Errori cognitivi e come evitarli: il pregiudizio di conferma

La psicologia cognitiva può fare del mondo un posto migliore? È ciò che si è chiesta la professoressa Woo-kyoung Ahn che da vent’anni tiene a Yale un corso in cui affronta i cosiddetti “problemi di ragionamento”, errori cognitivi e pregiudizi in grado di influenzare, spesso negativamente, la nostra vita quotidiana.


IN COPERTINA: Miao Xiaochun 缪晓春, Blind Men and An Elephant, 2016

Questo testo è un estratto da Ragionare meglio per vivere meglio di Woo-kyoung Ahn, ringraziamo Aboca per la gentile concessione.


di Woo-kyoung Ahn

Una volta, alla fine di un pomeriggio, mentre, nel mio ufficio, cercavo di concludere il lavoro avviato, ho ricevuto una telefonata da parte di Bisma (nome di fantasia), una studentessa che ho seguito come suo tutor e che è stata uno dei partecipanti più brillanti del mio corso Thinking. Già dal tono di voce appariva smarrita e confusa, sicché io, conoscendola come una di quelle persone che non si lasciano facilmente scoraggiare o deprimere, ho messo subito da parte quello che stavo facendo e le ho dato tutta la mia attenzione.

Mi ha detto che aveva appena lasciato lo studio del suo nuovo dottore. Bisma soffriva, sin dai tempi della scuola media, di problemi di salute rimasti misteriosi. Non riusciva a mandare giù il cibo, soprattutto la mattina; qualche volta la nausea era talmente forte da farle perdere i sensi. Di conseguenza era diventata magrissima. I dottori avevano scartato progressivamente tutte le patologie cui solitamente si pensa in questi casi, come celiachia, ulcere e un cancro allo stomaco, senza però riuscire a scoprire cosa generasse quei sintomi. Si era rivolta a questo nuovo dottore, mi ha detto, perché aveva bisogno che le rinnovasse la prescrizione usuale contro la nausea, prima di partire per un semestre di studio in Nepal e Giordania. Il dottore l’aveva cortesemente ascoltata, durante la descrizione dei sintomi, poi le aveva chiesto: “A lei piace inghiottire?”.

A Bisma era risultato subito chiaro che il dottore pensava che lei fosse anoressica. La cosa l’aveva turbata a tal punto che non riusciva nemmeno a ricordare con precisione il seguito di quella conversazione, che in ogni caso, nella sua ricostruzione, risultava più o meno qualcosa di simile a questo:

Bisma: No, inghiottire non mi piace affatto.

Dottore (pensando: Sta ovviamente negando il suo problema): Ma il cibo, in genere, le piace?

Bisma (chiedendosi come si fa a pensare che qualcuno che, come lei, soffre di seri problemi digestivi cronici possa provare piacere quando mangia): No.

Dottore (pensando: È esattamente quello che pensavo. Ci stiamo avvicinando al punto.): Ha desiderio di uccidersi?

Bisma: No!

A quel punto Bisma era talmente fuori di sé che si era alzata ed era uscita dallo studio. Il dottore, che doveva aver letto quella reazione come una negazione isterica dell’anoressia, che ne confermava e rafforzava la diagnosi, si era evidentemente convinto che la ragazza non stesse solo fuggendo da lui e dal suo studio, ma dal confronto con i propri problemi. L’aveva quindi seguita nella sala d’attesa, gridandole dietro, davanti agli altri pazienti: “Torni qui! Lei ha un problema grave!”. Ma lei era corsa ad infilarsi in auto, poi mi aveva telefonato.

