Excalibur nel Cocito: esisteva un fantasy nel Medioevo?


L’ambientazione per eccellenza del fantasy è il medioevo, ma esisteva una letteratura fantasy anche NEL medioevo?


di Edoardo Rialti


Faerie – Indice

1. Introduzione
2. Che cosa è il fantasy
3. Il fantastico cavalleresco nel medioevo.


Rex quondam rex futurus:

il fantastico cavalleresco nel medioevo.

Artù non poneva ancora mano alla mensa, attendeva che fossero tutti serviti. Com’era lieto nella sua giovinezza, ridente come un fanciullo! E anche un altro costume era il suo, stabilito dall’animo ardente: che in un giorno tanto solenne non voleva disporsi al suo desco senza che gli prima che gli fosse narrato un meraviglioso racconto, o un’impresa gloriosa, o un’avventura di gran meraviglia in cui si potesse aver fede, una gesta di uomini antichi, di cavalieri, di armi.
Ser Galvano e il Cavaliere Verde, XIV sec.
Ogni epoca agogna a un mondo piú bello.
Johan Huizinga, Autunno del Medioevo

“Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo imperscrutabile?” Si chiedeva Thomas Mann. Ogni sguardo gettato alle nostre spalle, alla ricerca di storie singole o collettive, gli pareva rivelare solo un’infinita distesa di colline. Non importa quanto avanti ti spingi, la salita successiva ne rivela sempre altre, e poi altre ancora.

È così anche per la storia dei generi letterari, forse. Alcune nostre modalità di raccontare il mondo probabilmente coincidono con la nostra stessa comparsa come stirpe biologica. Persino i nostri racconti piú antichi si appellano sempre ad altre fonti, a tradizioni precedenti. Secondo quanto narrano le antiche storie… è così che inizia il Racconto del Cavaliere di Chaucer. Romeo e Giulietta era già contenuto in Ovidio, il vero Ur-Faust non è la precedente stesura dello stesso Goethe, ma un coacervi di motivi e immagini che risale ad Alberto Magno, senza per questo arrestare il moto controcorrente, sempre indietro, verso una fonte invisibile. Borges scrisse che in fondo raccontiamo sempre (solo?) alcune storie. E in parte ciò è vero anche del modo in cui le raccontiamo, in quale orizzonte immaginativo le collochiamo. Perché i generi letterari sono ben piú d’una trama o una ambientazione (ciò è vero solo dei prodotti peggiori). Sono una possibilità dello sguardo.

In questo senso, certi elementi fondamentali e ricorrenti del fantasy sono già presenti nell’epica eroica, nel folklore (che è sempre eco di qualche mitologia precedente), nel gusto per l’avventura e per il meraviglioso che da sempre percorre le narrazioni umane di tutte le culture. E a momenti specifici dell’epica, a tradizioni e leggende, alle peripezie romanzesche il fantasy si ispirerà esplicitamente, praticamente in maniera costante. Dall’Odissea a Beowulf, dal Mabinogion a Sinbad, non è forse già tutto presente ciò che ritroviamo in Terramare, Narnia, Westeros? Il lettore di Tolkien o della Rowling può gongolare nell’aprire una saga norrena e trovare degli eroi chiamati “Mezzi-Troll” o nebbie evocate per magia. Gli Argonauti di Apollonio Rodio non sono forse la prima grande “Compagnia” d’eroi (con rispettivi super-poteri) coinvolti in una Cerca prodigiosa? E la dea Circe non è già una strega come quella di Narnia?

Occorre però fare attenzione. Come ammoniva proprio il C. S. Lewis di Narnia, è vero che se spogli dieci individui maschi, l’anatomia è pressoché identica, ma a esprimere l’interiorità, la psicologia, cultura e identità d’una persona è invece il suo vestito. Gli abiti non velano, svelano. La costante ricerca dei motivi ispiratori, se non sostenuta da rigore filologico, accorcia in modo ingiustificato la distanza temporale, le sfumature, le declinazioni specifiche. La critica tolkieniana italiana, come ha scritto Wu Ming 4, ha spesso sofferto di questa forzatura ideologica da parte d’una Destra per cui, ad esempio, Aragorn, Carlo Magno, Goffredo di Buglione e Artú parevano carte interscambiabili d’un unico Tarocco (in tutti i sensi), il Monarca Divino.

