F. Scott Fitzgerald e l’Italia


Una volta Elio Vittorini chiese a Eugenio Montale di tradurre F.S. Fitzgerald: era la prima volta che in Italia veniva tradotto un suo racconto, dopo l’esordio fallimentare con Il Grande Gatsby. Ma a leggere bene le parole con cui Vittorini lo accoglieva nell’antologia Americana, sembra che per la critica italiana quel fallimento non sia mai finito.


In copertina: Mimmo Rotella, Il Pagliaccio (1994)

(Questo testo è tratto da F. Scott Fitzgerald e l’Italia”, di Antonio Merola. Ringraziamo Ladolfi per la gentile concessione)

di Antonio Merola

In F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Ladolfi, 2018) Antonio Merola ripercorre la ricezione editoriale e critica che il nostro paese ebbe nei confronti dell’opera dello scrittore americano F. Scott Fitzgerald: dalle prime traduzioni di Tenera è la notte e Il Grande Gatsby, che vennero ignorate dal pubblico, fino alla riscoperta autoriale nel secondo dopoguerra e alle nuove edizioni italiane che ne seguirono.
In questa storia, fu Elio Vittorini ad avere forse il ruolo più decisivo: quando nel 1941 cerca di dare alle stampe l’antologia Americana, il regime fascista obbliga la Bompiani a eliminare dal testo le note con cui il curatore accompagnava ciascuna ripartizione degli autori selezionati. L’Americana circolerà allora in due forme: una ufficiale e con una prefazione di Emilio Cecchi; l’altra sottobanco, con le note originali di Vittorini. Eppure, questa versione fantasma condizionerà da allora in poi il giudizio della critica italiana nei confronti di F. Scott Fitzgerald: con il racconto The Rich Boy, tradotto da Eugenio Montale, Fitzgerald viene inserito in una sezione che Vittorini dedica agli  «eccentrici», una sequela di autori considerati minori e di nessuna importanza nella storia della letteratura americana.

Elio Vittorini considerava F. Scott Fitzgerald come uno scrittore frivolo, che poco o nul­la aveva a che vedere con la magia del continente americano.

Non sembra anzi dargli  peso critico, collocandolo assieme ai dimenticati  Kay Boy­le, Evelyn Scott e Morley Callaghan in quella parentesi che definisce come «eccentri­ca». Di loro scrive, nella Piccola storia:                            

Tra il 1919 e il 1925 si manifestarono già in pieno i grandi scrittori, Hemingway, Faulkner, Eliot, che hanno determinato definitivamente il carattere della lettera­tura americana contemporanea, ma il periodo è […] connesso a una tendenza mi­nore di piccolo scrittori irrequieti. […] con presunzione di rivolgimento nuovo. Così non sviluppava, come avrebbe voluto, l’opera iniziata nel 1905, non la con­tinuava, e finiva per perdersi entro la propria efficienza. Gli scrittori che ne era­no protagonisti sembravano conoscere soltanto fantasmagorie di un’eccitazione presa dai nervi e di volta in volta condotta, nudamente, a suscitare gorghi di pa­role. Credevano di conquistare forme nuove, e non conquistavano che immagini prive di linguaggio. […] Con questo hanno avuto, non volendolo, un certo meri­to storico [assieme a quello di avere tentato la ripresa di Joyce], ma i loro meriti letterari non superano i limiti di un piccolo impressionismo.

E in particolare, a proposito di F. Scott Fitzgerald rispetto agli altri:

Robert Mc Almon, dotato di capacità narrative quasi normali, e di ammirazione per il pessimismo nichilista che credeva di vedere in Anderson, trasportava le aspirazioni del gruppo su un piano di ricerca psicologica fine a se stessa. Così, dopo di lui e per via di lui, che pure non ha dato nulla di notevole, F. Scott Fitzgerald poteva scrivere racconti e romanzi nei quali impressionismo e psico­logismo trovavano unità di struttura. L’appiglio alla psicologia come mezzo espressivo era, più che l’arduo sforzo intensivo di Evelyn Scott, un estuario di salvezza per l’eccentrico gruppo. Il realismo psicologico, che, discendendo dalla doppia genealogia di Henry James e dei veristi, era caduto tanto in basso con le applicazioni mondane della Wharton, veniva riportato a un nobile compito espo­sitivo da F. Scott Fitzgerald».