Bisma partì per il suo programma di studio all’estero, che fu però annullato a metà semestre a causa del COVID-19. Nei due mesi di permanenza all’estero, i suoi disturbi scomparvero. Nessuno conosce con certezza le cause delle nausee e della perdita di peso di Bisma, ma lei è convinta di essere allergica a qualcosa che si trova negli Stati Uniti e che il tempo passato lontano dall’area di origine degli allergeni abbia permesso al suo sistema immunitario di normalizzarsi. Quello che invece sappiamo con certezza è che nel periodo successivo a quell’incontro non ha mai ricevuto cure per l’anoressia e che i suoi livelli di stress non possono essersi molto abbassati, nel corso dell’insorgenza e della diffusione di un fenomeno pandemico che mandava all’aria i suoi progetti per il terzo anno d’università.

Adesso sappiamo dunque che la diagnosi di anoressia di quel dottore era sbagliata, ma questo non ci impedisce di riconoscere i motivi per cui il medico, invece, se ne sentiva tanto sicuro. Bisma era estremamente magra; tutte le altre cause più probabili per il suo malessere erano state escluse; lei stessa aveva detto al dottore di non gradire il cibo e aveva mostrato di respingere con forza non usuale ogni possibilità di disturbo psicologico. Dove veramente il dottore era andato fuori strada era nell’ostinazione di porle esclusivamente domande che potessero confermare la propria diagnosi e nel formularle in modo tale da poterne ricavare tale confortante conferma sempre, quale che fosse la risposta di Bisma.

Il test 2-4-6 di Wason

Adesso provate con questo test. Sto per darvi una sequenza di tre numeri. La sequenza è determinata da una regola molto semplice, che dovrete indovinare. Ricordate che la regola riguarda la sequenza: cioè la relazione tra i tre numeri dati. Per trovarla, provate a fare delle ipotesi e verificarle ricavandone ogni volta un’altra sequenza di tre numeri che poi comunicherete a me. Io vi dirò se la sequenza da voi proposta segue la regola, oppure no. Potete propormene quante ne volete. Quando sarete sicuri di aver capito la regola, ditemela. Io poi vi dirò se è anche quella che ho usato io per produrre la mia sequenza.

Pronti? Ecco qui i tre numeri: 2, 4, 6.

Quali sono i tre numeri che proponete? Lasciate che per un attimo vi spieghi cosa accade di solito in un esperimento in cui si usa questo test. Mettiamo che il soggetto che partecipa sia uno studente che si chiama Michael e che io sia lo sperimentatore. Michael mi risponde: 4, 6, 8 e io gli dico che la sua risposta segue la regola. Michael allora pensa che ci ha preso. “Ma è troppo facile”, dice. “La regola è che ci sono numeri pari che crescono di due”. Gli dico che ha sbagliato.

Michael rivede la sua ipotesi. “Bene”, pensa, “forse non è la serie dei numeri pari, forse è solo la crescita di due”. Contento d’aver capito, prova con 3, 5, 7, pensando che gli arriverà un sì. In effetti, io dico “Sì”. Per essere sicuro, prova anche con 13, 15, 17 e ottiene da me un altro sì. Allora, trionfante, dichiara: “Qualsiasi numero più due!”. Gli dico che non è quella. Nel suo SAT (School Assessment Test) di misurazione delle conoscenze in matematica, Michael ha ottenuto il punteggio massimo, sicché la mia risposta è una ferita per il suo ego. Tenta ancora:

Michel: -9, -7, -5.

Io: Sì.

Michael: Mmmm … Ok, come va 1004, 1006, 1008?

Io: Sì.

Michael: Mah!? Ma come fa a non essere l’aggiunta di due?

Michael ha fatto quello che fa la maggior parte dei partecipanti al famoso esperimento 2-4-6 di Peter Wason. Ha verificato la sua ipotesi proponendo solo sequenze che l’avrebbero confermata. Dei dati di conferma sono necessari, ma non sono sufficienti, perché c’è anche bisogno di provare a smentire la vostra ipotesi. Per capire come si fa, torniamo a prendere visione delle sequenze che, come ho detto, confermano la regola. Erano:

2, 4, 6

4, 6, 8

13, 15, 17

-9, -7, -5

1004, 1006, 1008

In effetti questi dati sono compatibili con un numero infinito di regole. Numeri che s’incrementano di due mantenendo lo stesso numero di cifre. Numeri che s’incrementano di due e siano maggiori di -10. Numeri che s’incrementano di due che siano maggiori di -11. E così via.

