Ecopessimismo

Non c’è più scampo alla crisi climatica e quali siano gli adattamenti possibili un nuovo sentire si diffonde nel mondo: l’ecopessimismo.


IN COPERTINA: Vittorio Sopracase, Le son des tenebres – Tecnica mista su legno – Asta Pananti in corso

Questo testo è un estratto da Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro di Claudio Kulesko, ringraziamo Piano B edizioni per la gentile concessione.


di Claudio Kulesko

Viviamo nell’epoca della scomparsa della natura. Basta entrare in una qualsiasi facoltà di filosofia, studi culturali o letteratura contemporanea, per rendersi conto di come la distinzione tra natura e cultura appartenga ormai al passato. Un residuo dell’epoca moderna, al pari del problema mente-corpo o del dibattito sul libero arbitrio. Le filosofie della relazione, l’ibridismo, il costruttivismo, la teoria critica e i nuovi materialismi hanno sancito il predominio della prassi – o, meglio, della performatività – sulle rigide strutture imposte dalle leggi naturali.

«Considero la “natura” alla stregua di una finzione di grande potere», scrive il geografo anticapitalista britannico Noel Castree; per poi aggiungere, qualche pagina dopo, che «la natura esiste solo finché crediamo collettivamente che essa esista». A supporto di tali affermazioni, Castree offre al lettore una rassegna di estratti provenienti da alcuni documenti riguardanti il disboscamento della Baia di Clayoquot, nella Columbia Britannica. Nei frammenti scelti dal geografo, il bosco passa costantemente dall’essere una risorsa disponibile all’estrazione capitalista all’essere un santuario che offre rifugio a diverse specie selvatiche, profilandosi così come valore economico latente e, al tempo stesso, come biodiversità da tutelare. Cinquanta percento natura, cinquanta percento cultura. Un paradosso che, nel corso del testo, spinge l’autore ad ammettere il carattere esclusivamente sociale di ogni definizione di ambiente naturale. A forzare tale interpretazione, come nota lo stesso Castree, sarebbe l’assenza di un’ontologia naturale preesistente e condivisa da più soggettività.

Dal punto di vista del geografo, la Baia – con tutta la sua flora e fauna – non sarebbe tanto una realtà esterna a qualsiasi osservatore, quanto un’idea. Per di più un’idea fittizia, formata da innumerevoli frammenti di opinione, più o meno equamente distribuiti tra i vari soggetti in gioco. Un tipo di argomentazione già avanzato, nel corso della seconda metà del Novecento, dalla corrente costruttivista. Di fatto, è proprio Donna Haraway – la più importante critica contemporanea del metodo naturalista – a ricordarci, nel 1992, che la natura, così come gli organismi da essa prodotti, emergono da «processi discorsivi».

Sebbene tale linea teorica (supportata ormai dalla quasi totalità degli attivisti militanti e degli accademici) possieda l’indubbio merito di evidenziare le irriducibili componenti culturali di ogni nostro giudizio, essa smette di essere utile – o quantomeno degna di considerazione – nel momento stesso in cui va a confondere parole e cose, rapporti sociali e rapporti materiali, documenti ed esseri viventi, libri di scienze ed ecosistemi. Quel genere di fraintendimento che avrebbe mandato in estasi Humpty Dumpty, l’uomo uovo di Carroll.

Se fosse andato in porto, l’abbattimento delle foreste della Baia di Clayoquot avrebbe comportato un disastro ecologico di immense proporzioni. Un gran numero di piante e animali sarebbero morti; ecosistemi millenari sarebbero per sempre scomparsi e, con essi, anche i mezzi di sostentamento, il passato e i legami culturali degli stessi abitanti della Baia. Ciò perché le foreste di Clayoquot esistono al di fuori di qualsiasi apparato discorsivo – fuori dai libri mastri delle aziende di silvicoltura, dalle pubblicazioni scientifiche e dagli articoli nelle fanzine ambientaliste. È la loro stessa esistenza a fornirci un’ontologia condivisa: ciò che ci consente di inoltrarci nel bosco sapendo chiaramente di star entrando in un habitat naturale; di studiare, ammirare o tenere a distanza le creature che lo popolano.

È la “naturalità” degli ambienti selvaggi a fornire il metro in base al quale possiamo valutare l’impatto dell’attività umana su di essi. Negare la precedenza del naturale sull’artificiale, di fatto, comporta un gran numero di problemi etici – subito pronti a trasformarsi in letali paradossi ontologici. Come stabilire, in assenza di un qualche stato naturale precedente, la gravità dell’avvelenamento di una falda acquifera? Come valutare lo stato di salute complessivo di un organismo contaminato da metalli pesanti o microplastiche?

