Due porte della percezione al giorno

È difficile, quando si riflette sui propri sogni, non pensare che dormire sia davvero una porta della percezione; non perché i sogni “abbiano dei significati”, come nei testi dei cartomanti o nel settimo capitolo de L’interpretazione dei sogni freudiana, ma perché creano i presupposti per ricavare degli spiragli che permettono di osservare i meccanismi della nostra stessa percezione. Questi spiragli si aprono in due momenti che viviamo quotidianamente: l’arrivo del sonno e il risveglio.

Non c’è un’unità di misura temporale che possa descrivere la durata dei due momenti che quotidianamente ci consegnano e ci strappano via dal regno del sonno. L’unità temporale non c’è perché il tempo in entrambi i momenti è esteso, allargato o, contratto – impegnato a ingannarci sulle ore che trascorrono dopo il primo “allarme” della nostra sveglia. Sono momenti di cui è difficile rendere conto. A pensarci da svegli l’atmosfera in cui si spengono e riaccendono i nostri sensi è inafferrabile – un ricordo così lontano da dubitare di averlo vissuto.


Sono momenti di cui è difficile rendere conto. A pensarci da svegli l’atmosfera in cui si spengono e riaccendono i nostri sensi è inafferrabile – un ricordo così lontano da dubitare di averlo vissuto.


Remo Bodei, nel suo saggio La vita delle cose (Laterza, 2009) tenta di districare il groviglio semantico che intorbidisce le definizioni di “cosa” e “oggetto”, concentrandosi sulla percezione e i suoi meccanismi. Secondo l’autore, è necessario rendersi conto della soggettività e della fallibilità della percezione e per farlo i meccanismi dell’assopimento e del risveglio sembrano essere il giusto grimaldello. Il filosofo, infatti, parte proprio dai sogni per riscoprire una percezione lontana dai modelli classici di razionalità e sembra riprendere il pensiero hegeliano della Fenomenologia dello spirito nell’indagare una forma semiotica che ridia “al mondo un senso più pieno, meno appiattito sulla routine della quotidianità” (Bodei, 10).

La neuroscienziata Candace Pert, in un’intervista, cita un episodio emblematico del rapporto che intercorre tra la nostra percezione del mondo e l’interpretazione che ne diamo. La Pert racconta che i nativi americani nell’osservare la linea d’orizzonte dell’oceano Atlantico su cui si stagliavano le navi di James Cook non ne percepissero la presenza. Il fenomeno non rientrava nella loro esperienza di vita e di conseguenza non veniva percepito. Le navi non esistevano. I nativi cominciarono a “vedere” le imbarcazioni solo quando attribuirono loro un significato che oggi definiremmo “religioso”. Immaginarne una provenienza divina riuscì a giustificare i visi pallidi che sbarcavano sulle loro coste e fu solo così che le caravelle “apparirono” agli occhi degli increduli osservatori.

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Dickens’ dream (Robert William Buss)

L’episodio citato dalla studiosa non è verificabile, ma l’ipotesi è suggestiva; ciò che avvenne fu il palesarsi delle navi nel linguaggio dei nativi, con la conseguente possibilità di essere descritte e inserite nel mondo percepito dagli osservatori. Si trattò dell’applicazione di un filtro interpretativo a un oggetto fino ad allora inesistente.

C’è chi interpreta il rito del battesimo in modo analogo; l’immersione nel fiume Giordano sarebbe, più che un’iniziazione alla comunità, un atto di certificazione dell’esistenza dell’individuo. Senza battesimo, non si esiste. È in questa interpretazione che Giovanni Battista, quasi più importante dello stesso Cristo, sarebbe l’incarnazione mitica del ruolo del linguaggio.

Percepiamo davvero ciò che ci circonda seguendo gli habitus interpretativi ereditati dal linguaggio? È celebre l’esempio degli eschimesi che possiedono tantissimi termini diversi per riferirsi alla neve. Secondo un articolo del 1986 di Laura Martin, intitolato “Le parole eschimesi per dire neve” questi sarebbero cinque. Secondo Il linguista K. David Harrison ci sarebbero addirittura 99 parole nelle lingue eschimesi per dire neve.

