Errori preziosi: bug e glitch nei videogiochi



Errori e malfunzionamenti si inseriscono spesso nell’esperienza ludica, ma cosa significa “rompere” un videogioco?


In copertina e nel testo: uno screen catturato da nathalie Lawhead

Questo testo è estratto da UDO di Matteo Lupetti. Ringraziamo l’autore e Tebe (SIDO editore) per la gentile concessione.


di Matteo Lupetti

Lǝ sviluppatorǝ di videogiochi Nathalie Lawhead uccide un nemico nel videogioco Assassin’s Creed Origins, ambientato in Egitto tra l’anno 50 e il 40 avanti Cristo. Dopo averlo ucciso, Lawhead decide di portarselo dietro come trofeo, caricandone il corpo su un cavallo. Nel tempo, a forza di essere caricato, scaricato, trasportato, il modello del nemico e i suoi abiti cominciano a degradarsi, perché Assassin’s Creed Origins non è pensato per gestire questi cadaveri digitali per un periodo così lungo e attraverso tante interazioni e tanti spostamenti. “Dopo un po’, ogni volta che lo sollevavo, vedevo che i suoi abiti restavano indietro e mi trovavo tra le braccia qualcosa di simile a un corpo nudo. Parti del personaggio erano assenti dove si sarebbero dovuti trovare gli abiti. Divenne strano, geometrico e distorto” scrive Lawhead sul suo blog. Il cadavere inizia a putrefarsi digitalmente, fino a dover essere abbandonato perché non è più possibile gestirlo. Lawhead ha rotto il videogioco.

Il termine che ho usato, “rotto”, merita qualche spiegazione in più. Quello che Lawhead ha incontrato è ciò che viene considerato un errore del software, uno di quei fenomeni chiamati bug (problemi dovuti a come il software è stato scritto) o glitch (problemi temporanei dovuti al funzionamento del software sull’hardware), ben distinti dagli errori nella progettazione della macchina stessa. Anche se si tende a sovrapporre e utilizzare come sinonimi i termini bug e glitch, il secondo assume più il senso di “un percepibile malfunzionamento di un sistema”, come scrivono Olga Goriunova e Alexei Shulgin in Software Studies: A Lexicon, curato da Matthew Fuller per The MIT Press (2008). Il glitch è un fenomeno visibile, o comunque sensibile, che ricolleghiamo a qualcosa che consideriamo un errore. Da questo punto di vista, il bug è nel codice, mentre il glitch è nell’esperienza di chi gioca.

Quando un software viene rilasciato presenta sempre qualcosa di indesiderato che lo studio di sviluppo non ha notato, o che ha notato ma non ha corretto, per scelta o necessità, a causa di limiti di tempo o di budget.

Nei videogiochi esistono bug di tutti i tipi. Personaggi e oggetti possono finire fuori da quelli che normalmente sarebbero i confini della mappa di gioco, o possono compiere movimenti che dovrebbero essere loro preclusi, o non riescono a compiere movimenti che invece dovrebbero poter compiere. Grafiche o animazioni risultano diverse da quelle volute dallo studio di sviluppo. Numeri cambiano in modo inatteso. Personaggi controllati dal software si comportano in modo diverso dalle aspettative. Eventi accadono più lentamente, più velocemente, più spesso o meno spesso rispetto a quanto previsto, si interrompono improvvisamente o non accadono affatto. E i software possono anche funzionare in modi indesiderati su certi hardware a causa di come sono stati programmati.

Anche in questi momenti, hardware e software non stanno effettivamente compiendo errori, poiché la macchina sta correttamente eseguendo il codice del videogioco come è stato scritto. “Da un punto di vista non umano, incentrato sulla macchina, nozioni ermeneutiche come ‘incomprensione’ perdono molto della loro rilevanza” spiega Wolfgang Ernst in Miscommunications. Errors, Mistakes, Media, curato da Maria Korolkova e Timothy Barker per Bloomsbury (2021). “Quel che l’uso umano dei media considera un ‘errore’ ha perfettamente senso se visto in termini di comportamento dell’hardware (quindi a un livello tecnico) e di implementazione del software (quindi a un livello logico)”. Sia il bug sia il glitch stanno cioè solo nell’occhio umano che li osserva.

Secondo il tradizionale approccio al videogioco, bug e glitch sono però difetti da punire in sede di recensione e non caratteristiche proprie del software stesso. I computer sono “macchine che sono state pensate per il calcolo e che abbiamo trasformato in macchine per esprimerci”, come mi ha detto il game designer Paolo Pedercini (Molleindustria) durante un’intervista pubblicata sulla rivista menelique. La serie di giochi elettronici portatili a cristalli liquidi Game & Watch di Nintendo, iniziata nel 1980, sembra che sia nata proprio vedendo una persona giocherellare con una calcolatrice in treno, e utilizzava esattamente lo stesso chip usato nelle calcolatrici. Noi, in effetti, continuiamo a valutare la qualità del software proprio come se ci trovassimo di fronte a calcolatrici che devono fare bene i conti.