Anziché spogliare gli antichi Greci, i gentiluomini elisabettiani o i poeti della Baghdad medievale, sarebbe assai meglio indossare i loro vestiti. La corazza, la toga o i sandali ci farebbero muovere in modo diverso, e ci scopriremmo anche a guardare in modo diverso.

Per questo motivo, sebbene determinati topoi affondino, appunto, nei fondamenti stessi dell’immaginazione e della narrativa umana, una Storia del genere fantasy deve concentrarsi e prendere le mosse da quelle opere in cui, anzitutto, gli elementi fantastici sono  “gustati” e non “creduti” come veri. In cui cioè si fa effettivamente letteratura d’intrattenimento e non, ad esempio, edificazione religiosa. Ciò porrà comunque dei problemi non solo con alcune grandi fonti che abbiamo già citato (i Greci che leggevano e ascoltavano Omero credevano a Polifemo come a Pallade Atena, parimenti presente nel poema? Certamente no, e Le Argonautiche di Rodio sono evidentemente un prodotto letterario, un’avventura da essere letta e non da ascoltare nella sacra ritualità dell’aedo antico) ma anche in autori della piena maturità del genere fantasy stesso, come vedremo nelle prossime puntate.

Elementi fantastici e fiabeschi di matrice squisitamente narrativa sempre presenti, dunque, dalle byliny russe alle cronache delle abbazie, ma occorre concentrarsi su dove questo elemento è esplicito e –verrebbe da dire-programmatico.

Certamente il poema anglosassone Beowulf (con le sue strutture portanti, la lotta dell’eroe contro un orco e un drago, la spada magica…) costituisce un effettivo e fondamentale punto d’intersezione, perché è già l’elegia (di matrice monastica) d’un mondo perduto, una rinarrazione, appunto, d’un materiale epico-leggendario ched, con molti distinguo, risulta però già letteratura. Ma tutto ciò si affina ulteriormente nei secoli successivi della civiltà europea: è infatti proprio nel formarsi delle letterature medievali che si plasma già un “medioevo di fantasia” o un “medioevo del medioevo”, se vogliamo, un passato di gloria e splendore che si contrappone alla meschinità del presente e al tempo stesso funge da modello di comportamento ideale. Non solo. Il mondo fantastico-cavalleresco è già una modalità narrativa pienamente consapevole di sé stessa (tanto da comprendere la parodia).

Sulla tomba di Re Artú, Thomas Malory riferirà che si poteva leggere l’iscrizione misteriosa: Hic jacet ArthurusRex quondamRexque futurus.

Re nel passato, re nel futuro…pare quasi un’immagine meta-letteraria. Quelle storie, che sono già state raccontate, sappiamo già che torneranno. Ancora e ancora.

Le nebbie di Avalon

I romanzi cavallereschi in versi e in prosa sono “il primo grande genere di narrativa laica che si affermi in Europa” (Boitani), e persino la cultura ecclesiastica, che nei confronti dell’irriverenza comica sa essere molto dura, “nei confronti dell’altra grande corrente narrativa, quella romantica, è leggermente diverso: concorrenza, non sanzione”, anche perché la narrativa cavalleresca “celebra un ordine sociale, quello feudale, che ha la consacrazione dell’autorità.”

In realtà, i romanzi medievali su Lancillotto o Galvano sono molto più realistici di tante opere successive che si richiamino alla stessa ambientazione, scanditi come sono da complesse schermaglie amorose o tornei dettagliati come telecronache sportive. Talvolta gli elementi che il lettore contemporaneo cercherebbe di primo acchito sono dati quasi per scontati. E ciò non è sempre un male, affatto. L’implicito può essere altamente suggestivo. In Chretien de Troyes Lancillotto si trova improvvisamente in trappola, ed egli reagisce in modo quasi incomprensibile per chi non conosca la sua educazione da fanciullo presso la Fata-Dama del Lago.

Il cavaliere si pose l’anello davanti agli occhi, ne fissa la pietra, e dice: Signora, signora, che Dio mi aiuti! Ora avrei grande bisogno del vostro soccorso!

Parte del fantasy che cerchiamo in queste opere è dunque frutto d’una loro rielaborazione successiva, rinascimentale prima e romantica poi. Ma non sempre.

