questo è il tempo della disgiunzione, non si sa più collegare.
E tuttavia la scienza è complessa nella sua natura, poiché essa comporta contemporaneamente il consenso sui suoi valori e il conflitto interno delle teorie; essa cammina su quattro zampe distinte che si oppongono in maniera complementare (razionalismo, empirismo, immaginazione, verificazione). Sono state due dialogiche complesse e interferenti ad animare i suoi formidabili progressi, compresi i progressi ultimi che fanno vacillare e finiranno per far crollare i quattro pilastri. Apparentemente la semplificazione ha sconfitto la complessità, come Roma ha vinto la Grecia, ma si sa che lo spirito greco ha finito per vincere culturalmente il suo barbaro vincitore. La semplificazione scientifica, proprio essa, ha fallito nella sua vittoria stessa: nella sua ricerca ossessiva del mattone elementare e della Legge suprema dell’Universo ha incontrato, nei suoi ultimi progressi, e senza poterla riassorbire, la complessità che aveva eliminato nel suo principio.
La filosofia, da parte sua, era nel suo principio destinata a incontrare la complessità dei problemi fondamentali della conoscenza, aperta a ogni sapere, e dunque non compartimentata. Ma questo settore della non compartimentazione si è esso stesso compartimentato, e non ha più che un contatto rarefatto con il mondo della vita e la vita del mondo. I saperi nuovi e sconvolgenti emersi dalla scienza, relativi al cosmo, alla terra, alla vita, all’uomo, non arrivano al suo mulino che macina a vuoto.
Nella nostra epoca la complessità è bandita a favore della semplicità-superficialità. Trovo particolarmente efficaci alcune espressioni di Morin: la semplificazione porta a “un sapere anonimo e cieco” che si “ferma solo alle apparenze” , in fin dei conti “spolpa il mondo”, “la semplificazione è correlata alla manipolazione” e nella sua “quantofrenia” esclude l’ “atto dell’invenzione e della creazione”. Insomma un disastro su tutta la linea e credo che Morin sia profetico. Nel suo contributo è molto accurato e convincente. Mi permetto di selezionare una causa (che Morin accenna di sfuggita): “la separazione tra cultura umanistica e scientifica”. La lingua latina e ancor più quella greca allenano la mente alla complessità e alla varietà e sono compagne inseparabili dei domini scientifici.