Oggi parliamo di game-as-a-service, giocoservizi, cioè videogiochi che vengono presentati e utilizzati come servizi, aggiornati costantemente e costantemente espansi per mantenere l’intrattenimento sempre fresco per un pubblico che giochi, e spenda, per lunghi periodi. Definiamo come game-as-a-service solo alcuni videogiochi, eppure di fatto tutti vengono trattati come servizi. “Un videogioco dovrebbe essere pensato perché tutte le persone che ci giocano si possano godere il servizio che fornisce. Perché è qualcosa di simile a un servizio, non è arte” ha dichiarato per esempio lo sviluppatore giapponese Hideo Kojima a Official US Playstation Magazine. Per questo esistono recensioni positive e recensioni negative e ci viene raccomandato di comprare o di non comprare un certo videogioco in base a come svolga il servizio che offre, in base a quanto soddisfi le nostre necessità, in base a quanto bene funzioni.

Tutti i videogiochi sono, in realtà, rotti. Il critico e game designer Ian Bogost scrive infatti che “giocare un gioco è un’incombenza. Questo è il grosso problema dei videogiochi: se volete avere esperienza di quello che offrono vi tocca giocarli. E giocarli vuol dire faticare per manovrarli. I giochi sono macchine, macchine rotte tra l’altro. E il compito di chi ci gioca è rimetterle in funzione”.

Penso che proprio da questo derivi parte del successo di piattaforme di live-streaming di videogiochi come Twitch di Amazon, dove possiamo guardare giocare altre persone. C’è l’aspetto sociale dell’esperienza: guardiamo videogiochi insieme ad altre persone come noi, commentiamo insieme a loro nella chat della piattaforma, interagiamo con chi gioca. C’è l’aspetto performativo di chi sta giocando. C’è poi l’opportunità di vedere azioni di alto livello tecnico, cose di cui noi non saremmo capaci o che dobbiamo ancora imparare a fare. Ma c’è anche meramente il fatto che siamo contentǝ di lasciare a un’altra persona la fatica di riparare e manovrare la macchina videogioco. Lǝ streamer di Twitch è l’equivalente videoludico del coro nel teatro tragico greco, e qualcosa di simile vale anche per le registrazioni di partite giocate (per esempio i video di Let’s Play) disponibili su piattaforme come YouTube: queste persone sono lì per patire al nostro posto.

Il videogioco esiste in questa contraddizione. Siccome per funzionare ha bisogno di essere manovrato, e manovrare un videogioco è impegnativo, preferiremmo fossero altre persone a farlo. Questo fenomeno è evidenziato anche dal fatto che alcune persone usino, o cerchino di usare, software, chiamati bot, capaci di automatizzare parti di videogiochi particolarmente ripetitivi. O dal fatto che molte persone alla fine non completino i videogiochi che acquistano. Per convincerci a operare personalmente il macchinario, e quindi a comprarne una licenza che ci dia accesso al videogioco o a spendere denaro per oliarne gli ingranaggi, chi crea queste opere inserisce meccaniche che vengano recepite come piacevoli. Il videogioco si basa sulla “logica della gratificazione e della ricompensa, elargendo stimoli psicologici positivi” scrive il filosofo Matteo Bittanti. “Titilla e seduce il soggetto, anziché penalizzarlo e paralizzarlo. Laddove la realtà delude, il videogioco illude, definendo le priorità del giocatore, protocollandone i desideri, plasmando le sue ambizioni. Se nel quotidiano le nostre opzioni sono opache, limitate e predefinite, in un videogioco tutto è possibile”. 

Così il videogioco usa i principi sviluppati da secoli di game design per convincerci ad operarlo. Le tecniche di game design sviluppate per il videogioco vengono inoltre applicate in situazioni non ludiche (come la scuola o il lavoro) in quel processo noto come gamification. C’è anche chi con la gamification ha provato a lucrare sulla sensibilizzazione al cambiamento climatico, sostenendo di poter rendere più coinvolgente l’argomento semplicemente aggiungendo una serie di elementi giocosi (punti, classifiche…) e ignorando la complessità sia del videogioco sia dei processi educativi. Se da una parte il gioco è utilizzato nella gamification, dall’altra il videogioco viene esso stesso gamificato, nel tentativo di renderlo almeno tollerabile.