Siamo alla seconda apparizione ufficiale di Fitzgerald nel mondo dell’editoria italiana, ma la critica e, in senso più ampio, il pubblico non sembrano essere ancora preparati o suscettibili di comparare (vedremo poi in quale senso utilizzare questo termine) e sca­vare a fondo per cogliere la poetica dello scrittore che Vittorini etichetta come «realismo psicologico»: o meglio, tentativo vano di comunicare.

Le motivazioni che si nascondono dietro a questa ignoranza (volontà di ignorare) da parte di Vittorini sono molteplici, una vera rete di condizionamenti reciproci: anzi tutto ci si potrebbe domandare perché il curatore non prendesse in considerazione proprio il migliore amico di Hemingway («il poeta per eccellenza»), colui anzi che grazie a una curata mediazione riesce a fare pubblicare The Torrents of Spings alla Scribner’s, la casa editrice storica di Fitzgerald, e con cui rimane legato per tutta la vita non solo a livello sentimentale, ma anche critico in una reciproca influenza e contaminazione letteraria. Vittorini conosceva in modo diretto Hemingway, con il quale mantiene per molto tempo un rapporto epistolare, e forse bisognerebbe tentare uno studio sistematico delle loro let­tere per cercare una traccia di una possibile suggestione fitzgeraldiana. Se ci limitiamo però alla dimensione pubblica dello scrittore, ci è possibile conoscere meglio la figura o il personaggio di Fitzgerald per mano di Hemingway solo tramite la descrizione auto­biografica di Festa Mobile, che però esce postuma nel 1964 dopo il recupero della mo­glie: Vittorini sarebbe morto due anni dopo, nemmeno il tempo di cambiare idea; troppo tardi a ogni modo, per integrare il giudizio in Piccola Storia.
Bisogna poi considerare che quando Vittorini comincia a preparare l’Americana,
Fitzgerald era scomparso pochi mesi prima: ma non solo, il mostro della dimenticanza aveva cominciato a logorare l’uomo da molto tempo se: «Nei primi giorni del 1937, Fitzgerald andò a Hollywood. Aveva circa quarantamila dollari di debito; e la Metro Goldwyn Mayer gli offriva, come sceneggiatore, uno stipendio di mille dollari la setti­mana» (Pietro Citati, 2016) e la preoccupazione per la moglie Zelda, ricoverata in un ospedale psichiatrico. L’autore de Il Grande Gatsby (ma sarebbe meglio partire da Di Qua dal Paradiso, il ro­manzo che gli promise il successo) che veniva pagato migliaia di dollari per un racconto di qualche pagina sopra una rivista, si ritrovava a scomparire lentamente; nessuno si ri­cordava di lui, peggio ancora:

In quei mesi di disperazione scrisse a Perkins: “Vorrei che i miei libri non fosse­ro esauriti. Si potrebbe fare un’edizione popolarissima [cioè a basso costo o tascabile] del Gatsby o il libro non è abbastanza popolare? Morire in modo così totale e ingiusto dopo aver dato tanto…”. E infatti quando morì tutti i suoi libri erano completamente esauriti ed è noto l’episodio di Budd Schulberg che disse: “Credevo fosse morto” quando gli offrirono di scrivere una sceneggiatura con lui, (Fernanda Pivano, 1997).

Era il momento del cinema, non del romanzo per quella nuova contemporaneità, secon­do una penetrazione sensibile di Fitzgerald, ma anche del passaggio verso una speciale arte che si voleva o si credeva collettiva rispetto all’evasione sofisticata e individuale del raccontare “sulla carta stampata”: la conversazione di un fantasma con il passato. A ogni modo, questo potrebbe giustificare in parte che a Vittorini lo scrittore non fosse del tutto noto, o almeno nella sua importanza letteraria.          
Ma c’era anche una motivazione personale, cioè la volontà del curatore di contrap­porre la propria estetica letteraria a quella di Henry Mencken, il più grande critico ame­ricano (o almeno quello che Vittorini riteneva essere maggiormente autorevole) dell’epoca della Leggenda:                                    