Ovviamente, non è che si possano andare a controllare tutte queste ipotesi. Il punto è che quando, per spiegare i dati disponibili, di ipotesi ce ne sono troppe, prendere in considerazione solo la prima che ci viene in mente non ci consente di trovare quella giusta, in un caso come questo.

Michael, ragionando così, decide di cercare una regola alternativa: “Numeri che crescono di una stessa quantità”. Per scartare la sua ipotesi precedente e verificare quella nuova, mi dà 3, 6, 9. Io dico “Sì”.

Michael: Ce l’ho. Come va 4, 8, 12?

Io: Sì.

Michael (servendosi di un’equazione improvvisata per mostrare che non è un sempliciotto): OK, sono sicuro che è X + k, dove X è un numero qualsiasi e k una costante.

Io: No.

Quello che Michael dovrebbe cercare di fare è smentire la sua ipotesi un’altra volta. A questo punto, veramente frustrato, genera una sequenza casuale:

Michael: E se dico 4, 12, 13?

Io sorrido e gli dico: Conforme alla regola.

Michael: COOSA?

Questo era il test critico, quello che violava l’ipotesi che in quel momento stava mettendo alla prova. Dopo averci riflettuto per un attimo, Michael mi fa: “5, 4, 3?”

Scuoto la testa: no. La sequenza non segue la regola.

A questo punto, fattosi molto più umile, Michael mi propone: “La regola non potrebbe essere che i numeri devono essere crescenti?”.

“SÌ! Esatto”, gli dico io.

Pregiudizio di conferma

Peter C. Wason è stato uno psicologo cognitivo dello University College di Londra. Ha preparato la famosa prova della sequenza 2-4-6 nel 1960, fornendo la prima dimostrazione sperimentale di quello che ha chiamato pregiudizio di conferma, ossia la nostra tendenza a cercare e creare conferme per ciò in cui già crediamo. In quei giorni, quasi tutti gli psicologi che studiavano le modalità del ragionamento umano davano per scontata la natura logica e razionale degli esseri umani. Come ci si potrebbe attendere da chi ha coniato il termine “pregiudizio di conferma”, Wason ha smentito questa universale credenza.

Nel suo primo esperimento con questo test, fu solo un quinto, circa, dei partecipanti a dare immediatamente la risposta giusta, senza passare per un primo tentativo errato. Wason rimase così sorpreso dal numero di persone che non riuscivano a risolvere un problema che appariva così semplice, che all’inizio pensò che ci potesse essere qualche problema nella formulazione del test e della sua esecuzione e cercò di studiare il modo di porvi rimedio. Quando l’esperimento venne ripetuto a Harvard, ai partecipanti fu detto che avevano a disposizione un solo tentativo per dare la risposta giusta. Wason sperava che questo potesse indurli a non essere troppo frettolosi. Ma anche così, il 73% dei partecipanti diede una risposta sbagliata.

Alcuni arrivarono persino a insistere: “Non posso essermi sbagliato, perché la mia regola funziona con quei numeri”, o anche: “Le regole sono relative. Se il partecipante fosse lei e lo sperimentatore io, sarei io ad avere ragione”. A un partecipante non venne in mente alcuna regola, ma gli accadde di manifestare sintomi psicotici nel corso dell’esperimento – chi sa mai perché – e dovette essere trasferito di corsa in ospedale, con l’intervento di un’ambulanza. Un altro se ne uscì con una regola decisamente impressionante: “O il primo numero equivale al secondo meno due e il terzo è casuale, ma maggiore del secondo, oppure il terzo numero equivale al secondo più due e il primo è casuale, ma minore del secondo”. Seguitò ad arrovellarsi sulla questione per cinquanta minuti, prima di arrendersi.