Dal lancio della console Xbox 360 di Microsoft nel 2005 si sono diffusi, nei vari sistemi online di distribuzione e gioco, oggetti digitali noti con diversi nomi: gli Achievement sulla piattaforma Xbox, i Trofei sulla console PlayStation di Sony e gli Obiettivi sulla piattaforma Steam di Valve. Si tratta di riconoscimenti che ci vengono assegnati sul sistema su cui giochiamo per premiarci di alcune azioni compiute all’interno del videogioco. Solitamente la descrizione di questi obiettivi indica ciò che dobbiamo fare per sbloccarli: “completa il gioco in una sessione morendo al massimo cinque volte” recita un Achievement di Limbo di Playdead. Su console Xbox e PlayStation tutti i videogiochi sono obbligati a possedere questi obiettivi, che diventano quindi un ulteriore livello di gamification. Qualsiasi cosa, insomma, pur di convincerci a manovrare questi aggeggi.

Come dice Bogost, però, il videogioco non è solo una macchina che deve essere manovrata: è una macchina rotta che deve essere manovrata. Rotta in un modo preciso: in maniera tale che sia aggiustabile e aggiustata da noi. Anche uno sviluppatore come Hidetaka Miyazaki, noto per una serie di videogiochi reputati particolarmente difficili, afferma di creare videogiochi perché gli piace “il processo di risolvere problemi che possono essere risolti”. Il videogioco ci offre quel senso di controllo, di possibilità di azione, di agency che sentiamo mancare nella nostra esperienza nel mondo reale.

Prendiamo l’esempio di un videogioco in cui a un certo punto troviamo un pannello elettrico il cui funzionamento è necessario per proseguire nella mia avventura. Al pannello elettrico manca un fusibile. Ci aspettiamo che lo studio di sviluppo abbia nascosto da qualche parte il fusibile mancante e che dovremo superare una qualche sfida per recuperarlo. Volendo, lə sviluppatorə avrebbero potuto farci trovare il pannello elettrico già pronto e aggiustato, ma allora sarebbe mancato proprio ciò che chiamiamo gioco e che è, appunto, aggiustare le macchine rotte che ci vengono proposte.

Le macchine rotte dei videogiochi non devono avere davvero l’aspetto di dispositivi da riparare. Per esempio, al posto di un pannello elettrico a cui dobbiamo sostituire un fusibile può esserci una porta chiusa di cui devo trovare la chiave. Oppure potrebbe esserci un personaggio, gestito dal software, che mi chiede di recuperare l’anello di famiglia che gli è stato rubato. Tetris, celebre videogioco ideato da Alexey Pajitnov nel 1984, non è altro che una macchina di cui devo gestire una cascata potenzialmente infinita di pezzi di ricambio cercando di incastrarli in modo tale che il dispositivo torni a funzionare. Cioè, in modo da comporre righe orizzontali complete perché scompaiano. Eppure non definiamo rotti simili videogiochi. Anzi, essi funzionano proprio come noi pensiamo che dovrebbero funzionare.

Torniamo all’esempio del pannello elettrico a cui manca un fusibile. Immaginiamo che per una inattesa combinazione di eventi (combinazione inattesa per noi e per lo studio di sviluppo magari, ma non per il software) durante la nostra partita il fusibile non ci sia. Non si trova. Mai apparso. Magari è apparso, ma per sbaglio è finito altrove, in una zona irraggiungibile del mondo del videogioco. Non chiedetemi come è successo o quale sia la precisa combinazione di eventi che ha provocato questo impiccio: lo studio di sviluppo impiegherà i due mesi successivi al lancio del videogioco per scoprirlo. Ma il fusibile non c’è e ora, soltanto ora, definiamo rotto questo videogioco. Lo definiamo rotto perché sentiamo che non è rotto per noi, perché non riusciamo più a leggere i suoi intenti. Eppure, proprio quando lo avvertiamo come rotto, come inutilizzabile, come non più destinato a noi, il videogioco si mostra per quello che è: non gioco, non servizio, ma un UDO, un oggetto digitale non identificato e non identificabile.

“Uno strumento, quando funziona, opera in modo invisibile, compiendo il suo lavoro senza che ce ne accorgiamo” scrive Graham Harman in Tool-Being: Heidegger and the Metaphysics of Objects (Open Court, 2002) riprendendo concetti espressi dal filosofo nazista Martin Heidegger. “Ma quando lo strumento non funziona come dovrebbe, smette di essere invisibile. La sua presenza diventa improvvisamente un fastidio, e lo strumento diventa visibile per ciò che è”. Ecco il perturbante, lo weird: qualcosa ha smesso di funzionare, di avere senso. Il mondo non è più il nostro mondo.