Noi leggiavamo un giorno per diletto

Noi leggiavamo un giorno per diletto/di Lancialotto come amor lo strinse, racconta Francesca da Rimini a Dante, nel V dell’Inferno. Parte del genio infinito profuso in questa scena sta anche nel connettere una tragedia dell’erotismo e dell’adulterio (scandita da parole come “bella persona”, “piacer”,  “bocca”, in avvicinamento fisico progressivo- Tolstoj in poche terzine) anche al diletto d’una lettura. Non si tratta solo del piacere di leggere, ma d’una lettura di piacere. Perché questo erano le vicende arturiane per i lettori e uditori medievali.

Ed è lo stesso Dante (che nel sonetto dedicato agli amici Guido e lapo sogna di essere trasportato da Merlino, il “buono incantatore”, il mago-bianco, su una barca prodigiosa con loro e le donne amate) che non solo inserisce i romanzi cavallereschi nel novero delle possibilità letterarie del suo tempo, ma ne fornisce una prima e fondamentale valutazione critica. E tutto questo nel De Vulgari Eloquentia, il primo grande saggio sulle lingue europee e la letteratura italiana in volgare:

Allegat ergo pro se lingua oïl quod propter sui faciliorem ac delectabiliorem vulgaritatem quicquid redactum sive inventum est ad vulgare prosaicum, suum est: videlicet Biblia cum Troyanorum Romanorumque gestibus compilata et Arturi regis ambages pulcerrime et quamplures alie ystorie ac doctrine.

 La lingua d’oil adduce il fatto che, per il suo carattere più facile e piacevole, le appartiene tutto ciò che è stato ideato in prosa volgare o ridotto in tale forma, come appunto la compilazione comprendente la Bibbia e i fatti dei Troiani e dei Romani, le bellissime avventure di re Artù e parecchie altre storie e opere dottrinali.

I cavalieri erranti e le loro avventure, che comprendono anche incantesimi, draghi e fate, dilettano Francesca e Paolo da Rimini, perché, Dante prende nettamente posizione, sono vicende bellissime. Possiedono un valore inscindibile dal loro fascino.

Il mondo del ciclo carolingio è – ancora- nettamente storico, ed epico-religioso, senza molte concessioni all’immaginario (se si eccettua l’esotismo dei Saraceni pagani).  Nel mito arturiano invece- perché appunto di mito letterario si può e si deve parlare, cioè di un grande orizzonte narrativo condiviso, un po’ come oggi succede con le serie “che hanno visto tutti”- il folkore celtico si fonde con l’epica cristiana. Dalle prime attestazioni in Goffredo di Monmouth nel 1137, passando al Roman de Brut e al Brut di Layamon del 1205 (che “inventa” la Tavola Rotonda) al Ciclo del Graal di Robert de Boron eppoi ai romanzi di Chretièn de Troyes e ai Lai di Maria di Francia, la narrazione si approfondisce ed estende, che sia nelle piazze dei menestrelli o alle corti di Eleonora d’Aquitania, in Inghilterra e Francia. E, a dispetto di quel che potremmo pensare, agli orecchi e al gusto d’un uomo medievale la moda romantica-arturiana è invece spiccatamente francese . La vulgata arturiana è francese-normanna persino in Inghilterra tanto che “le basi su cui sorse la letteratura inglese anziché teutoniche furono latine”.

