Abbiamo affidato il nostro giudizio sulla moralità contemporanea al concetto di dignità. La dignità rivendicata dai lavoratori o dai migranti, la dignità messa al centro di carte costituzionali e decreti legge… Ma siamo sicuri sia una buona idea? Una risposta la dà, nel suo ultimo libro, Cosimo Marco Mazzoni.
In copertina e nel testo opere di kinke kooi
Nonostante la condanna a 12 ergastoli, nel 2017, la carcerazione di Totò Riina, forse il più famoso dei mafiosi italiani, cominciò a traballare. Nessuna assoluzione imprevista, ovviamente, e nemmeno una miracolosa apparizione di prove della sua innocenza; semplicemente il boss di Corleone versava in condizioni di salute precarie e così si aprì una discussione (pubblica, ma anche legale) sull’opportunità di liberarlo in modo da concedergli una “morte degna”. Potrebbe sembrare un aneddoto di poco conto, ma è tutto il contrario. L’ipotesi di liberare uno dei maggiori esponenti di Cosa Nostra rappresenta, sul piano simbolico, uno dei modi in cui lo stato legittima sé stesso. Un’auto-legittimazione che avviene attribuendosi una particolare forma di dignità, quella di chi concede la grazia, di chi dimostra pietà e senso civico. Non è un caso che il ministero si chiamasse, fino a pochissimo tempo fa, “di grazia e giustizia”, con prima la grazia e, solo dopo, la giustizia: concedere la grazia, sin dal medioevo, era il modo con cui il sovrano legittimava il suo status, metteva in scena platealmente la sua dignità (nel senso di legittimità) di sedere sul trono, proprio come qualche anno fa lo stato rivendicava la propria dignità dibattendo della scarcerazione di uno dei più colpevoli dei suoi cittadini. Certo, lo stato afferma sé stesso anche col pugno duro del potere di coercizione, con la giustizia e non con la grazia, ma è assolvendo innocenti e graziando certi colpevoli che le istituzioni si pongono al di sopra dell’umano sentimento di vendetta, andando a incarnare l’essenza degli ideali di giustizia.
Ecco quindi cos’è la dignità, almeno nella sua accezione politica: potere e legittimità che vanno guadagnati sul piano simbolico, ma spesso per negazione, per esternazione di bontà e clemenza. Da qui, probabilmente, la dignità cristiana che, paradossalmente, si guadagna solo negando di averla, ripetendo a se stessi e agli altri “Domine non sum dignus”.
La dignità è il legante che permette alle istituzioni di giustificare la propria forza? È forse l’unico modo con cui è possibile creare un legame di fiducia tra stato e cittadino? Probabilmente sì, ma essere degni non è solo un affare per governanti e sovrani, riguarda tutti e nei modi più disparati. Per via di questa sua ampiezza e genericità la dignità è un’idea incredibilmente difficile da inquadrare, da incasellare e definire una volta per tutte.
Dall’ultimo saggio (peraltro splendido) di Cosimo Marco Mazzoni, Quale dignità (2019, Olschki editore) viene fuori una storia della dignità, dell’idea e dei ragionamenti che l’hanno percorsa e plasmata, che getta luce su tutta la sua inafferrabilità: un tempo era materia di dibattito esclusivamente teologico e filosofico, poi per una serie di avvenimenti, guerre, correnti di pensiero, risemantizzazioni e altri impicci della storia il lemma si è fatto strada fino a diventare, oggi, uno dei più usati e dibattuti (il “decreto dignità” dello scorso governo è solo l’ultimo di una lunga serie di appropriazioni della parola per finalità politiche e propagandistiche).