Il bug è un momento in cui fallisce la solita relazione tra soggetto e oggetto. Come ha spiegato il filosofo cognitivo Andy Clark in Natural-Born Cyborgs: Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence (Oxford University Press, 2003), gli esseri umani sono “cyborg natǝ”, cioè sono capaci di potenziare la propria mente e espanderla al di fuori di quello che normalmente intendiamo essere il nostro corpo, anche senza i cavi e i circuiti collegati al cervello dei cyborg della fantascienza. L’essere umano è cyborg sin dal primo momento in cui ha impugnato un bastone e lo ha usato come un prolungamento del suo corpo, del suo sistema nervoso, della sua mente. Per esempio, usa da millenni carta e penna (o strumenti equivalenti) per calcolare, registrare, tramandare, per delocalizzare il proprio pensiero e permetterne la conservazione e l’analisi, creando artefatti che diventano parte dei suoi quotidiani processi decisionali e che lo stanno diventando sempre di più. Il foglio di carta su cui svolgiamo una moltiplicazione in colonna non è un mero strumento: è un’espansione della nostra mente, una componente esterna a quello che consideriamo essere il nostro corpo. La mente umana è quindi “estesa”, ma è interessante notare come neanche in questo l’essere umano sia unico. È estesa, per esempio, anche la mente dei ragni, che attraverso le loro ragnatele percepiscono e mappano lo spazio.

Pure i videogiochi estendono lǝ nostrǝ mentecorpo. Ci colleghiamo ad essi con il gamepad, la tipica periferica di controllo di una console, o con la combinazione tastiera e mouse usata spesso per giocare su computer, o ancora con uno smartphone e il suo schermo sensibile al tocco. E, a un certo punto, non ci sembra più di star muovendo il mouse: stiamo muovendo lo sguardo del nostro avatar. Anzi, stiamo muovendo il nostro sguardo nel videogioco. Non stiamo più premendo un qualche bottone colorato. Stiamo saltando. Se il personaggio principale incontra un mostro siamo noi ad avere paura per la nostra incolumità. Siamo un’unica cosa con il videogioco, con il suo codice e il suo hardware. Se il videogioco è pensato per funzionare online, attraverso la rete internet diventiamo un unico circuito con server remoti, con altre macchine e altre persone. Fin quando questa rete cyborg non si interrompe, magari proprio a causa di un glitch o un bug.

Allora, anche solo per un momento, la nostra mente retrocede, o non riesce ad avanzare, non riesce a espandersi, e allora l’oggetto che teniamo in mano si svela come altro da noi. Clark distingue tra tecnologie trasparenti, cioè tecnologie tanto integrate nelle nostre vite da essere ormai “quasi invisibili quando le usiamo”, e tecnologie invece opache, tecnologie che mentre vengono usate restano al centro della nostra attenzione. Uno strumento può passare da essere trasparente a essere opaco, e viceversa, anche più volte. Ad esempio, prima di imparare bene a scrivere, la penna era per me una tecnologia opaca. Ora non ci faccio più caso, non mi accorgo di star impugnando una penna come non do particolare attenzione all’atto di scrivere (un’altra tecnologia), e posso concentrarmi solo su ciò che sto scrivendo. Ora è trasparente. Se la penna che sto usando si rompe, però, torno immediatamente cosciente del suo essere strumento, di come è fatta e di come è costruita e quindi di come si è rotta: la penna è tornata opaca, grazie a un bug.

Anche il fumettista Scott McCloud nota questa transizione nel suo saggio Understanding Comics, quando spiega come il fumetto, e in particolar modo quello giapponese, possa alternare e combinare sintesi grafiche più o meno realistiche. Per esempio, i personaggi principali di una storia possono essere rappresentati con sintesi grafiche in stile cartoon per favorire l’identificazione di chi legge: un altro processo che potremmo vedere come formazione di un cyborg. Gli sfondi dello stesso fumetto, invece, possono essere sintetizzati in modo più realistico, perché rappresentano una realtà sensibile destinata a essere guardata, e non abitata, da noi. Così, una spada potrebbe essere resa in modo cartoon quando è impugnata da un personaggio principale disegnato in stile cartoon: non è solo la sua spada, ma è integralmente parte del personaggio stesso. Poi il personaggio si ferma un momento e la osserva, magari per notarne un dettaglio che non aveva mai visto prima: davvero la spada che suǝ nonnǝ lǝ ha donato è la leggendaria Snocciolatrice? Se fosse… qui in alto dovrebbe esserci il segno lasciato dalla sua antica lotta contro la Grande Oliva e… il segno è proprio qui! Ed ecco che in questa vignetta la spada guardata con tanta attenzione è rappresentata dettagliatamente e più realisticamente, perché è tornata a essere altro rispetto al personaggio principale.