Adesso, tenendo in mente l’esperimento 2, 4, 6, ripensiamo l’incontro tra Bisma e il dottore. Costui le diagnosticò un’anoressia e poi le rivolse solo domande che potessero confermare il proprio giudizio. Di conseguenza, tutti i dati da lui raccolti erano positivi: una donna giovane che rigurgita spesso quanto ha ingerito, è molto magra, non ama il cibo e ha reazioni esagerate a domande su suoi possibili problemi psichici. Tuttavia anche qui, come con il test 2, 4, 6, c’era un numero infinito di altre spiegazioni possibili, perfettamente compatibili con i dati oggettivi. Il dottore non si era nemmeno fermato a considerare per un momento un’alternativa del tutto plausibile: che Bisma avesse un disturbo non comune, che la obbligava a respingere ed espellere quello che stava inghiottendo e che non ne potesse più dei dottori che non riuscivano a comprendere il suo problema. Per indagare su questa possibilità, avrebbe dovuto porle domande del tipo: “Quando gli altri le dicono che è troppo magra, lei pensa per caso di essere grassa?”. “Il fatto di sentirsi piena la fa stare male?”. Bisma sarebbe stata ben felice di poter rispondere con un “no” a entrambe queste domande, che avrebbero segnalato al dottore la possibilità di un proprio errore diagnostico.

Acqua di Evian

Ci sono circostanze nelle quali si viene portati fuori strada dal modo in cui altri ci presentano prove per confermare il loro messaggio, come nel caso di un annuncio pubblicitario per l’acqua minerale Evian che circolava nel Regno Unito nel 2004. Il messaggio era l’immagine di una bellissima donna nuda, il cui corpo era parzialmente coperto da una bicicletta, che esibiva orgogliosamente una pelle perfetta e lucente. Il testo in basso, sotto la foto, diceva: Rendete la vostra pelle così bella da volerla mostrare. Il 79% di coloro che bevono giornalmente un litro in più di pura acqua naturale Evian nota che la propria pelle appare più liscia, più idratata e quindi visibilmente più giovane.

Suona molto convincente. Però, prima che ordiniate una cassa di acqua minerale Evian, per preparavi alla vostra prossima esibizione in una spiaggia, ricordatevi del test 2-4-6. La regola si è rivelata molto più ampia e semplice delle ipotesi avanzate da soggetti come Michael: non si trattava affatto di un’equazione complessa, ma di un semplice incremento, costante, ma non definito. E così anche la verità che sta dietro al 79% citato in quell’annuncio potrebbe essere che bere un litro di più di qualsiasi tipo di acqua può produrre una pelle lucente, visibilmente ringiovanita, che quell’acqua sia Poland Spring, Fiji, Dasani o venga magari dal rubinetto, costando anche meno. I lettori della pubblicità Evian che non prendano in considerazione questa possibilità restano vittime del pregiudizio di conferma, che li induce erroneamente a pensare che solo l’acqua Evian possa far apparire la pelle più giovane.

Perché mai il pregiudizio di conferma dovrebbe essere tanto pericoloso?

Sino a questo punto, si può avere l’impressione che il pregiudizio di conferma non sia poi tanto rovinoso per coloro che ne sono vittime. Il test 2-4-6 sembra ambiguo, intenzionalmente progettato per trarre in inganno, sicché chi non lo supera non riporta alcuna ferita permanente da quel fallimento. La diagnosi sbagliata di anoressia ha ferito Bisma, ma non certo il dottore che l’aveva formulata sulla spinta del proprio pregiudizio. Nella vita reale non disponiamo di scienziati che ci seguono per correggerci, avvertendoci quando le nostre conclusioni sono errate, sicché molti di noi non sapranno mai come e quanto spesso quel pregiudizio li abbia sviati. Il dottore di Bisma non saprà mai che la sua diagnosi era sbagliata, a meno che non legga questo libro. Allora, se è probabile che chi si è lasciato depistare dal pregiudizio di conferma possa benissimo giungere a non accorgersi mai dei suoi errori, dobbiamo credere che possa veramente venirne direttamente, e personalmente, danneggiato? La risposta è un sì, decisamente. Quel pregiudizio può fare molto male, a livello di individui e di società.