Il battesimo del mago

Anche nelle vicende di Artú, Ginevra, Morgana e Merlino assistiamo dunque a quel vasto e complesso processo di assimilazione culturale che Franco Cardini raccontò ne All’origini della cavalleria medievale come “i barbari incontro a Cristo”. Nella fusione tra culture celtiche, germaniche e cristiano-latina si assiste a una allegorizzazione e spiritualizzazione non solo del conflitto epico ma anche delle tradizioni folkoriche. Il Graal da Calderone magico diventa la Coppa dell’Ultima Cena. Diventa appunto Santo. Un processo che comprende e coinvolge anche il gusto per il meraviglioso propriamente detto. È qui che va ricercata parte decisiva della nascita della feyré, la Faerie che dà titolo a questo nostro ciclo, il regno del fatato e del magico. Le avventure dei cavalieri si svolgono al suo interno o ne possono sempre varcare i confini misteriosi, trovandosi a fronteggiare la seduzione e le minacce dei suoi abitanti. Gli elfi e le fate, o come venivano chiamati dall’enciclopedismo medievale, i Longaevi, coloro che vivono a lungo. Gruppi di Longaevi danzanti che infestano i boschi, le radure, i boschetti, i laghi e le sorgenti e i ruscelli; si chiamano Pan, Fauni, Satiri, Silvani, Ninfe, scriveva già Marziano Capella. Già da questa citazione altomedievale si capisce come le vecchie figure dei pantheon pagani “sopravvivano” non solo come demoni, ma anche come creature neutrali d’un mondo semplicemente “altro”. Relativamente neutrali, perché l’elemento della seduzione sessuale accomuna tanto la brutalità rapace dei satiri quanto gli splendidi principi elfici e le dame fatate delle ballate inglesi (I Pilosi sono chiamati in Greco Pan e Incubi in latino o Inui, perché si uniscono spesso agli animali. L’appellativo incubo viene da coricarsi sopra, cioè fornicare, scriveva Isidoro di Siviglia). In alcune tradizioni si tratta degli Angeli neutrali tra Dio e Satana, in confine punitivo sulla terra, in altre la loro origine resta elusiva come le loro apparizioni. Certamente li accompagna sempre una bellezza intensa e pericolosa, piú sfrenata della nostra, retaggio d’un sistema valoriale diverso e al tempo stesso suo continuo riaffiorare ai confini geografici dell’universo cristiano. Questa ambiguità teologica  costituisce -lo si capisce bene- anche uno spazio letterario. Nel grande amore della mentalità medievale per le gerarchie e le catalogazioni, per l’universo ordinatamente squadernato in strutture chiare e definite, il mondo delle fate è al tempo stesso compenetrato dalle grandi leggi sociali (le fate non abitano certo nei boschi, ma in padiglioni e castelli nei boschi, in residenze piú elaborate delle nostre, non meno. Niente hippie in questa prima Faerie) ma anche una riserva di respiro e neutralità, cosa che in una mentalità ideologica può facilmente puzzare di zolfo.

Il grande e fecondo cortocircuito tra Faerie e il medioevo cristiano è rappresentato certamente dal re Artú che brandisce armi prodigiose, spesso elargite dalla Fatata Dama del Lago, ma soprattutto dal  personaggio in cui possiamo effettivamente analizzare l’intersezione dei vari mondi immaginativi: il buon incantatore dantesco, il mago per eccellenza, il consigliere e “donatore” (come direbbe V. Propp): Merlino.

Il leggendario Myrrdin (trasformato in Merlin già da Goffredo di Monmouth per evitare l’assonanza con merde-merda, esempio sacrosanto di traduzione non letterale) non è un mago che apprende la magia come una tecnica. Ce l’ha nel sangue. Almeno in parte anch’egli proviene da Faerie. Figlio di uno spirito dell’aria e una donna mortale. Come si colloca questa diversità tanto affascinante quanto inquietante, in un grande ciclo cavalleresco cristiano? Come può il vecchio sapiente che puzza di muschio come i druidi, e che sa spostare i massi di Stonehenge e conferire con le bestie, diventare il consigliere e mentore del grande protagonista del ciclo bretone? Lo si battezza, letteralmente. Il padre elfico diventa esplicitamente un diavolo, che vorrebbe concepire l’Anticristo, ma la donna sedotta fa battezzare il frutto dell’unione notturna, ribaltando i piani malefici. Come scrisse Carlos Alvar, questa soluzione narrativa “permette di vedere come la vicenda del mago sia coinvolta nel noto processo di profonda cristianizzazione della materia arturiana, che ha luogo alla fine del XII secolo. La Trinità e la Redenzione, i due grandi temi della trilogia di Boron, trovano un punto d’incontro essenziale nel nostro personaggio. La singolarità del suo concepimento, tentativo del demonio di generare l’Anticristo in seno a una famiglia pia, si rivolta contro l’infernale progetto grazie a Blaise, confessore della giovane gestante: l’infante ha sì il potere, prettamente diabolico, di conoscere il passato, ma ha ricevuto il dono di vedere il futuro, esclusivo della grazia divina.” Al pari della Dama del Lago che educa Lancillotto, della Melusina da cui si facevano discendere gli orgogliosi aristocratici di Lusignano, Merlino mette al servizio i suoi incantesimi e la sua saggezza della civiltà cristiana, salvo poi cadere vittima d’un invaghimento senile e finire intrappolato dagli incantesimi insegnati alla giovane e maliziosa amata (che spesso è proprio la Dama del Lago che crescerà Lancillotto, qui le versioni si confondono). È un vecchio tema che al tempo stesso ammoniva dalle scaltrezze muliebri e irrideva i vecchi e sapienti che si rendono ridicoli, ma nel caso di Merlino è anche una complessa soluzione narrativa. Chi entrava nel mondo della storia e della letteratura cristiana in modo così ambiguo non poteva che uscirne allo stesso modo. La prigione d’aria di Merlino è al tempo stesso Faerie che si riprende il suo emissario e un modo per farlo continuare ad aleggiare, invisibile e irrisolto.