Alcuni videogiochi rendono complicata, anche solo per errore, la trasparente ibridazione di essere umano, software e hardware. Le interfacce che ci dovrebbero permettere di diventare parte del circuito ci sono invece ostili, causano attrito. Per esempio i controlli potrebbero non essere chiari o non causare le risposte attese: non capiamo quali tasti dobbiamo premere, non capiamo la loro funzione, o in certo casi non capiamo proprio la forma e il funzionamento della periferica che usiamo per manipolare l’esperienza. È la sensazione che mi dava, soprattutto durante le mie prime partite, Star Fox (o Starwing) di Argonaut e Nintendo, uscito per la console a cartucce Super Nintendo (Super Famicom in Giappone) nel 1993. Star Fox è un videogioco fantascientifico fortemente ispirato alla serie cinematografica Star Wars, con animali antropomorfi come personaggi. È capace di calcolare e visualizzare oggetti tridimensionali, dotati di un loro volume, grazie a quello che viene considerato uno dei primi acceleratori grafici (ovvero chip dedicati unicamente alla grafica di un software), il chip Super FX, incluso all’interno della cartuccia stessa del videogioco.

I controlli di Star Fox sono piuttosto convenzionali. Come in molti altri videogiochi, anche odierni, dirigo ciò che avverto come movimento del mio avatar (il corpo digitale che mi rappresenta nello spazio virtuale, in questo caso un’astronave) con le dita della mia mano sinistra, mentre attivo azioni, anch’esse piuttosto convenzionali, con le dita della mia mano destra. Sparo, lancio bombe, accelero e decelero brevemente. Il sistema di controllo stesso del Super Nintendo, il suo gamepad, è pensato per supportare questa organizzazione. Oggi i sistemi di controllo di quasi tutti i videogiochi per computer e console e di molti per smartphone sono organizzati in modo simile, con una conseguente standardizzazione delle esperienze possibili e una certa indifferenza per l’hardware su cui possono girare. Ma non è sempre stato così. Per esempio, il joystick con cui muovo il personaggio nei videogiochi per l’Atari 2600, uscito nel 1977, è pensato per essere usato con la mano destra, mentre il suo unico tasto si trova sulla base, a sinistra. E il joystick con cui viene controllato il movimento del protagonista di Pac-Man, uscito nel 1980, è posizionato al centro della sua macchina per le sale giochi, e quindi viene abitualmente manipolato con la mano destra, almeno dalle persone destrorse.

I controlli di Star Fox sono anche pensati per essere padroneggiati. Eppure, Star Fox è un videogioco che mi ha sempre fatto un po’ sentire di fronte a un manufatto alieno, ed è questa sensazione a rendermelo interessante. I suoi controlli sono lenti, non sembrano mai rispondere come dovrebbero, non sembrano ubbidirmi. Persino il fatto che all’inizio della partita Star Fox mi chieda di scegliere tra quattro configurazioni alternative per i comandi (un’opzione piuttosto comune) mi sembra qui l’ammissione di una insicurezza. Anche la sua grafica ha un aspetto alieno. Il pulviscolo spaziale è fatto di singoli pixel bianchi, rossi, gialli e blu, le astronavi e le architetture sono semplici e geometriche, quasi astratte, come se non cercassero di rappresentare (come invece cercano di fare) città e stazioni spaziali realizzate con tecnologie fantascientifiche ma comunque riconoscibili. In alcuni livelli è possibile passare da una visuale esterna all’astronave che controllo a una visuale interna alla sua cabina di pilotaggio. Questo punto di vista semplifica mirare alle astronavi nemiche ma a volte complica navigare nello spazio, disorientandomi all’interno di quelli che sono, in realtà, percorsi lineari in cui è impossibile perdermi.

Star Fox è, almeno inizialmente, opaco. Non era raro all’epoca: spesso non era possibile iniziare a giocare a un videogioco appena acquistato senza aver letto un manuale cartaceo che ne spiegava le meccaniche e dava alle mie azioni un qualche contesto narrativo. La situazione negli anni è molto cambiata: i videogiochi hanno cercato una sempre maggior trasparenza, fino agli odierni videogiochi su smartphone, spesso giocabili con i semplici movimenti delle dita con cui agiamo quotidianamente su questi dispositivi, dopo una breve sezione educativa, un tutorial, parte del gioco stesso.

La completa trasparenza di una tecnologia è però pericolosa. Cito spesso un’affermazione di Andrew Wilson, CEO della grande multinazionale videoludica Electronic Arts, nota oggi soprattutto per i suoi videogiochi sportivi e per la serie The Sims. “Ci sarà un futuro non troppo lontano in cui il videogioco smetterà di essere un’esperienza discreta e conscia per diventare un’esperienza indiscreta e subconscia”.

Wilson stava ipotizzando, e non è lǝ solǝ, un prossimo futuro del medium videoludico in cui avremo sempre accesso a opere continuamente aggiornate (i giocoservizi di cui scrivevo prima), indipendentemente da quale dispositivo usiamo. È possibile, e infatti già avviene, far girare un videogioco su una macchina remota, con cui comunico online. I miei input, i tasti che premo, vengono comunicati via internet alla macchina, e via internet mi arriva il suo segnale audiovisivo, in streaming. Questo vuol dire che, con la corretta periferica di controllo e una connessione internet abbastanza veloce, posso giocare a qualsiasi videogioco su qualsiasi dispositivo, anche su uno smartphone di scarsa potenza, poiché comunque è un’altra macchina a farlo girare.