Con tutti costoro [gli autori inseriti nella sezione Eccentrici, una parentesi], pro­satori e poeti, poteva sembrare un fatto ormai cosciente, e anzi scontato, per il radicalismo morale che professavano, l’identità nelle vie della vita tra purezza e corruzione. Invece il loro radicalismo era alzata di spalle, e mostrava proprio il contrario: come cioè disperassero della possibilità di fabbricar purezza con i ma­teriali stessi della corruzione, e proclamassero, disperando, l’abbandono tout-court alla corruzione. Perciò Mencken, il grande critico Henry Mencken, era una figura sovrastante tra il 1919 e il 1925. Egli assimilava le energie malespresse o espresse a mezzo o addirittura insepresse del disagio generale, e introduceva una voga di assoluta negazione umana, celebrando con inni  Nietzsche e alla musica tedesca, quello che credeva fosse lo scacco definitivo dell’America, cioè di un nuovo mondo per l’uomo. In opere nutrite di estrema potenza demoralizzatrice, attaccava i costumi puritani e libertari insieme, e tutti quegli uomini che, in poli­tica, in economia o in estetica, avevano cercato di fare opera costruttiva. Partico­larmente efficace era contro i cosiddetti neo-americanisti, contro More e contro Irving Babbitt, e mostrava fino a qual punto fossero marciti sotto le velleità di un ritorno all’antico, ai mistici presbiteriani del XVII secolo il primo, ai classici francesi dello stesso secolo il secondo. Ma lui stesso, in sostanza, non aveva da suggerire altro che un ritorno all’antico. Rifiutava, in blocco, il romanticismo, respingeva tutto quello che pur si era conquistato dal romanticismo in poi, e sug­geriva un ordine oligarchico di sedicenti profeti, nietzschiani o no, come lui. An­cora una volta, dunque, un’energia nata dal disagio degenerava in reazione, (Americana).                      

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Scrivo estetica e non ideologia, perché anche Vittorini proponeva a suo modo una parti­colare «oligarchia», quanto meno una piramide ordinata secondo criteri del tutto perso­nali: la gerarchia che culminava in Hemingway era cioè, come si è visto, non solo pale­sata ma coraggiosamente dichiarata. Cambiava invece l’impostazione strutturale:  Henry Mencken credeva nella potenzialità di quegli scrittori come F. Scott Fitzgerald (che il primo aveva ridimensionato a particolare e non necessario momento storico), nella costruzione di «un nuovo mondo per l’uomo», certamente meno ideale o idealizzante, ma prossimo per una voce che come lui parlava dall’interno.

Una quarta motivazione, che credo tuttavia essere la principale, si lega in modo diret­to alla reperibilità delle opere di Fitzgerald in Italia: l’unica traduzione disponibile pri­ma dell’Americana, è quella di Gatsby il Magnifico (1936), che però non trova il favore del pubblico e anzi, viene praticamente ignorata.                     
A Vittorini non rimane dunque che una fiducia aprioristica verso l’interpretazione di uno tra i suoi collaboratori principali: Eugenio Montale, che traduce per il volume F. Scott Fitzgerald. O meglio, l’unico racconto dello scrittore, con il titolo pariniano di Il Giovin Signore dall’originale The Rich Boy del 1926.                                                  
Fuori, c’era la tragica realtà: la disoccupazione, gli scioperi, la crisi economica… la letteratura sociale. E Fitzgerald sembrava parlare invece di una bellezza lontana, ma edonistica, come una concretezza:                                                        

Non ci sono tipi, ne plurali. C’è un giovin signore, e questa è la sua storia e non quella dei suoi fratelli. Ho passato tutta la vita tra i suoi simili ma questo è stato mio amico. Inoltre, se dovessi scrivere dei suoi simili, dovrei cominciare attac­cando tutte le bugie che i poveri han detto dei ricchi e quelle che i ricchi han det­to di se stessi – e una tale soprastruttura è stata creata che quando cominciamo a leggere un libro sui ricchi, l’istinto ci prepara a tutte le irrealtà. Persino i più in­telligenti e imparziali descrittori della vita han reso la terra dei ricchi più irreale del paese delle fate. Vi condurrò fra i ricchissimi. Essi sono diversi da voi e da me. Il possesso e il godimento sono precoci per essi, e ciò ha i suoi effetti perché li rende dolci quando noi siamo duri, cinici, quando noi siamo fiduciosi, in modo che se non si è nati ricchi riesce molto difficile capirli.