Di tutti questi aiutanti incantati, che accolgono nei loro castelli magici o proteggono con armi prodigiose e consigli, Morgana la Fata (eco della Morrigan celtica?), legata ad Artú da diverse soluzioni di parentela, rappresenta la controparte esplicitamente tenebrosa e diabolica, il mondo della malizia e della magia nera, che minaccia di distruggere Camelot con gli inganni e partorendo Morded, il figlio incestuoso e traditore di Artú. Vi si esprimono molti elementi che qui è solo possibile accennare: non solo la censura di tutto ciò che non si riesce ad assimilare ma anche la reazione di ciò che non vuole farsi assimilare.

Quando gli dei non vogliono farsi angeli del nuovo potere sul trono, non resta loro che farsi diavoli. E muovere guerra ai nuovi Signori del mondo.

Ma tra queste soluzioni opposte ed estreme continua a stendersi la radicale, perenne ambiguità di Faerie, così come la possiamo incontrare nei Racconti di Corte di Walter Map, o nei già citati Lai di Maria di Francia. Spesso gli elfi e le fate non sono completamente buoni o malvagi. Non secondo facili criteri umani, quantomeno. Possono avere prediletti da proteggere o offendersi con rancore implacabile. Certo è che avventurarsi nei loro reami costituisce sempre una prova, magnifica e terribile. E il quattordicesimo secolo inglese ne offre un splendido esempio letterario, che ci permette di osservare quanto il fantastico sia già consapevole delle sue dinamiche e del loro valore artistico, e perfino sociale.

Con gli occhi delle Fate

Molti colli salì in strade contrade,

lontano dagli amici cavalcò in terre come straniero.

Sulla riva d’ogni fiume e di lago che attraversava

Era strano se non trovava un qualche nemico ad attenderlo,

così orrendo e feroce che doveva combatterlo.

Tante meraviglie trovò tra le alture,

Che sarebbe arduo ridirne la decima parte.

È un passaggio di Ser Galvano e il Cavaliere Verde, poema cavalleresco del XIV secolo, semplice punto di raccordo tra le principali ambientazioni della storia: alla corte di Artú irrompe un misterioso Cavaliere Verde (d’armatura, capelli, barba, pelle) che invita i cavalieri a infliggergli un colpo che egli restituirà un anno dopo. Galvano lo decapita di netto, ma il Cavaliere raccoglie la testa e gli dà appuntamento per ricevere lo stesso fendente. E Galvano effettivamente parte per la Cappella Verde, sostando nei pressi d’un castellano misterioso, dove risiedono Bercilak, signore dalla barba folta e dalla risata contagiosa (davvero indimenticabile nella sua allegria feroce), e la sua splendida consorte, che ogni mattina cerca di sedurre l’ospite. Il passaggio sopracitato potrete passare quasi inosservato, ma è invece una spia importante che “il genere celebra se stesso” (Boitani). L’avventura narrata non è che una scelta particolare, in un orizzonte assai piú vasto, che ne costituisce l’orizzonte potenzialmente inesauribile. Ciò risulta piú esplicito e perfino programmatico nei versi citati in exergo di questa puntata:

Artù non poneva ancora mano alla mensa, attendeva che fossero tutti serviti. Com’era lieto nella sua giovinezza, ridente come un fanciullo! E anche un altro costume era il suo, stabilito dall’animo ardente: che in un giorno tanto solenne non voleva disporsi al suo desco senza che gli prima che gli fosse narrato un meraviglioso racconto, o un’impresa gloriosa, o un’avventura di gran meraviglia in cui si potesse aver fede, una gesta di uomini antichi, di cavalieri, di armi.