Affermare che una certa specie o un certo organismo si trovi sempre al bivio tra natura e cultura, significa chiudere gli occhi dinanzi agli usi e abusi che il capitale potrebbe farne in futuro. Lo stesso riscaldamento globale non ha alcun senso né alcun significato, se non nel quadro di una natura infranta.

Di certo, esistono specie in grado di metabolizzare e integrare l’inquinamento (altro termine di vitale importanza) prodotto dall’essere umano. Ciò, tuttavia, è unicamente possibile in virtù dell’evoluzione: il processo astratto che definisce lo statuto trascendentale della natura. Prendendo in considerazione i fenomeni evoluzionistici si ha accesso a forme di adattamento e metamorfizzazione indipendenti dall’essere umano, anzi, direttamente collegate all’esistenza stessa di Homo sapiens. L’atto stesso di inquinare comporta l’introduzione di elementi estranei alla condizione primordiale della biosfera, o eccedenti rispetto a essa. Poco importa che tale condizione sia essa stessa instabile, o frutto di trasformazioni avvenute nel corso di miliardi di anni.

Ciò significa che quando un habitat scompare, o viene irrimediabilmente compromesso dall’attività umana, ciò avviene proprio a causa della cultura, dei discorsi, dei rapporti sociali e delle idee. Ambiti così recenti su scala geologica da rappresentare un’insignificante frazione di tempo. È la stessa rapidità di tali alterazioni a definire lo statuto artificiale del cambiamento climatico. Un tempo di terz’ordine, dominato dalla morte e dal ricambio generazionale, che rivela il fondamentale antropocentrismo delle filosofie anti-naturaliste.

D’altro canto, anche il tentativo di sfumare la distinzione tra natura e cultura, all’interno di un sistema ibrido di tipo “naturoculturale” – così come quello di abolire del tutto i due insiemi – comporta una lunga serie di effetti indesiderati. Asserire che ogni cosa sia il prodotto di una commistione di natura e cultura, o che ogni fenomeno possieda tratti al tempo stesso naturali e culturali, significa presupporre – in una sorta di “defaillance creazionista” – che Homo sapiens sia sempre esistito. Ma è solo l’estrema invasività della nostra specie a farci illudere di essere sempre stati qua.

Quando l’ultima linea telefonica, l’ultimo ripetitore, l’ultimo fast food e l’ultimo esemplare di Homo sapiens saranno per sempre sepolti a centinaia di metri sotto la superficie terrestre, la culturalità di un branco di cani selvatici, o di un piccione appollaiato su un pino marittimo non apparirà più poi così scontata. A quel punto, tutto quel che resterà della cultura umana saranno gli adattamenti delle specie animali, vegetali, fungine e microbiche alla devastazione ambientale.

Preservando la classica distinzione tra natura e cultura, ci rendiamo in grado di rimuovere – o anche solo di poter pensare di rimuovere – le fonti dell’attuale catastrofe ecologica. Una regressione che consente anche di evidenziare l’abnormità della sfera culturale umana.

In tal senso, anche i nuovi materialismi – fondati sulla restituzione agli enti non umani dell’agency, nonché della capacità di influenzare il mondo al pari dell’essere umano – rischiano di tramutarsi in elisir miracolosi. Sostenere che un micelio o una colonia di formiche differiscano da una metropoli umana solo per via quantitativa, è una prova lampante del danno intellettuale inferto dalla civiltà umana alle sue menti più brillanti.

Per cautelarsi da simili affermazioni sarà sufficiente condurre (decidete voi dove e come) l’intellettuale o l’accademico di turno al più vicino allevamento intensivo, e guidarlo in un tour illustrato alla scoperta delle più macabre atrocità; dei danni ambientali causati dagli scarti industriali; dell’inquinamento atmosferico emesso dall’intera filiera; degli effetti degli antibiotici zootecnici sui nostri corpi; dell’ignoranza e dell’insensibilità derivati dal comprare e consumare carne prodotta a centinaia di chilometri dai centri abitati. Ecco cosa siamo riusciti a fare nel corso di circa diecimila anni – con buona pace delle formiche e dei loro centocinquantamila anni e passa di evoluzione.

Mantenendo un margine di eccezionalismo umano, ci assicuriamo di non scivolare in un folle quanto irrealistico orizzontalismo eco-ontologico.