Anson Hunter è tra di loro il principe della ricchezza: il maggiore rappresentante dell’unico ceto sociale che si permette di guardare da una montagna la vita, una monta­gna di carta, incapace di altra preoccupazione se non quella di giocare con il proprio de­naro: «Una serata era sempre una cosa ben messa insieme: portare certe ragazze in certi luoghi e darsi dattorno per farle divertire; bere un poco, non molto, ma più di quanto si dovrebbe; e poi a una certa ora del mattino alzarsi e dire che si tornava a casa. Si evita­vano così i ragazzi dell’università, parassiti, impegni futuri, lotte sentimenti e indiscre­zioni. Così doveva esser fatto. E tutto il resto era dissipazione».  
Eugenio Montale propone una chiave di lettura evidente che cerca di enfatizzare a partire dal titolo: quella satirica. Ma con una sorta di capovolgimento di valore: Fitzge­rald era stato tra gli scrittori più pagati d’America. La satira veniva così a ripiegarsi in se stessa, fino quasi a scomparire; non era una critica politica, quanto uno specifico mondo che lo scrittore rappresentava come una voce intestina. Una parte del tutto, anzi la migliore, come a dire che il giovin signore non era solo il personaggio, ma anche e sopratutto lo scrittore: Fitzgerald glorificava se stesso, di qua dal paradiso, il lettore (come Parini) lo derideva di là, in una costruzione meta-letteraria. E allora, ecco la fri­volezza negli occhi di Vittorini: a nessuno importava davvero la storia dello sfacelo interiore di un giovane aristocratico americano che non viene ricambiato dalla ragazza di cui si innamora, sullo sfondo di una dissolutezza generale, mentre le nazioni del mon­do stavano per fare la guerra.                       

Il problema però, come capirà Fernanda Pivano negli anni Cinquanta, è che ogni opera di Fitzgerald non può essere compresa a pieno se non si tiene conto della vicenda biografica. Come anzi ribadisce Ottavio Fatica a commento de Il Crollo, da giovane Fitzgerald aveva avuto nella vita due o tre esperienze a cui aveva dato un valore univer­sale: tra queste, l’incontro con Zelda Sayre, a Camp Sheridan. Lo scrittore tuttavia non viene da una famiglia ricca come l’alter ego del racconto, ma anzi, non solo proprio per questo inizialmente la principale esperienza della vita lo respinge, la differenza con l’altra classe sociale diviene quasi miraggio esistenziale, una mancanza:

Tutti questi personaggi ripropongono un’identica denuncia, che è poi la denuncia proposta da Fitzgerald stesso con la sua vita, di giovane respinto dalla fidanzata per mancanza di soldi con una ferita che non si sarebbe rimarginata mai più, e di marito che per guadagnare quei soldi sprecò, spesso consapevolmente, il suo ta­lento scrivendo racconti da poco (il caso limite fu forse quello di Camel Back, scritto in una giornata a New Orleans per poter comprare un orologio di platino e diamanti da 600 dollari). Verso la fine della sua breve vita Fitzgerald scrisse, parlando della corruzione dei «ricchi»: «La mia esperienza è sempre stata la stes­sa: un ragazzo povero in una città ricca, un ragazzo povero a Princeton in un Club di ricchi… Non sono mai stato capace di perdonare ai ricchi di essere ric­chi e questo ha dato una piega alla mia vita e al mio lavoro», (Fernanda Pivano, 2005).

Fitzgerald è costretto dopo il principio di una tubercolosi a lasciare Princeton: nel 1919 si reca a New York, dove comincia a scrivere e nel frattempo, lavora in una agenzia pubblicitaria come impiegato. Ha inoltre bisogno di denaro per conquistare Zelda, che non lo avrebbe mai sposato senza il successo del primo romanzo.

The Rich Boy non era altro che la trattazione ipotetica e potenzialmente autobiografica di una esistenza altra in cui la donna respingeva l’uomo, questa volta per sempre. La sincerità con cui Fitzgerald indaga se stesso è davvero disarmante: credo anzi, che den­tro di lui c’era già il seme del dubbio che esprimerà poi nel «crollo nervoso» sulla rivi­sta «Esquire» (1936):                                               

