Passano i mesi, ma i dubbi esistenziali sollevati dalla pandemia non si risolvono: eravamo confusi all’inizio e siamo ancora confusi oggi. Non sarà mica che quella che credevamo essere una crisi passeggera si prospetta, invece, come un cambio di paradigma permanente?
In copertina un’opera di william turner, “the shipwreck”
Cosa ci ha lasciato questo periodo di pandemia? Ci poniamo la domanda perché la confusione è ancora tanta, la percezione del pericolo oscilla tra l’estremo dell’ansia ipocondriaca e quello del menefreghismo negazionista. In questo limbo, noi che ci teniamo a non faticare troppo per capire come vanno le cose, siamo obbligati a porci domande simili — oltre ad affidarci a previsioni giornaliere, settimanali, oppure a formule fallaci, come quelle della propaganda.
A domande simili, però, esistono soltanto risposte complicate: l’ottimismo iniziale dovuto a un’ipotetica nuova consapevolezza generale, quella del far parte di una comunità globale inquinante e precaria, non c’è stato. E nemmeno la presa di coscienza collettiva dei meccanismi irrazionali della psicologia delle masse, o di come con noncuranza sottoponiamo il pianeta a un estremo stress. Non ci sono state queste rivoluzioni culturali, è vero, ma sarebbe ingeneroso dire che di ripensamenti e cambi di prospettiva non ce ne sono stati in assoluto. Alcune cose le abbiamo imparate. Tra le tante va detto che ora sappiamo che no, il nuovo coronavirus non è democratico come speravamo: giovani, donne, precari, migranti e minoranze mostrano il fianco scoperto e subiscono più aspramente i colpi di una crisi di queste dimensioni, quale che sia la sua origine. Al “ne usciremo migliori” (appunto, gli slogan di cui dicevamo sopra) non sembriamo più credere davvero, quella genuinità, e ingenuità, collettiva è già svanita e ora i dubbi rimangono, ma forse con alcuni spiragli di luce.
L’economia, innanzitutto. Il corpo di chi è povero ha sintomi identici, se contagiato dalla Covid19, a quello di chi è ricco. Era questo che ci faceva sperare nella “democraticità” della malattia. Ma le cose sono estremamente diverse nei due casi: uno dei problemi nel gestire questa pandemia è che siamo quasi 8 miliardi, qui sul pianeta Terra, e al momento non ci sono test per tutti. Eppure ci sono per chi è ricco. Il famoso 1% della popolazione, quello delle persone molto ricche, probabilmente è già stato testato quasi del tutto. Leggevo una notizia qualche giorno fa che a questo proposito è eloquente: la percentuale di persone testate il Florida, negli Stati Uniti, è circa di una su cento. Ma a Fisher Island, un’isola accessibile solo in barca e abitata da persone con un reddito medio di 2,5 milioni di dollari all’anno, il 100% dei presenti ha già fatto almeno un test sierologico. A Fisher Island ci sono circa 800 residenti, e ben 1800 test sono già stati ordinati e consegnati. Il virus è democratico, potremmo dire, ma non le sue conseguenze e sono solo quelle che contano: i modi in cui il virus si distribuisce, intacca e porta sofferenze, morti, incertezze e spese. I precari hanno perso lavoro, soldi e sicurezze. Le donne hanno abbandonato il lavoro in grandi percentuali e si è cominciato a stilare classifiche di dubbia utilità sui lavori “più importanti” e “meno importanti”. Naturalmente mettendo i sanitari in cima alla classifica dei primi, cosa che dimostra non tanto maturità politica e capacità di giudizio, ma emotività nel gestire una pandemia globale (chi fa lavori inessenziali sarà disoccupato o povero, e né la disoccupazione né la povertà sono cose “meno importanti”).
Ma se i ricchi stanno lasciando le loro case a Miami e a New York per rifugiarsi sugli yacht, sulle isole private o in enclavi in cui nessun povero non testato può rischiare di contagiarli, i poveri invece stanno morendo. Negli Stati Uniti sono 135mila, in Brasile, per il disinteresse e l’omertà dimostrati da chi governa il paese, non vale nemmeno la pena fare affidamento sulle stime ufficiali.
Alla fine della fiera, e tornando così alla domanda iniziale, cosa ci ha lasciato, o cosa lascerà questa pandemia? (La coniugazione del verbo al futuro, forse, è più opportuna, visto che qui in Europa il contagio sembra rallentare ma nel resto del mondo è in costante aumento). Secondo Carlo Ossola (autore di cui avevo parlato a proposito di questo articolo sul riformismo) qualcosa di positivo potremmo davvero riuscire a portarlo a casa, a partire dalla consapevolezza delle conseguenze sanitarie delle disuguaglianze economiche, fino a dei veri e propri insegnamenti morali, come la pazienza, la capacità di adattamento e il bene di sé diffusivo (un attimo e vi dico cosa intende Ossola).