Si tratta di una tecnologia potenzialmente ubiqua e trasparente. Videogiochi ovunque, in qualsiasi momento, senza barriere di ingresso, su dispositivi comuni, senza doversi preoccupare di guasti dell’hardware, riparazioni, aggiornamenti. Senza dover ormai più neanche vedere, conoscere e capire l’hardware che fa girare questi videogiochi. Come dice Wilson, “un’esperienza indiscreta e subconscia”.

Il problema è che una tecnologia perfettamente trasparente, una tecnologia invisibile nella sua applicazione, è una tecnologia che non possiamo rompere, smontare, capire, rielaborare. È una tecnologia che non vediamo, ma che neanche si lascia vedere dentro. Invece Clark, anch’egli ricollegandosi a Heidegger, afferma che “l’uso efficace di uno strumento spesso necessita di un continuo passaggio tra invisibilità durante l’uso e possibilità di capire e investigare lo strumento stesso”. Cioè tra trasparenza e opacità.

Discutendo di Star Fox ho già parlato di un senso di disorientamento e, in effetti, l’incontro con bug e glitch è disorientante. “Ciò che avviene quando qualcosa non funziona come pensiamo che dovrebbe è un errore di orientamento” scrive la ricercatrice Sara Ahmed in Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others (Duke University Press, 2006). “Nel disorientamento avvengono errori di orientamento: corpi abitano spazi che non estendono la loro forma o usano corpi che non estendono le loro capacità”. Ma il disorientamento provocato da un bug o da un videogioco come Star Fox, il momento in cui una tecnologia smette di essere trasparente, è anche un’opportunità di riorientamento, l’opportunità di capire l’UDO e di ripensare il nostro rapporto con esso.

Potrei inoltre dire che questo disorientamento è queer. Con queer non sto indicando in modo specifico orientamenti sessuali non eterosessuali o identità di genere non cisgenere, non sto insomma dicendo che i bug siano gay o trans. E, soprattutto, collegando queerness (l’essere queer) al disorientamento non sto dicendo che le persone gay hanno un po’ perso la bussola. Quella roba tipo “Sarà solo una fase, sei disorientatǝ” che le persone etero dicono a quelle gay, le persone cis dicono alle persone trans binarie e tuttǝ dicono alle persone bisessuali, pansessuali e non binarie.

Con queer sto indicando, più in generale, tutte le deviazioni da ciò che è socialmente considerato normale perché normato, perché “si è sempre fatto così”. “Il termine ‘queer’ non si riferisce solo alle sessualità non normate ma a tutti i momenti in cui una qualche norma non viene rispettata” scrive ancora Ahmed. Questi disorientamenti sono queer perché sono momenti devianti, che portano fuori strada, o fuori da quella che è considerata la strada maestra secondo le norme sociali. Glitch e bug sovvertono le nostre aspettative su come debba funzionare un videogioco, le mettono in discussione. Come le persone che appartengono alle comunità LGBTQIA+ sovvertono e mettono in discussione le nostre aspettative su come debbano funzionare sessualità, genere e famiglia.

“I videogiochi sono in molti modi normativi, strutturati e profondamente burocratici, anche se chi li gioca e chi li sviluppa sottolinea le loro promesse di potere, libertà e possibilità d’azione” ha detto per esempio il docente ed attivista Edmond Chang. “Per questo, voglio immaginare il glitch come qualcosa di potenzialmente capace di cambiarne la natura, destabilizzando in modo produttivo la tecnonormatività dei giochi”.

Vorrei che venisse apprezzata l’occasione di disorientamento e riorientamento offerta da bug e glitch, la loro queerness. Potremmo vedere un videogioco, un UDO, come una complessa e stratificata collaborazione tra agenti umani e non-umani. All’interno di questa collaborazione, quelli che noi normalmente consideriamo errori del software, dell’hardware o della loro interazione ne sono invece un risultato legittimo quanto ciò che viene progettato da esseri umani per essere compreso e goduto da parte di esseri umani. Anzi, bug e glitch sono proprio ciò che caratterizza il videogioco rispetto agli altri media perché, come scrive il musicista Brian Eno, “qualsiasi cosa ora troviate bizzarra, brutta, sgradevole, disgustosa in un nuovo medium diventerà sicuramente il suo segno di riconoscimento”. L’interesse verso questi fenomeni è confermato dal fatto che ricerca e produzione volontaria di glitch siano diventate quelle pratiche artistiche note come glitch art, che hanno avuto un predecessore nella net.art, cioè l’arte fatta per e su internet.