Il mondo leggendario e antico della corte arturiana ama a sua volta i racconti meravigliosi, ed è proprio mentre si accinge a raccontarne uno che il meraviglioso effettivamente accade. Ed è una notevole finezza letteraria che tale evento costituisca invece il poema stesso.

Non sono gli unici pregi del poema. Con i suoi dubbi e paure, diviso tra l’umano desiderio di salvarsi e il senso dell’onore, tra l’attrazione cortese per la castellana misteriosa (che potrebbe facilmente sfociare in adulterio) e il rispetto per il suo ospite altrettanto incomprensibile, “Gawain è il primo eroe autocosciente, pensante e pensoso del romanzo inglese” (Boitani). E quando il Cavaliere Verde sospende l’ascia sul collo di Galvano scalfendolo appena e si rivela essere lo stesso castellano Bercilak, che ha tentato il suo coraggio e la sua continenza per saggiare le virtú umane della corte di Camelot a nome del mondo di Faerie, la vicenda e l’intero poema si rivelano dunque “un test delle qualità morali dell’intera società, una prova di come questa società sa mettere in pratica gli ideali che professa” (Boitani). Altro che escapismo: anche e soprattutto circondati dalla magia elfica, stiamo ancora una volta fronteggiando le sfide fondamentali di questa nostra vita mortale. Amore e onore, paura e coraggio. Con Galvano che attraversa fiumi e montagne, non ci limitiamo a scrutare Faerie, con la sua alterità suggestiva e inquietante. Assumendo gli occhi del Cavaliere Verde, è la nostra vita che osserviamo con intensità rinnovata.

Cronache del Ghiaccio e del Fuoco

Nessun discorso, per quanto sommario, sul fantastico medievale e la sua importanza per la letteratura fantasy può naturalmente prescindere dall’altro grande ciclo, quello dei Volsunghi-Nibelunghi, dove assistiamo alla trasformazione d’un imponente ciclo di leggende pagane. La lotta di Sigfrido col Drago Fafnir (che già in Beowulf veniva rievocato come storia antica), il risveglio della Valchiria Brunilde, il tradimento di Gunnar-Hagen comprendono alcuni elementi narrativi che continueranno ad avere un ruolo assolutamente decisivo nei secoli successivi: l’eroe che affronta i mostri, la discesa nei mondi di elfi e gnomi, con le loro ricchezze prodigiose, le armi magiche e gli anelli che rendono invisibili. E persino nel loro “addomesticamento” cavalleresco e cristiano, con gli eroi norreni che diventano cavalieri e le valchirie che si umanizzano, la tragicità originaria mantiene una suo sentore assolutamente specifico, una cupezza e una ferocia comunque diversa dall’Artú rievocato nelle corti d’Inghilterra e Francia. Definirle storie grimdark sarebbe naturalmente un giochetto retrospettivo, ma certamente all’elegia arturiana, a sua volta una tragedia e una sconfitta che però, al netto di tutti i suoi echi le sue zone di volute ambiguità, resta in un universo gerarchicamente luminoso, geometricamente comprensibile in ottica cristiana (seppur dilaniato dall’adulterio del perfetto cavaliere Lancillotto, sorta di nuovo “peccato originale”) si affianca una leggenda dove la violenza del caso e del destino e l’implacabilità sanguinosa della vendetta umana conserva uno sguardo diverso, duro e tagliente. Quello degli dei e degli eroi norreni. Tra il piccolo Sigmundr che strappa la lingua alla lupa e il grande banchetto dove muoiono tutti coloro che l’hanno tradito non c’è soluzione di continuità. E se la barca che trasporta Artú ferito a morte, perché guarisca –forse- nella mitica Avalon, riecheggerà fino alla partenza di Frodo ferito dai Porti Grigi, saranno molti i narratori che invece sentiranno ancora crepitare nelle loro orecchie l’eco della grande, spaventosa pira di Sigfrido, su cui si getta anche Brunilde.