Come si possono ferire le persone

Cominciamo dagli individui. Questo pregiudizio ci spinge ad avere un’immagine scorretta di noi stessi. Vado a spiegare come può succedere.

Sono molti, fra noi, quelli che vorrebbero conoscersi e comprendersi meglio, saper cogliere con massima onestà la propria posizione, nella vita e nel mondo. Si pongono domande come: “C’è qualcosa che non va nel mio matrimonio?”, “Sono una persona competente?”, “Sono affidabile?”. Vogliamo risposte oggettive, precise e chiare sulla nostra personalità, il nostro quoziente di intelligenza e la nostra intelligenza emozionale, la nostra età “reale”. È questo intenso interesse per sé stessi che spiega la proliferazione di tutti i test che appaiono in internet e sulle riviste, con titoli come “Cosa dice su di voi il/la vostro/a _______?” (Potete riempire lo spazio bianco con calligrafia, musica preferita, cibo preferito, film preferito, romanzo preferito, a vostra scelta.)

Immaginate che una persona che si chiama Fred sia colpita da un annuncio internet che chiede: “Soffrite di ansia sociale?”. Fred è curioso, sicché spende un dollaro e novantanove centesimi per fare il test. Quando ha terminato, apprende che la sua ansia sociale è alta, perché lo colloca nel settantaquattresimo percentile, cioè nel 26% che più soffre di sociopatia. Fred all’inizio è scettico, però, ora che ci pensa su, scopre che ci sono stati dei momenti in cui è divenuto ansioso, in società. Nell’ultimo incontro del suo gruppo di lavoro, per esempio, ha avuto delle difficoltà ad articolare con chiarezza il proprio pensiero e l’idea di affrontare un cocktail party lo fa stare male. Come nel test 2-4-6, però, si è dimenticato di ripescare esperienze di segno contrario: per esempio l’incontro del suo gruppo di lavoro di tre settimane fa, nel quale, senza lasciar traspirare neppure una goccia di sudore, ha puntualizzato chiaramente gli errori della attuale politica aziendale, oppure il fatto che in genere gli piace parlare in compagnia, fuori dalla circostanza fastidiosa dei cocktail party. Sfortunatamente, però, si è convinto che trovarsi in società lo metta in ansia, così è possibile che adesso eviti gli incontri sociali molto più spesso di quanto non abbia mai fatto prima. Questo è un esempio di quelle che si chiamano profezie che si autorealizzano.

Ecco un altro esempio di pregiudizi di conferma realmente dannosi per chi ne sia vittima, coinvolgendo, questa volta, un tipo di tecnologia decisamente avanzata: i test del DNA. Ai nostri giorni è facile procurarsi un profilo genetico, grazie a compagnie in contatto-diretto-col-consumatore come 23andME. Vi basta sborsare 100 dollari e scoprirete quali sono le vostre predisposizioni genetiche dal punto di vista sanitario, insomma se avete in famiglia una qualche tendenza al diabete di tipo 2 o allo sviluppo di un tumore al seno o alle ovaie. In base alla stima di una ricerca, si calcola che, nella prima parte del 2019, negli Stati Uniti erano state più di 26 milioni le persone che avevano chiesto e ottenuto un test genetico strettamente diretto-al-consumatore.

È però anche facile che i risultati di questi test vengano letti in modo profondamente sbagliato. Qualcuno può credere che siano i geni a determinare la nostra vita (il che non è ovviamente vero, perché i geni non possono agire se non in interazione con l’ambiente).

Anche chi non attribuisce ai geni un assoluto dominio sul proprio destino, però, può finire per essere spinto dal pregiudizio di conferma a rivedere e riscrivere la propria storia personale, dandole il senso di una cosciente, volontaria assunzione del verdetto genetico risultante dal test. In una ricerca condotta in collaborazione con Matt Lebowitz, già mio studente per il dottorato e ora assistente presso la Columbia University, abbiamo indagato proprio su questo possibile atteggiamento.