A volte glitch e bug sono descritti come fenomeni quasi soprannaturali, inconoscibili in quanto estranei al dominio della ragione. In un articolo apparso sulla prestigiosa rivista specializzata Edge, per esempio, leggiamo che nei videogiochi, dove azioni come lanciare palle di fuoco sono banali e realizzabili premendo un tasto, “la vera magia risiede nei glitch”.

Il videogioco, invece, è un medium strettamente legato a come intendiamo la scienza e il metodo scientifico. Il videogioco è un medium di esperimenti: studiamo una realtà simulata compiendo azioni, capiamo quali conseguenze comportano e ci aspettiamo di incontrare, in simili situazioni future, simili conseguenze per simili azioni. Bug e glitch non negano niente di questo: sono anzi sono studiabili e replicabili.

Se i bug e glitch a volte appaiono soprannaturali è perché sono manifestazioni di una complessità che difficilmente riusciamo a cogliere in maniera completa. Si pensa per esempio che un glitch osservato in almeno un’occasione in Super Mario 64 di Nintendo, uscito per la console a cartucce Nintendo 64 nel 1996, sia  stato provocato dall’interazione tra la nostra atmosfera e una particella elettricamente carica proveniente dallo spazio. Questa interazione avrebbe generato altre particelle, che avrebbero urtato ulteriormente con l’aria dell’atmosfera e formato ancora altre particelle e così via e così via. Fin quando una di queste particelle non è arrivata quasi a terra, dove ha incontrato un Nintendo 64. Il Nintendo 64 su cui stava giocando DOTA_Teabag, uno speedrunner. 

Lo speedrunning è l’insieme delle pratiche, solitamente competitive, in cui lǝ giocatorǝ gareggiano completando un certo videogioco nel più breve tempo possibile. Per un singolo titolo possono esistere anche più categorie di gara, ognuna caratterizzata da un diverso concetto di cosa voglia dire completare quel videogioco e da precise limitazioni, e in certe categorie è possibile sfruttare almeno alcuni bug (che qua vengono chiamati glitch). Mentre non mi interessa particolarmente l’aspetto competitivo dello speedrunning, è da notare che in un certo senso siano lǝ speedrunner, soprattutto quando studiano e usano bug, a giocare il videogioco nella sua forma più sincera, non fermandosi alla sua rappresentazione sullo schermo ma trattandolo come software. In effetti, lǝ speedrunner definiscono la normale modalità di gioco come casual, ossia semplice e occasionale.

Comunque, era il 2013 e DOTA_Teabag stava gareggiando, in diretta su Twitch, contro un altro speedrunner, MidBoss, quando all’improvviso il suo Mario si è trovato inaspettatamente teletrasportato su una piattaforma più in alto nello stesso livello in cui si trovava. La particella che, secondo l’ipotesi che ho descritto, ha raggiunto il Nintendo 64 di DOTA_Teabag avrebbe interagito con la console e le sue componenti elettroniche, variando un valore, cioè l’altezza della posizione di Mario nel livello. È un evento documentato sin dagli anni Settanta, ed è più diffuso di quello che potrebbe sembrare: si chiama single-event upset, cioè perturbazione causata da una particella isolata. Ecco che allora potremmo dire che in quella occasione l’intero universo ha collaborato nella creazione di quella precisa esperienza di gioco, e hardware e software hanno permesso a un essere umano di giocare insieme a una particella proveniente dallo spazio.

Mentre replicare l’interazione con una particella cosmica può essere complicato, l’uso di un bug è alla fine una tecnica di gioco comparabile a molte altre. È una tecnica che impariamo costringendoci all’autodisciplina che quasi ogni videogioco richiede, ripetendo meccanicamente precisi gesti in una sequenza precisa fino a riuscire a eseguire nel giusto modo e alla velocità giusta i movimenti richiesti. Potrebbe essere visto come un rituale magico da eseguire, ma queste azioni non sono più magiche di quelle con cui usiamo un computer o uno smartphone, compiendo precisi movimenti di cui solitamente conosciamo poco i veri effetti. Non è secondo me casuale il fatto che molte di queste azioni riguardino la nostra interazione con icone, un termine che per secoli ha indicato immagini sacre.

Comprendere glitch e bug ci aiuta a capire un videogioco, ci permette di evitare di concentrarci solo su quello che avviene sullo schermo e di leggere finalmente l’UDO come espressione di hardware e software, cioè come espressione del non umano. E quello che mi interessa è proprio porre l’autorialità del non umano e dell’umano sullo stesso piano, complicarne e sfumarne il confine per complicare e sfumare così il confine tra umano e non umano.

Il bug fa emergere sulla superficie del videogioco, sullo schermo, ciò che normalmente si nasconde dietro di essa, la “sotterficie” videoludica. E glitch e bug possono definire un videogioco e la sua futura influenza sulla cultura umana quanto ciò che è stato appositamente progettato per noi dallo studio di sviluppo.