Era un pomeriggio di marzo e ogni singola cosa da me agognata sembrava per­duta. […] In base al principio di Shaw «Se non ottieni quello che ti piace, farai meglio a farti piacere quello che ottieni», si rivelò un colpo di fortuna: sul mo­mento [dopo l’espulsione dall’Università] fu duro e doloroso riconoscere che avevo chiuso con la carriera di leader. […] Un antico desiderio di ascendente personale si era infranto, andando in fumo. La vita intorno a me aveva la solen­nità di certi sogni, e io vivevo delle lettere scritte a una ragazza di un’altra città. Da scossoni così non ti riprendi: diventi una persona diversa e, alla fine, questa nuova persona troverà nuovi motivi di interesse. […] Era uno di quegli amori tragici condannati dalla mancanza di soldi e un bel giorno la ragazza, dando pro­va di criterio, troncò la relazione. Durante una lunga estate di disperazione, anziché lettere mi misi a scrivere un romanzo e tutto si risolse nel migliore dei modi sì ma per una persona diversa. L’uomo col tintinnio di grana in tasca che un anno dopo sposava la ragazza avrebe sempre nutrito una diffidenza di fondo, un’animosità, nei confronti della classe agiata: non il credo del rivoluzionario bensì l’odio covato dal contadino.  […] Per sedici anni ho vissuto come quest’ultima persona, diffidando dei ricchi, ma dandomi da fare per ottenere quel denaro utile a godere di altrettanta libertà di movimenti nonché di quella grazia che alcuni di loro apportano alla propria esistenza.   

Da qui l’esigenza di raccontare per assurdo: Anson Hunter non conquista la ricchezza, ma l’acquisisce in partenza come eredità familiare. Questo elemento da solo capovolge l’intera esistenza ipotetica di Fitzgerald. Princeton si camuffa nella Yale University, Camp Sheridan in Pensacola, il lavoro impiegatizio nel demi monde della borsa newyorkese, ma poi la storia comincia allo stesso modo:

Il mio primo incontro con lui risale alla fine dell’estate 1917, allora ch’egli ave­va appena lasciato Yale per essere sommerso, come la più parte di noi, dalla ben organizzata isteria della guerra. In uniforme verde e blu di ufficiale di aviazione navale egli giunge a Pensacola, dove le orchestre suonavano «I am sorry, dear», e noi giovani ufficiali ballavamo con le ragazze. […] Era conviviale, salace, for­temente avido di piacere, e fummo tutti sorpresi quando si innamorò di una ra­gazza moderata e per bene. Si chiamava Paola Legendre, una bruna e seria bel­lezza di non so che paese nella California. La sua famiglia aveva una residenza invernale poco fuori della città, e la ragazza, nonostante la sua affettazione, era ben vista da tutti. Esiste una vera categoria di uomini che per il loro egoismo non possono sopportare una donna di spirito. Ma Anson non era di questi ed io non potevo comprendere l’attrazione che quella «sincerità» – così l’aveva definita lui – esercitava sulla sua acuta e un po’ sardonica anima. In ogni modo i due s’inna­morarono, e nei modi voluti da lei, [corsivo mio].   

E ancora, anche Paola nelle lettere che spedisce ad Anson cerca di muovere in lui una qualche gelosia, come Zelda aveva fatto con Scott: «E siccome Paola girellava qua e là nell’est, ella non mancava mai di nominargli i suoi spassi per farlo riflettere… Ma An­son era troppo acuto per darsene pensa. Quando vide un nome di uomo nelle sue lettere si sentì più sicuro di lei e un poco sdegnato – tanto si sentiva superiore a queste cose. E sperava ancora che un giorno si sarebbero sposati».                        
Alla fine, la coppia si rompe: il motivo questa volta non era la povertà come per Fitzgerald, ma la troppa ricchezza. La notizia del matrimonio di Paola colpisce Hunter nello stomaco: Fitzgerald cerca una seconda possibilità per quel sé, ma il personaggio manca di volontà dal momento che ha già ogni cosa dalla vita: Paola e Anson si rivedo­no, ma non hanno il coraggio di ricominciare.                   