Le parole, e le idee che queste esprimono, sono figlie di come vanno le cose. La parola “dignità” è apparsa per la prima volta, lo racconta lo stesso Mazzoni, nel Grundgesetz tedesco – la nuova carta costituzionale della Germania federale, scritta una volta concluse guerra e dittatura hitleriana. L’inserimento di “dignità” servì a liberarsi di “onore” (“ehre”, in tedesco), termine abusato dai nazionalsocialisti e ormai impregnato dall’ideologia discriminatoria nazista e illiberale. E così, nel 1949, la Carta suprema della nuova Germania inizia a recitare: «Die Würde des Menschen ist unantastbar» (la dignità degli uomini è intangibile, intoccabile).
-->Ma già qui ritroviamo un paradosso, un difetto dell’ingranaggio che dovrebbe portarci ad apprezzare e perseguire l’ideale della dignità, e cioè la sua innatezza. Se la dignità appartiene a tutti, se davvero è intoccabile e presente dalla nascita di ognuno di noi, allora significa che chiunque ha dignità, quindi ce l’ha il nazista, lo stragista, il dittatore il boia e il torturatore, è degno il truffatore come lo è l’onesto cittadino, il bugiardo come il sincero, il coraggioso come il codardo. Com’è possibile? Ma soprattutto, se così fosse, a cosa mai servirebbe essere, o essere definiti, degni? E a cosa servirebbe mai la parola “dignità”?
Qualche anno prima dell’episodio costituzionale tedesco, anche in sede internazionale la dignità veniva presentata come una qualità intrinseca degli esseri umani: il 26 giugno del 1945, a San Francisco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite si impegnava «a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana». Il problema di rendere la dignità una specie di qualità morale ovvia e connaturata all’esistenza umana è che presto si è costretti a contraddirsi: nei casi di guerre, carestie, genocidi e persecuzioni ci si appellerà a una “dignità da restituire”, o da proteggere, tutelare, garantire. E allora torneremo a chiederci se la dignità appartiene a tutti, sempre, oppure se la si può perdere. E nel caso sia vera la seconda ipotesi chi, quando e a seconda di cosa, la perde?
Il punto è che la dignità è un principio etico, lo racconta sempre Mazzoni con le parole di Kant:
Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcos’altro come equivalente. Ciò che invece non ha prezzo, e dunque non ammette alcun equivalente, ha una dignità.
Insomma la dignità avrebbe a che fare con i fini, con una certa forma “primordiale”, diciamo così, di libertà personale e politica: la dignità di ognuno di noi c’è solo se obbediamo a leggi che siano le nostre leggi, a regolamenti che rappresentano sistemi ideologici di cui ci sentiamo di far parte.
Una dignità che si configura quindi come meccanismo di verifica di appartenenza: per avere dignità occorre una compatibilità tra il proprio sistema valoriale e quello espresso dal sistema sociale, quindi giuridico e politico, in cui si è immersi. Ma se la dignità in questo senso si avvicina a un senso di cittadinanza, o al riconoscimento dell’esistenza di un minimo insindacabile di diritti civili, allora siamo già in un territorio che nega la prima definizione di dignità che abbiamo dato all’inizio, quella di una qualità innata. La dignità, al contrario, sembra essere qualcosa che va conquistato, difeso, e per niente inalienabile. Anche in Thomas Hobbes la dignità sembra venire da un processo di conquista e di rivendicazione: per Hobbes la dignità è attribuita dallo stato, non c’è nessun’altra istituzione con una delega simile. Scrive il filosofo del Leviatano:
Il valore pubblico di un uomo, che è il valore che lo stato stabilisce per lui, è ciò che gli uomini chiamano comunemente dignità. E questo valore, che gli conferisce lo stato, va inteso attraverso gli uffici di comando, la magistratura, il pubblico impiego o attraverso i nomi e i titoli introdotti per distinguere tale valore.