Per poter guardare dritto in faccia la catastrofe ambientale, è necessario affrontare il trauma del ritorno della natura, e rendersi pienamente coscienti di come le radici di tale trauma affondino a tal punto nei nostri corpi e nelle nostre menti, da stravolgere del tutto la nostra capacità di reagire e pensare lucidamente.

Il 10 marzo 2019, sulle coste del Mozambico, una depressione tropicale formatasi nei sei giorni precedenti si è di colpo tramutata in una tempesta, per poi intensificarsi fino ad assumere le dimensioni di un ciclone. Il 14 marzo il ciclone, soprannominato Idai, ha raggiunto la massima intensità, con venti a 195 chilometri orari. È stato allora che ha cominciato a dirigersi verso l’entroterra. Abbattendosi sul Mozambico, sullo Zimbabwe e sul Malawi, Idai ha causato più di mille morti, devastando campi, spazzando via abitazioni, uffici pubblici e strutture sanitarie, e compromettendo in modo grave le reti di distribuzione idrica ed elettrica. Un’emergenza climatica e umanitaria su scala internazionale.

Sei settimane dopo, un nuovo ciclone, Kenneth, ha raggiunto il Mozambico, la Tanzania e le Isole Comore, colpendo aree in passato immuni alla furia delle tempeste, con intensità tale da oltrepassare ogni precedente registrazione metereologica. Sebbene il ciclone Kenneth abbia causato meno di un centinaio di morti in tutto l’areale, le conseguenze del suo passaggio ammontano (secondo le stime stilate dall’UNICEF) a 20.000 dispersi e circa 100 milioni di dollari di danni (tra i quali la perdita dell’80% dei raccolti destinati al consumo locale).

Stando ai dati riportati da Swiss Re e World Bank, negli ultimi vent’anni i cicloni tropicali avrebbero causato quasi tremila morti tra Mozambico, Zimbabwe, Madagascar, Nigeria e Malawi – e danni pari a 3 miliardi di dollari. Un conteggio inficiato alla radice dalla scarsità di mezzi e dall’elevatissimo numero di dispersi.

Ciascuno di questi eventi è stato prodotto e amplificato dal riscaldamento globale, in virtù dell’incremento esponenziale delle temperature nelle zone di bassa pressione.

In Italia la situazione non è di certo migliore. Secondo l’ultimo rapporto di Legambiente, tra il 2010 e il 2022 si sarebbero verificati più di 1500 fenomeni climatici estremi – con un più 27% solo nei primi dieci mesi del 2022 (l’anno più caldo mai registrato a partire dal Diciannovesimo secolo, con circa 2000 decessi dovuti alle ondate di calore).

Tra il 2020 e il 2021, sulla scia di tali eventi, fa la sua comparsa il termine “eco-ansia”, ideato dallo psicologo sociale Teaghan Hogg, che ne ha fornito anche una scala di quantificazione – andando a rafforzare i precedenti studi sull’ansia climatica. La sindrome alla quale l’eco-ansia fa riferimento si manifesta come un complesso di pensieri intrusivi riguardanti le conseguenze (tanto individuali, quanto globali) del cambiamento climatico, con disturbi dell’attenzione e del sonno, sensi di colpa, stress e depressione.

Ben presto, all’eco-ansia hanno fatto seguito i termini “eco-lutto” e “solastalgia”, entrambi riferiti al senso di perdita e alla disperazione che fanno seguito a disastri ecologici. Non sorprende che tali sindromi siano state osservate, per la prima volta, tra gli scienziati impegnati ad analizzare gli effetti del cambiamento climatico in ogni parte del globo. In particolar modo, la solastalgia evidenzia l’orrore e lo smarrimento della specie umana dinanzi alla crisi ecologica, trattandosi dell’unione di due parole tratte dalla lingua inglese: “solace” (consolazione) e “nostalgia”. Non vi è più alcuna consolazione possibile, nessun rifugio, nessun luogo dove nascondersi.

Ovunque il senso di imminenza, l’incombere di una catastrofe dalla quale non vi è più alcuna via d’uscita, si esprime sotto forma di disturbi del comportamento. Persino il negazionismo climatico può essere letto come una sorta di sintomo – o meglio, di resistenza – al fallimento di una prova di realtà.


claudio kulesko ha collaborato con la rivista Alphaville – Per un’ecosofia del futuro, e si occupa principalmente dell’opera di Deleuze e Guattari, di realismo speculativo, di filosofia delle scienze e pessimismo filosofico. È organizzatore e ideatore, assieme a Giuseppe Molica e Lorenzo Marsili, del Seminario Musica e Filosofia dell’università Roma Tre.

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