Abbiamo iniziato reclutando migliaia di volontari, che acconsentivano a inviarci il loro indirizzo, per poter ricevere a casa propria il materiale del nostro esperimento; fu anche detto loro che sarebbero stati ricompensati per la partecipazione. Il materiale ricevuto comprendeva istruzioni per accedere all’esperimento online e un piccolo contenitore in plastica, con un’etichetta su cui si leggeva: “Kit per la conduzione personale di un test della saliva, per l’acido 5-idrossiindolacetico”, “Made in USA” e una data di scadenza. Dopo che si era ricevuto online il loro consenso informato, ai partecipanti veniva spiegato che una parte della ricerca comportava, da parte loro, l’autosomministrazione di un test salivare che avrebbe misurato la loro predisposizione generica alla depressione (i partecipanti stessi erano liberi di ritirarsi dalla ricerca in qualsiasi momento, senza perdere il diritto al compenso dovuto).

Venivano quindi trasmesse loro le istruzioni per aprire il contenitore in plastica ed estrarne una fiala di collutorio e una striscia reattiva. La richiesta successiva era quella di sciacquarsi la bocca col collutorio e di sputarlo al termine dell’operazione. Non veniva loro detto che la fiala conteneva soltanto comunissimo collutorio, cui i miei assistenti nella ricerca avevano aggiunto un po’ di zucchero. A questo punto ai partecipanti veniva richiesto di porsi in bocca, sotto la lingua, la striscia reattiva. Le istruzioni specificavano che la striscia era sensibile all’acido 5-idrossiindolacetico, che si utilizza per rilevare la suscettibilità genetica a forme gravi di depressione. In realtà era una striscia reattiva al glucosio, che, posta sotto la lingua, cambiava immediatamente colore sotto i loro occhi, a causa dello zucchero aggiunto al collutorio tenuto in bocca poco prima. I partecipanti indicavano il colore che avevano visto, identificandolo su una serie di possibilità cromatiche loro offerte, e restavano in attesa della comunicazione del suo significato, che era stata presentata come imminente.

A quel punto, il programma prevedeva una divisione casuale dei partecipanti in due gruppi distinti. Ad uno veniva comunicato che il colore apparso indicava l’assenza in loro di una predisposizione a un tipo grave di depressione; all’altro, ovviamente, se ne comunicava la presenza. Potremmo chiamarli rispettivamente gruppo del gene assente e gruppo del gene presente.

Dopo aver ricevuto questa comunicazione, i partecipanti dovevano rispondere al questionario del Beck Inventory Depression II, più noto come BDI-II. Si tratta appunto di una serie di domande, convalidata dal largo uso, su presenza e livelli di vari sintomi depressivi nei partecipanti, nel corso delle due settimane precedenti il test. Per esempio, alla voce “tristezza” avrebbero dovuto scegliere tra “Non mi sento triste”, “Mi sento triste”, “Sono sempre triste e non riesco a uscirne” e “Sono così triste o infelice che non riesco più a sopportarlo”.

Non avevamo nessuna possibilità di verificare se le risposte riflettessero puntualmente il vissuto dei partecipanti in quelle due settimane. Una cosa che invece possiamo dire è che non avevamo alcuna ragione di pensare che fra i due gruppi ci potessero essere motivi di chiara differenziazione nella tendenza a cadere in stati depressivi, data l’assoluta casualità della formazione dei gruppi stessi e della distribuzione dei presunti verdetti di predisposizione genetica. C’era indubbiamente la possibilità che qualche partecipante avesse trascorso due settimane molto peggiori di quelle degli altri, però la ricordata casualità dell’assegnazione ai gruppi e l’alto numero dei partecipanti rendevano estremamente improbabile un’alta concentrazione di questi casi in un gruppo particolare.