Come spesso accade in Fitzgerald, la scrittura interpreta per lui ciò che ancora non si manifesta chiaramente nella coscienza. The Rich Boy è la precisa risposta a una doman­da che lo scrittore si pone molti, molti anni avanti, ma che esisteva già dentro quella co­struzione del sé come uomo di successo. E mentre sulla rivista l’ipotesi è ancora aperta, dal racconto emerge chiaramente come l’uomo non potesse fare altro nella vita che quello che aveva già fatto e anzi, che proprio quella strada era per lui necessaria: anche Anson, come Fitzgerald, dopo la notizia del fidanzamento di Paola si «riempie di whiskey», ma poi mentre il secondo decide di scrivere il romanzo che gli apre la porta verso la carriera letteraria, il primo trascorrerà l’intera esistenza in una stanza a Yale senza mai lasciare il circolo universitario.                                
Tutto questo non poteva trasparire alla critica montaliana, ma è proprio la complessi­tà di Fitzgerald che dovrebbe richiedere una lettura paziente da renderlo meno che uno degli autori minori della Leggenda. Vale a dire che qui non solo il binomio vita-lettera­tura è praticamente inscindibile, ma che anzi funziona come base fuori dal racconto: la magia dell’indagare un altro se stesso, credendolo autentico e scoprendo poi che l’autenticità si racchiude invece in quel sé che si credeva falso, ma che scrive.   
E nemmeno Zelda viene risparmiata: senza lo scrittore, Paola seguirà la strada della famiglia tradizionale, nulla a che vedere con «la famosa maschietta» degli Anni Venti.
Mentre le ultime pagine della storia raccontano il delirio di solitudine di Anson Hunter, il quale una notte, ormai uomo maturo, adulto, non trova nessuna persona con cui passare il tempo:                                      

Anson ridiede un’occhiata alla sala [si trova in un bar, ma il vecchio amico barista non sembra volere perdere tempo con lui], rifletté un momento, poi uscì e passeggiò su e giù per la Fifth Avenue. Dalla finestra di uno dei suoi club – uno che aveva visitato pochissimo negli ultimi cinque anni – un uomo grigio dagli occhi annacquati lo guardò. Anson affrettò il passo; quella figura che sedeva là in una rassegnata vacanza, in solitudine altera, lo rattristò. Poi si fermò e rifacen­do i suoi passi indietro si avviò verso la 47esima Strada, dov’era l’appartamento di Teak Warden. Teak e sua moglie erano stati tra i suoi amici più familiari e pro­prio quella casa lui e Dolly [amante di ripiego] avevano molto frequentato al tempo della loro relazione. Ma Teak s’era messo a bere, e sua moglie aveva detto pubblicamente che Anson aveva un cattivo influsso su di lui.

E ancora:

Era intollerabile dover passare la sera da solo; la stima che si può fare talvolta di un momento di ozio non val più nulla quando la solitudine è obbligata. C’erano sempre donne di un certo genere, ma le sole che conoscesse erano per il momen­to svanite dalla città e di passare una sera a Nuova York con qualche compagnia noleggiata non gli era accaduto mai, gli sarebbe parsa una cosa bassa e da nascondersi, il diversivo di un viaggiatore di commercio in una città straniera.

La fine è esemplare: Anson Hunter decide di partire assieme alla voce narrante, di cui noi non sappiamo nulla per l’intero racconto. Ma forse sarebbe meglio dire di spersona­lizzarsi: sopra la nave il personaggio sembra finalmente ritrovare se stesso nell’abban­dono della propria identità, ma quale se stesso a Montale (e Vittorini) non era ancora dato sapere:                                                         

Ed io ero contento che fosse tornato ad essere se stesso, o almeno quel che co­noscevo e col quale mi trovavo bene. Non credo che sia mai stato felice se qualcuno non era innamorato di lui, rispondendogli come la limatura risponde alla calamita, aiutandolo a spiegarsi e promettendogli qualche cosa. Ma non so che cosa… Forse era la promessa che ci sarebbero sempre state donne al mondo pronte a spendere le loro ore più vive, più fresche e più insolite per cullare e pro­teggere quella superiorità ch’egli educava teneramente in cuor suo.


Antonio Merola, classe 1994, è laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato il saggio F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Ladolfi, 2018).  È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (A. V., Le Mezzelane, 2017) e ne gestisce la sezione Yawp Poesia. Si occupa dei Quaderni Barbarici su Patria Letteratura, dedicati alle poesie inedite di giovani voci poetiche contemporanee e di Razzie Barbariche su Pioggia Obliqua: una rassegna dedicata alla poesia edita under 30. Sue poesie inedite sono apparse su Atelier (cartaceo e online), Pioggia Obliqua, Poetarum Silva, Il Foglio Letterario, Argo, La Tigre di Carta, Pageambiente, Euterpe, La Macchina Sognante e nel Poetico Diario (LietoColle, 2017). Collabora o ha collaborato con  Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì (per cui cura la rubrica L’isolamento del romantico americano), Lavoro Culturale, Carmilla e Culturificio. Suoi racconti inediti sono apparsi su Carmilla, Argo, Cultora, Frammenti Rivista e Reader For Blind.

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