I Nibelunghi, di Frizt Lang

Un altro grande filone che avrà profondo impatto e vastissima ripresa è invece il viaggio nell’Oriente esotico e misterioso. Basti pensare al Milione di Marco Polo con i suoi assassini agli ordini del Vecchio della Montagna, i prodigi che proteggono la corte del Gran Cane, gli abitanti prodigiosi e mostruosi ai confini delle cartine geografiche del mondo. In parallelo e in sovrapposizione alla predicazione ideologica delle crociate (con Bernardo di Chiaravalle che assicurava che uccidere un infedele non era omicidio ma un meritorio “malicidio”) l’Islam di molta tradizione letteraria medievale costituisce un’alterità e una riserva di magia non necessariamente negativa, anzi. Le corti del Califfo o del Saladino possono essere culle di civiltà cortese e di magia bianca, a loro volta contrapposte alla povertà e rozzezza dell’Occidente cristiano non meno dei padiglioni delle Fate, colmi di bevande squisite, frusciare di sete, e sguardi imperscrutabili, che ci osservano con un saggezza che non è comunque la nostra.

Excalibur nel Cocito

Anche in Italia, come abbiamo già visto, si diffondono versioni francesi e volgarizzamenti (Tavole Ritonde) del ciclo arturiano. E se i capolavori del cavalleresco e del fantastico italiano sono ancora lontani, gli accenni sono già numerosi e talvolta assai suggestivi.

Dante non solo fornisce la prima valutazione critica del genere, ma cita e riprende le ambages pulcerrime in alcuni punti-chiave della sua opera poetica. Lancillotto compare come esempio di peccatore penitente nel Convivio, e nella Commedia abbiamo addirittura una scena esplicitamente fantastico-cavalleresca: nella ghiacciaia dei traditori incontriamo proprio il malefico Morded, quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra/ con esso un colpo per la man d’Artù; e per un istante, nelle tenebre gelate del Cocito, ecco balenare niente meno che Excalibur, capace di trafiggere carne e ombra, corpo e oscurità. Molto prima di Anduril o persino delle spade laser. Persino l’incontro con la misteriosa Matelda nel giardino dell’Eden ha molti tratti dell’incontro col mondo fatato (il fiume che separa il mondo dei mortali da una felicità naturale piú viva e fulgida della nostra, i continui riferimenti alle Ninfe e alle dee pagane, all’Età dell’Oro…), ma senza traccia della fascinosa ambiguità che spesso si accompagna alla Faerie. Si incontrano o si accenna a streghe, maghi e fattucchieri, ma non ci sono elfi e fate nella Commedia. E che il mondo arturiano sia qui assunto come orizzonte eminentemente letterario si può anche ricavare dalla vistosa assenza di Artú dal Paradiso o dal Purgatorio. Tristano e Morded possono essere incontrati all’Inferno, invece la cavalleria positiva di Camelot non affianca i paladini di Carlo nel Cielo dei Martiri.

Anche le opere di Boccaccio, come ha dimostrato Daniela Delcorno Branca, sono ricche di riferimenti alla tradizione cortese, cavalleresca e fantastica, tra parodia e incanto sincero. De Arturo Britonum Rege è addirittura uno dei capitoli del suo De casibus virorium illustrium, e l’appassionato di letteratura fantastica non può trattenere un sorriso emozionato nello scorrere la prosa latina della Terza Corona del medioevo italiano e incappare in  parole come Tabulam Rotundam, Merlini vatis, monstruosa.

Nel Decameron stesso incontriamo gustose satire delle superstizioni popolari (con gli amanti che si fingono “fantasime” che vagano di notte) o l’invenzione di ridicoli nomi di donne esotiche e lussuriose -che siano fate o regine misteriose- per gabbare i gonzi, una parodia stilistica delle storie d’avventura che arriverà fino al Brancaleone di Monicelli : la donna de’ barbanicchi, la reina de’ baschi, la moglie del soldano, la ’mperadrice d’Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedera di Narsia. A tale accozzaglia fantastica il povero beffato sbava ormai con riflesso pavloviano, come il Fantozzi di Villaggio. Ma anche una vera ghost-story di matrice cavalleresca, la caccia infernale di Nastagio degli Onesti, e ben due novelle che comprendono un‘effettivo elemento fantastico. Compaiono entrambe –e anche questo è significativo- nell’Ultima Giornata, dedicata ad atti di magnificenza e cortesia. La Quinta Novella racconta d’un giovane che chiede a un cortese negromante di far sbocciare un giardino nel cuore dell’inverno, per conquistare una donna. E nella Nona abbiamo proprio il già evocato Saladino che ricompensa un cristiano suo amico facendolo tornare magicamente a casa su un letto volante.