Nondimeno, il gruppo gene-presente ottenne, nella compilazione del BDI-II, punteggi decisamente più elevati dell’altro. Insomma, anche se i presunti verdetti di predisposizione genetica erano stati distribuiti a caso fra i partecipanti, quelli di loro cui fu diagnosticata una tendenza a cadere in stati depressivi registrarono, per le due settimane precedenti, un numero e una gravità di momenti depressivi superiori rispetto a coloro cui era stata comunicata l’assenza di tendenze depressive genetiche. Inoltre, il punteggio medio BDI-II del gruppo gene-assente risultava di 11.1, un livello che esclude di fatto uno stato di depressione, mentre il gruppo gene-presente si assestava su un punteggio medio di 16.0, che dovrebbe indicare la presenza di uno stato depressivo.

Non ci vuole molto a spiegare questa pseudodepressione, se si considera il pregiudizio di conferma. Dopo aver appreso la propria predisposizione genetica a sviluppare gravi depressioni, i partecipanti del gruppo gene-presente debbono essersi messi a cercare tutti i momenti in cui si erano sentiti un po’ giù, per giustificare i “risultati del test genetico” e dare loro un senso. Potrebbero essere andati a ricordare la notte in cui non erano riusciti a prendere sonno prima delle due, la mattina in cui si sentivano assolutamente non motivati ad andare al lavoro o quel giorno nella metropolitana in cui non riuscivano più a smettere di pensare al significato della loro vita. La testarda raccolta di tutte quelle minuziose testimonianze confermative deve averli spinti a far sì che quelle due settimane divenissero, nel ricordo artefatto della convinzione, molto più buie e deprimenti di quanto lo erano state vivendole.

Prima di proseguire, però, mi piacerebbe esprimermi con chiarezza sul carattere manipolatorio e menzognero di ricerche come questa, un tema sul quale ricevo assai spesso richieste di spiegazioni e maggiore informazione. La procedura seguita in questo studio fu messa a punto dopo un ampio e dettagliato esame presso l’organismo istituzionalmente competente, la commissione, chiamata Yale University’s Institutional Review Board, che ha il compito di tutelare i soggetti umani della ricerca. Al termine del nostro studio, i partecipanti furono informati della simulazione in cui erano stati coinvolti e del valore scientifico dell’operazione: erano state loro fornite anche le informazioni necessarie per mettersi in contatto con noi. A oggi, non abbiamo avuto denunce di effetti negativi o danni di alcun tipo. Una partecipante ci ha inviato una richiesta email per conoscere la marca del collutorio da noi impiegato, dicendo che tutti i collutori presenti sul mercato le erano apparsi decisamente sgradevoli, ma che il nostro aveva un sapore veramente buono. Siamo stati costretti a ricordarle l’aggiunta di zucchero.

Per un accidentale fraintendimento, abbiamo raccolto, per la misura della forza del pregiudizio di conferma, più dati e testimonianze di quelli che avevamo prefissato. Avevamo da poco iniziato a svolgere la ricerca, quando ci è arrivata la chiamata telefonica di un agente della polizia di Atlanta, Georgia, che ci ha parlato di una donna che aveva consegnato un pacco sospetto, che le era stato recapitato con la posta, sul quale la polizia locale aveva trovato il nostro numero telefonico. Il poliziotto ha riferito pure che la donna aveva detto di aver chiesto ai membri della famiglia, ma che nessuno di loro rivendicava quel pacco e anzi dichiaravano tutti di non avere ordinato niente. La cosa interessante è che la stessa donna aveva anche riferito che, all’arrivo in casa del pacco, tutti i membri della famiglia avevano cominciato a sentire un forte prurito! Avevano temuto che il pacco potesse contenere qualcosa di pericoloso come l’antrace ed erano quindi certi che il loro prurito fosse stato prodotto dal contenuto di quel pacco misterioso. Sicché adesso avevamo anche un caso di pregiudizio di conferma ricavata da un episodio di vita reale!