-->C’è da fare una premessa: è difficile dire quanto l’ottimismo, o le legittime speranze, abbiano influito sui nostri giudizi a proposito di cosa ci insegna questa pandemia, idem per il volume di Ossola, Per domani ancora (Olschki Editore), ma il punto è che la risposta a questo quesito è, come molte cose di questi tempi, inconoscibile. Se il nostro sguardo sul mondo sia o meno influenzato dalle nostre proiezioni e speranze è proprio uno dei punti che questa pandemia ha evidenziato: quanto, davvero, conosciamo con certezza di questo nostro mondo? Meno di quanto pensassimo. Credevamo che la medicina e le sue sottodiscipline, come la virologia, fossero popolate da regole rigide, assiomi imprescindibili e studi precisi e scientificamente solidi. Invece ci siamo trovati a brancolare nel buio: serve o no la mascherina? E i guanti? Dubbi e ancora dubbi. Anche questi ambienti di studio, insomma, si sono dimostrati privi di certezze, permeabili a personalismi, opinionismo, protagonismo e derive ideologiche. Pensavamo di vivere nel tempo dell’oggettività, e invece è la soggettività a farla da padrone: il punto di vista, il posizionamento ideologico, il ruolo. Credevamo che le scienze “molli” fossero solo alcune, quelle umanistiche, e invece ci sbagliavamo.
Tornando al saggio di Ossola: sentimenti come l’amicizia e la pazienza, come sostiene l’autore, effettivamente potremmo considerarli parte del nuovo bagaglio di conoscenze (leggi: consapevolezze) lasciatoci sulle spalle dal periodo pandemico che stiamo trascorrendo. Ossola, per dire della pazienza che tutti noi abbiamo sviluppato, o messo alla prova, durante clausure forzate e assenza di socialità, parla della pazienza di Giobbe, quella che “gli permise di non attribuire nulla di ingiusto al Signore”. Chi può negare che siamo diventati, almeno un minimo, più capaci di pazientare?
Poi c’è l’amicizia. Un termine che mai abbiamo visto citato tra le virtù utili ad affrontare il mondo afflitto dal nuovo coronavirus. Ma che effettivamente, se declinato come “gesto di intenerimento, un soffermarsi per riconoscere nel prossimo ciò che ci è comune”, va ammesso che sì, anche l’amicizia ci è servita in questi mesi. E forse ci servirà nuovamente in futuro se il virus tornerà a diffondersi con la violenza che abbiamo conosciuto.
Il bene diffusivo a cui accennavo qualche riga sopra, però, mi sembra l’elemento più interessante di questa breve lista di “consapevolezze”, secondo Ossola, regalateci dalla sofferenza e dalla malattia altrui. Come sosteneva Jean Starobinski, l’intellettuale svizzero appena deceduto, nel suo Azione e reazione (in Italia pubblicato da Einaudi), il male ha una sorta di grande potenza iniziale che ci appare predatoria e strabordante, ma per una legge che appare quasi fisica il bene compie a sua volta un moto uguale e contrario per riuscire a farci i conti, con questo male. Si tratta di pura teoria, va bene, ma l’idea mi sembra appropriata: un male, per quanto insidioso, innesca necessariamente un pensiero su sé stesso. E quel pensiero, essendo umano e funzionale, dovrebbe in certi tempi far affiorare soluzioni. Niente di nuovo, si tratta di capacità di adattamento, tipica della nostra specie, ma che in questa situazione forse dovremmo guardare con occhi particolarmente favorevoli.
Detto ciò, a fare l’elenco delle grazie e delle disgrazie si potrebbe andare avanti all’infinito. Il nuovo coronavirus, come mai avremmo immaginato solo a inizio di quest’anno, è diffuso ovunque nel mondo e nelle diverse società e contesti sociali fa danni e innesca cause-effetto economiche, sanitarie, politiche e gestionali diverse. Tenerne traccia sarà un lavoro collettivo e difficile che necessariamente metterà in luce le nostre nuove capacità. Da qui un’idea: la speranza ultima di tutti, pessimisti e ottimisti, non dovrebbe essere che dalla pandemia “ne usciremo migliori”, ma che saremo capaci di riorganizzare la società con qualche sicurezza fasulla in meno. Per adesso ciò che abbiamo imparato è tutto qui.
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