Che siano le caravelle, i battezzati o i tipi di neve la questione rimane immutata: il linguaggio che utilizziamo descrive un mondo modello strutturalmente imperfetto a rappresentare quello naturale. Un po’ come un lenzuolo da una piazza e mezzo che ci sforziamo di mettere su un matrimoniale.

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Edwin Landseer, Scene from A Midsummer Night’s Dream.

Se questi esempi ci paiono forzati, e forse anche assurdi, è perché la nostra “percezione della percezione” è lì a rassicurarci della stabilità, l’immutabilità e l’oggettività del suo funzionamento. Ma è falso. Esiste un gap. L’unica occasione che abbiamo per prendere coscienza dell’imperfezione della percezione è sfruttare quei momenti in cui essa muta e si palesa per quel che è: un’insieme di occorrenze interpretative che lavorano all’interno di un continuo scambio di informazioni tra ciò che è percepito e ciò che arriva ai sensi come stimolo ancora da incasellare. Ecco perché il concentrarci sul sonno e il suo saper rompere momentaneamente gli standard percettivi è utile per osservare il mondo con occhi nuovi, sentirlo nel suo esistere indipendente dai sensi.


L’unica occasione che abbiamo per prendere coscienza dell’imperfezione della percezione è sfruttare quei momenti in cui essa muta e si palesa per quel che è: un’insieme di occorrenze interpretative che lavorano all’interno di un continuo scambio di informazioni tra ciò che è percepito e ciò che arriva ai sensi come stimolo ancora da incasellare.


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William Blake

Il già citato Remo Bodei descrive il risveglio come il momento in cui:

“rinasce la meraviglia di fronte al sorgere del sole, alla sua vittoriosa riapparizione, al graduale passaggio dal buio della notte al fulgore della luce naturale, che rivela e dipinge il mondo nella molteplicità delle sue forme e colori. Quando le ultime stelle impallidiscono e le fantasmagorie del sogno si dissolvono, la determinatezza del giorno subentra a districare ciò che la notte aveva confuso” (Bodei, 4)

Al risveglio svanisce proprio il binomio tra la determinatezza del giorno e la confusione della notte. Accade che le due categorie si scontrino creando una terza categoria che sarà il prodotto delle prime due. È qui che possiamo goderci il lusso di osservare consciamente il comporsi della percezione, il concretizzarsi delle dinamiche attraverso cui avviene l’interpretazione visiva, tattile, propriocettiva e uditiva di ciò che ci circonda.

Marcel Proust, a proposito di questo senso di spaesamento che coinvolge i sensi dopo il sonno e ci permette di osservarli “da fuori”, uscendo temporaneamente dal nostro corpo, scrive che si diventa “di piombo”:

“sembra di essere diventati noi stessi, nei brevi istanti che seguono un tal sonno, nient’altro che un ometto di piombo. Non si è più nessuno. E come mai, in tal caso, cercando il nostro pensiero, la nostra personalità, come si cerca un oggetto smarrito, finiamo per trovare proprio il nostro io, piuttosto d’un altro? Perché quando ci rimettiamo a pensare, non accade mai che un’altra personalità diversa dalla prima si incarni in noi?” (Proust, II, 89-90)

I due momenti in cui si può osservare il gap percettivo, la distanza tra ciò che si percepisce “in quanto tale” e ciò che si percepisce “in quanto soggetti percepenti”, sono proprio quelli in cui si “esce” dal corpo e vi si “rientra” al risveglio.

Ancora Bodei scrive:

“Dopo la parentesi notturna ogni cosa riprende gradualmente la solita posizione nello spazio e rientra in una predisposta casella mentale. Rinasce l’ordine delle parole e delle cose, noi rientriamo nella quotidiana routine, riallacciandoci a precedenti esperienze e ridestando sopite inquietudini, mentre le cose recuperano la loro apparente impassibilità” (Bodei, 5).