La donna che andò a portare quel pacco alla polizia perse soltanto un’ora o due e il membro della famiglia che si era impegnato firmando di partecipare all’esperimento, ma poi negò di averlo fatto, perse solo i dieci dollari previsti per la partecipazione. Ma il tipo di pregiudizio di conferma che veniva in piena luce in quell’esperimento, come anche nella mia precedente conduzione di un test di personalità, illustra di quel pregiudizio un pericolo potenzialmente anche più radicale: sto parlando del circolo vizioso che si verifica quando iniziate con l’azzardare un’ipotesi da mettere alla prova, che sottoponete però solo a verifiche che promettano di essere confermative, così da avvalorarla, ma in una formulazione divenuta più radicale ed estrema, che quindi v’impone nuove verifiche, ricavandone ancora conferme e radicalizzazione e avvitandovi in una spirale che pare senza fine.

Nessun test, genetico o di personalità che sia, può fornire la risposta definitiva, quando ci si chiede chi o cosa una persona realmente sia. I risultati di questi test restano sempre solo delle probabilità. Dipende dalla loro imperfezione, ma dipende pure, e questo è più importante, dal modo in cui è fatto il mondo. Per esempio, il gene BRCA1, divenuto famoso per la decisione di Angelina Jolie di sottoporsi a una mastectomia bilaterale dopo aver appreso di esserne portatrice, è considerato una delle varianti genetiche di maggior potere informativo, consentendo una previsione di probabilità di tumore al seno dell’ordine variante tra il 60 e il 90%. Un tale potere predittivo è però estremamente raro, perché a determinare i risultati finali intervengono sempre molti, moltissimi fattori genetici, accompagnati costantemente da una molteplicità di interazioni tra geni diversi. E, allo stesso modo, anche i test di personalità, che vennero realizzati per l’assunzione a posti di lavoro, per consulenza, orientamento e anche comprensione di noi stessi, ci forniscono un’informazione astratta dal suo contesto: è possibile che una persona che si mostra cordiale e disponibile nell’esecuzione di un test non lo sia più in un altro contesto o se gli viene proposto un compito diverso.

Non sto negando l’utilità di questo tipo di test. Ho in programma di sottopormi a breve a un test genetico personalizzato, per capire quali possano essere i rischi per la mia salute ed essere più pronta ad agire quando si tratti di aspetti della mia vita che possono essere tenuti sotto controllo. E poi anche comprendere meglio dove mi collochi, nel quadro complessivo dei miei simili e dei loro comportamenti medi, in termini di introversione/estroversione e di apertura mentale, può portarmi a qualche utile intuizione sugli aspetti più profondi del mio interagire sociale.

Resta comunque vero che il pregiudizio di conferma può indurci ad accogliere una visione di noi stessi più esagerata e meno valida. Una volta che si comincia a pensare di essere realmente depressi, è possibile che si adotti anche il comportamento delle persone depresse, si inizino a formulare previsioni profondamente pessimistiche sul futuro, a evitare tutte le attività che possano essere divertenti, un comportamento, questo, che potrebbe deprimere chiunque. La cosa si ripete anche con l’insorgere di dubbi sulle proprie personali competenze: una volta che si comincia a dubitarne è possibile che si evitino tutte quelle situazioni di rischio che potrebbero però garantire grandi e rapidi progressi in carriera, per cui non è sorprendente se, nella mediocrità dei compiti assunti, si finisce col dare l’impressione di un’uguale mediocrità di capacità e competenze. Ma si può anche deviare nella direzione esattamente opposta: possiamo dare una valutazione eccessivamente positiva di noi stessi, ricordando puntigliosamente i successi e dimenticando ogni fallimento, per finire quindi in una condizione altrettanto infausta. È proprio a causa della possibilità di questi circoli viziosi che il pregiudizio di conferma mi appare il peggiore di tutti i pregiudizi cognitivi che conosco.


Woo-kyoung Ahn è professoressa di psicologia John Hay Whitney e direttore del Thinking Lab dell’Università di Yale.

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