Ecco, Hobbes si riferisce a un “valore”, e l’idea è simile a quella kantiana, dove a incorporare questo valore, a dargli sostanza, è necessariamente l’autonomia. Ha dignità chi autonomamente esiste: in questo senso è dignitoso il lavoro, che emancipa figli adolescenti dai genitori e alcune mogli dal ricatto economico dei loro coniugi. L’autonomia è il vero discrimine che regala dignità: le azioni non sono degne o indegne di per sé, lo sono se c’è o non c’è autonomia, ecco quindi che morire dignitosamente significa farlo per rispettare il volere, e quindi l’autonomia, del malato terminale. Così anche la prostituzione, occupazione che togliere dignità alla condizione di chi la esercita se è fatta sotto costrizione, minaccia o l’impellenza dovuta alla povertà, mentre la condizione diventa degnissima se a esercitarla è una persona che lo decide autonomamente.
C’è un ultimo tassello che va preso in considerazione: se la libertà d’agire dà dignità, questa libertà può essere ricondotta a sole due condizioni, quelle in cui l’uomo può e quelle in cui l’uomo deve. C’è meno dignità nella costrizione che nella scelta, certo, ma nel dovere? È degno chi compie un dovere? Ci viene in aiuto nuovamente Mazzoni declinando la libertà come “assunzione di responsabilità”. Scrive Mazzoni che questo è quanto aveva già intuito cinque secoli fa il giovane Giovanni Pico della Mirandola: esiste una responsabilità morale verso se stessi e solo lì, sta la libertà. Siamo liberi quando abbiamo trovato una regola del nostro agire, una auto-nomìa. Mazzoni aggiunge poi che «è sul lemma “responsabilità” che si gioca tutto quanto può essere compreso nella dignità». E tenta una definizione che è una delle poche davvero soddisfacenti nel mare sconfinato di carteggi, poemi e libri sul tema che si sono susseguiti nei secoli: «Dignità è la coscienza della propria libertà nei limiti della responsabilità di sé». Insomma, per la dignità esiste una formula piuttosto precisa, e che richiede equilibrio e una certa nitidezza di pensiero: serve essere liberi, responsabili della propria libertà e poi, di tutto questo, avere piena coscienza. Detta così la dignità è roba per pochi, un arduo cammino personale e collettivo, perché politico, verso un Everest della moralità, una scalata a cui guardare con timore e un’importante dose di determinazione.
Tentare definizioni è sempre un’impresa ardua, e in questo caso lo è particolarmente vista la scivolosità e le infinite implicazioni del tema. In molti tra i pensatori contemporanei hanno denunciato la vacuità del lemma, i suoi significati troppo generici per poter aderire alla realtà se non sotto forma di inutili slogan: nel 2008 Steven Pinker, per citare soltanto uno degli ultimi interventi degni di nota, scrisse un articolo intitolato “The Stupidity of Dignity”, affermando che «Il problema è che la “dignità” è una nozione sdolcinata e soggettiva, inidonea a svolgere i pesanti compiti morali a essa assegnati». Pinker faceva riferimento soprattutto alle occasioni istituzionali, quelle già citate di carte costituzionali e assemblee alle Nazioni Unite, e non è certo il solo a pensarla così, il giurista ed ex ministro Giovanni Maria Flick scrisse che «La dignità è un ponte dagli orrori, gli errori, e le angosce del passato verso i fantasmi, le inquietudini e le paure del presente e del futuro». Insomma, la dignità come un bagliore confuso e fioco che guida il pensiero filosofico, soprattutto quello della teoria interpretativa del diritto, verso un futuro che non può che essere fumoso e incerto. In fin dei conti, al pari di tutti i principi generali, astratti e tendenti all’assoluto, anche la dignità svela la propria fragilità ad ogni passo della storia. Ma non potrebbe essere altrimenti. In questa mancanza di certezza sull’identità della dignità il faro può essere proprio la definizione di Mazzoni, se non altro per quanto riesce a stare salda su territorio ideologico e filosofico così terribilmente scivoloso: «Dignità è la coscienza della propria libertà nei limiti della responsabilità di sé».
0 comments on “Dove sei, dignità”