Pomi d’Ottone e Manici di Scopa, con Angela Lansbury

Il vulgo errante di Petrarca

Davanti a tanta ricchezza di dati e tradizioni prestigiose, ci si potrebbe chiedere da dove nasca la diffidenza e lo spregio tanta critica accademica e ufficiale nei confronti del fantastico e del fantasy. In realtà, proprio negli stessi anni, altre fonti parimenti autorevoli si pronunciavano in modo diverso.

Come abbiamo già accennato, le obiezioni non venivano tanto dalla cultura ecclesiastica, ma da taluni filoni della “nuova” cultura alta, di matrice già pre-umanistica. Anche nella cultura occitanense spesso capitava ai trovatori di concludere la loro carriera di amanti-poeti con dei mea culpa, per dedicarsi poi solo alla lauda morale e religiosa. Ma un’obiezione radicale come quella mossa da Petrarca ai romanzi cavallereschi tout-court è certamente diversa, ed eserciterà un grosso peso.

Ecco quei che le carte empion di sogni,

Lancilotto, Tristano e gli altri erranti,

ove conven che ’l vulgo errante agogni.

Così nel Trionfo dell’Amore egli addita i protagonisti delle dantesche ambages, per rincarare la dose subito dopo:

Ben è ’l viver mortal, che sì n’aggrada, sogno d’infermi e fola di romanzi.

La differenza con il giudizio dantesco non potrebbe essere piú netta. Qui non si condanna il comportamento adulterino di questo o quel personaggio, ma la vanità illusoria del genere narrativo in sé. Altro che pulcerrime, queste storie non sono altro che fole. Con esplicita e programmatica durezza è il vulgo dei lettori ad essere errante, non piú il cavaliere, con tutta l’ambiguità dell’aggettivo.

Molti secoli dopo, pare quasi che Cervantes si divertirà a impugnare proprio questa critica, e raccontare le pazze e commoventi avventure d’un lettore errante, d’un pazzo che si crede cavaliere e si mette effettivamente all’avventura.

Primavera arturiana

Eppure. Eppure gli incantesimi continuano ad affascinare. Le fate a sedurre.

I bambini si fanno largo tra le ginocchia degli adulti, per ascoltare i poeti di piazza che raccontano di draghi e principesse. Le nobildonne come Francesca continuano a leggere “di Lancialotto”. I miniaturisti continuano a raffigurare Monopodi e Giganti.

E sarà proprio quando saranno trascorse alcune generazioni dal medioevo che il fantastico-cavalleresco conoscerà la sua prima grande e gloriosa stagione letteraria, al tempo stesso una rilettura e un allargamento di confini. E questa “primavera arturiana”, che comprende anche humour e pathos, capolavori davvero immortali e prodotti dozzinali, sboccerà anzitutto proprio in Italia. Dove, come scrisse C. S. Lewis, ai poeti capitò quello che talvolta succede agli adolescenti quando rientrano nella stanza dei giochi infantili. Si passa una mano sui soldatini polverosi, sulle spade di legno, sui mostri di carta, e si sorride. Ma, improvvisamente, i soldatini tornano a farsi un esercito dai colori sgargianti, che marcia impavido. Le spade scintillano di luce soprannaturale. I mostri hanno occhi di fuoco.

L’antico incantesimo succede ancora una volta…


Edoardo Rialti (1982) è traduttore di letteratura anglo-americana e letteratura fantasy, sci-fi, horror, per Mondadori, Lindau, Gargoyle, Multiplayer. Tra gli altri ha tradotto e curato opere di C. S. Lewis, J. Abercrombie, P. Brown, O. Wilde, W. Shakespeare. E’ collaboratore de “Il Foglio” dove si occupa di critica letteraria e ha scritto le biografie a puntate di J. R. R. Tolkien, G. K. Chesterton, C. S. Lewis, C. Hitchens. Ha insegnato in Italia e Canada. Dipendesse da lui, la sua giornata comprenderebbe solo caffè, sport e scrittura.
Copertina: un’opera di Ivan Bilibin.

2 comments on “Excalibur nel Cocito: esisteva un fantasy nel Medioevo?

  1. Alexius

    Credo di essere un esperto del genere, senza falsa modestia, ma mi avete fornito ottimi spunti di riflessione, complimenti!

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