In alcuni videogiochi, sono il funzionamento di software e hardware e i loro bug a decidere quando termina l’esperienza. Il già citato Pac-Man è un tipico videogioco degli albori del medium, pensato per la sala giochi e con una serie potenzialmente infinita di livelli di difficoltà crescente. Ma chi ha sviluppato Pac-Man non aveva pensato che le persone sarebbero davvero riuscite a giocare all’infinito: la difficoltà è pensata per aumentare solo per i primi ventuno livelli. E se raggiungo il livello 256 del videogioco, ben oltre i limiti entro cui l’opera era stata pensata dallǝ suǝ coautorǝ umanǝ, la metà destra dello schermo appare come un incoerente massa di lettere e numeri e non posso proseguire.

Questo perché il videogioco memorizza il numero dei livelli come una sequenza di otto cifre in base 2 (0 o 1), cioè otto bit, cioè un byte. Ma il valore massimo che una sequenza di otto cifre binarie può assumere è 11111111, cioè 255 nella nostra solita base 10. Raggiungere il livello 256 rompe il contatore che mostra il livello corrente e che con un’esplosione ipertrofica invade e distrugge la parte destra dello schermo in cui si trova. È il Kill Screen, lo schermo della morte: è il funzionamento della macchina, e non una volontà umana, a determinare  il finale di Pac-Man.

In informatica, fenomeni come quello che crea il Kill Screen di Pac-Man, fenomeni in cui un software tenta di memorizzare un numero troppo alto (o troppo basso) rispetto a quelli che può calcolare, si chiamano integer overflow, cioè traboccamento dei numeri interi. Gli integer overflow sono un esempio di come un software rappresenti la realtà solo in modo approssimato, accettando alcuni compromessi.

Questo è anche lo stesso genere di bug a cui appartiene il cosiddetto millennium bug, il bug del millennio di cui si parlava ovunque alla fine degli anni Novanta. All’epoca alcuni computer contavano le date usando un orologio interno che memorizzava solo le ultime due cifre degli anni, per risparmiare memoria. Il passaggio dall’anno 1999 all’anno 2000 sarebbe stato quindi visto da queste macchine come il passaggio da 99 a 00. Il timore era che i computer interpretassero 00 come 1900 e che questo problema colpisse in modi imprevedibili i servizi sanitari, le banche, le amministrazioni, i sistemi carcerari e gli eserciti di tutto il mondo. Si parlava di lanci accidentali di testate nucleari, i governi spendevano globalmente qualcosa come 600 miliardi di dollari per aggiornare i loro sistemi, aziende vendevano kit di sopravvivenza per la transizione tra 1999 e 2000 e paesi come il Regno Unito mobilitavano l’esercito in caso di rivolte popolari. La paura per il millennium bug è stata ben immortalata in un episodio (La vita è un’illusione, dopo si muore, originariamente intitolato Life’s a Glitch, Then You Die) del decimo speciale di Halloween della serie animata I Simpson (La paura fa novanta X), andato in onda a fine ottobre del 1999.

In realtà tali timori erano molto esagerati. Di fronte all’incertezza dei possibili effetti del millennium bug, quella incertezza tipica della complessità dell’UDO, lǝ espertǝ preferirono prospettare gli scenari peggiori perché il rischio venisse almeno preso sul serio: così i governi vollero andare sul sicuro per evitare figuracce e chi poteva lucrarci sopra (stampa e compagnie di consulenza, per esempio) colse l’occasione. Il millennium bug riguardava un numero alla fine ridotto di computer, e aveva l’occasione di causare guai seri solo in un numero ancora inferiore di casi.

Il millennium bug ci ha però messo forse per la prima volta di fronte a come la nostra vita pubblica e privata sia strettamente legata a strumenti digitali, e quindi influenzata e influenzabile dai loro bug e dai loro glitch. Rob Kitchin e Martin Dodge parlano di code/space, spazicodice, spazi fisici ormai così intrinsecamente legati al codice (al software, all’hardware) da perdere il loro scopo in caso di malfunzionamento del codice stesso. Per quella parte del mondo che vive continuamente connessa, senza più distinzione tra offline e online, tutta la Terra è ormai uno spaziocodice. Noi stessǝ ormai viviamo dentro un UDO. E nell’UDO, come mostrato dalle paure scatenate dal millennium bug, il bug è apocalisse. Anche nel senso etimologico del termine: il bug è apokálypsis, cioè è rivelazione.


Matteo Lupetti, nato nell’88, è criticə. Si occupa di arte, videogiochi e tecnologia. Scrive per numerose testate italiane, europee e statunitensi tra cui Vice, Jacobin, Not, Doppiozero, Eurogamer, Gayming Magazine e Fanbyte. È rubricista per Il Manifesto, con “Margini videoludici”, e per Artribune. Fa parte della redazione della rivista indipendente menelique. UDO è il suo esordio editoriale.

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