L’impassibilità delle cose a cui si riferisce Bodei è legittimo immaginarla come la fissità dell’interpretazione che diamo del mondo e della sua composizione. Di più: la fissità della loro essenza e del motivo profondo per cui interagiscono con noi. Tale fissità è però dannosa se ci si vuole immaginare liberi dai propri habitus interpretativi ed è per questo che l’uomo, sin da tempi immemorabili, intraprende lunghi e rituali flirt con la meditazione, le sostanze psicotrope e con tutti i meccanismi che permettono di rompere una visione del mondo granitica. Buchi nel cranio, scarnificazioni e punture di insetti autoindotte, eremitaggi estenuanti, digiuni, tatuaggi e tutta una serie di azioni singole e collettive volte a creare una frattura con la percezione standard.

Il sonno è di conseguenza un momento speciale, perché non solo apre le “porte della percezione”, ma lo fa quotidianamente, in modo “naturale” e inevitabile, silenzioso. Se vogliamo, anche questo modo di percepire è “standard”, visto che i ritmi del sonno ricadono, volenti o nolenti, in abitudini comportamentali e pattern interpretativi che vi si cuciono sopra. Ciò accade perché si trascorre mediamente un terzo della vita a dormire: in uno stato di alterazione della percezione, della volontà e della consapevolezza. Un terzo della vita in cui perdiamo la cognizione del tempo e dello spazio. Eppure, se queste possibilità di scassinare l’interpretazione perdono il loro valore proprio perché sono inglobate nella routine. Come utilizzarle? Come approfittare di queste possibilità?

In La Morte di Virgilio lo scrittore Hermann Broch si riferisce in modo potente all’esperienza della perdita del sé durante il sonno. Broch scrive:

“Il respiro delle creature viventi attraversava il respiro della notte e con loro respiravano i campi, gli orti e i frutti, e il respiro dell’universo si apriva ad accogliere le creature”.


Il sonno è di conseguenza un momento speciale, perché non solo apre le “porte della percezione”, ma lo fa quotidianamente, in modo “naturale” e inevitabile, silenzioso.


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Alex Grey (alexgrey.com)

A un’analisi attenta questa descrizione si rivela simile a quella che si da dell’esperienza che si può provare con alti dosaggi di mescalina o LSD. Broch descrive in modo meticoloso quello che molti anni dopo verrà discusso dagli antropologi europei che studieranno lo sciamanesimo e le ritualità dei nativi centroamericani. Si tratta del fenomeno di “dissoluzione dell’ego” – ovvero la perdita della percezione della separazione tra l’Io e l’ambiente circostante e la sensazione che in molti hanno definito come un “essere ovunque”.

Torna in mente la recherche proustiana e il suo protagonista, che vede scomporsi, al suo risveglio, l’ordine interpretativo di ciò che lo circonda. Da lì l’illuminazione:

“Forse l’immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti” (Proust, I, 9)

E allora forse c’è un mondo da scoprire che circonda le nostre vite. Un mondo da rivedere e reinterpretare alla luce della piccola rivoluzione percettiva che possiamo vivere nell’addormentarci e nel successivo risvegliarci ogni mattina.

Se in antichità abbiamo usato i digiuni e le ritualità religiose e dagli anni ‘70 si usano gli acidi, forse in futuro ci riscopriremo a usare il sonno per scombinare la routine di una percezione ordinaria. La notte e il giorno, con gli oggetti e le idee che vagano tra i due universi, potrebbero così accompagnare i metodi “classici” di alterazione percettiva.

Data la condiscendenza delle cose e della percezione, tracciarne i confini significa quasi sempre fare delle scelte, arginare il mondo e le idee che ci siamo fatti a riguardo. Forse potremmo approfittare delle possibilità offerte dalla percezione non-standard per sospendere il giudizio. A essere idealisti, un gioco del genere potrebbe non essere solo un modo di osservare i propri meccanismi percettivi, ma un modo di liberarsi di schemi culturali e interessi personali secondo i quali prendiamo in esame solo ciò che ha senso per noi stessi.

di Enrico Pitzianti


Enrico Pitzianti, Cagliari 1988, si occupa di estetica e arte. È parte della redazione di Artnoise e di Dude Magazine. È laureato in semiotica, ha fondato il progetto artistico online GuardieShow ed è consulente per SpaceDoctorsLtd.
Immagini (c) Wikimedia, Google, Alex Grey.

 

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