Pubblichiamo un libro inedito Meltemi dell’antropologo Franco La Cecla a puntate: Surrogati di presenza. Il saggio svela la dimensione animista delle relazioni digitali che intratteniamo con i media: il mezzo principale con cui, oggi più che mai, intratteniamo i nostri rapporti di presenze-assenti.
IN COPERTINA: Piero Dorazio, Epigon (1998), Asta Pananti online
Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.
di Franco La Cecla
È proprio dei periodi di transizione o di emergenza lo svelamento di processi che sono celati nella quotidianità e nelle routine. Se oggi siamo accompagnati da “devices” che fanno parte integrante del nostro corpo, al punto da non renderci più conto della loro originaria estraneità, sono proprio le rotture, le vicende improvvise e le solitudini a essere momenti rivelatori. Il telefono che è diventato a tal punto parte di noi da farci sentire monchi se lo perdiamo o non lo troviamo è l’esempio più lampante. Al punto da farci chiedere come avevamo potuto vivere senza. E’ interessante che quando questi strumenti diventano l’orizzonte totalizzante del quotidiano, quando essi si sostituiscono davvero agli incontri in carne e ossa, allora mostrano tutta la propria nudità e il loro imbarazzante statuto. Per tutti prendiamo l’esempio di quella particolare forma di medium che è la comunicazione schermo a schermo, sia esso il WhatsApp con la video chiamata o lo Skype o altre forme più sottili ed evolute, Zoom, ma anche tutte le versioni nazionali e “orientali”, come quelle che passano per la piattaforma Ali-Baba. Questa speciale forma di presenza/assenza che offrono è legata storicamente al progetto di fisicizzare la comunicazione e quindi di consentire forme diverse di sesso online, sia nella versione di una fruizione personale, che in tutte le ricadute commerciali. Più evoluti dei siti porno e più sicuri delle dating-line questo tipo di scambio di immagini viventi ha alle spalle un buon trentennio di sperimentazioni. Ad esempio son diventati nel mondo arabo degli anni ‘90 una chiave “sicura” per far sesso, gestita spesso da parte femminile come maniera di difendersi dai comportamenti aggressivi in pubblico degli uomini. Con l’affermazione che in questo tipo di scambio sessuale non vi era alcun male, perché il Corano non ne accenna e perché esso non comporta alcuna forma di “impurità” fisica. Se questa è la sua origine più specifica è diventato però strumento molto diffuso di altri tipi di transazione, business call, riunioni di gruppo, transazioni di ogni tipo e party-online. Venduto come possibilità di agre da remoto probabilmente non ha inciso in maniera effettiva sulla mobilità globale, mentre sicuramente ha cambiato alcune procedure di lavoro – tutto ciò che può essere transitato in immagini e verificato in esse. Dal punto di vista delle relazioni “informali” della sfera delle relazioni affettive ed amicali questi strumenti sono stati ampiamente testati proprio a causa della grande mobilità – e hanno consentito la continuità dei legami in un mondo in cui la distribuzione del lavoro e delle risorse è diventata sempre più ineguale. I primi luoghi infatti in cui si sono sperimentati questi scambi sono stati in parallelo ai “sex-center” i telephone shops per emigrati, luoghi atti a mantenere un rapporto di appartenenza a geografie lontane. Luoghi importanti per attenuare il dolore dei distacchi e della solitudine. E a un certo punto questi stessi luoghi sono diventati fonte di sospetto quando le “appartenenze” hanno messo in ballo forme di minacce antagoniste all’Occidente.
Se questo è il quadro “funzionale” , poco però è stato detto e poco è stato studiato sul piano della “non neutralità” dello strumento stesso. Fedeli ancora all’idea ci Mac Luhan che “il medium è il messaggio” dobbiamo chiederci di cosa Skype, Zoom e compagnia siano il messaggio. Sono proprio i periodi come questo che stiamo vivendo a farci comprendere come usare questi devices come unico strumento di rapporto con gli altri sia qualcosa che altera profondamente la nostra percezione del rapporto stesso: qui altera non ha alcuna connotazione di giudizio, ma vuole essere il primo passo per farci guardare con un attimo di distanza – le regard eloignè- dell’antropologia a tutto questo.
Piero Zanini mi scrive dopo un divertentissimo skype-party di qualche giorno fa in cui ci siamo ritrovati tra una decina di amici sparsi per festeggiare un compleanno:
Simpatico ieri sera, il party in assenza. Anche se trovo che queste piattaforme hanno tutte lo stesso problema: non sopportano il silenzio. Hanno bisogno di un flusso continuo di parole, altrimenti appena il ritmo cala ci si guarda senza sapere cosa fare e un certo imbarazzo appare. E questo malgrado l’intimità che si può avere con quelli con cui sei connesso. A un certo punto lo senti arrivare, lo vedi negli occhi che ti stanno guardando sullo schermo, lo percepisci nel corpo che si agita, si alza, esce dalla presa della camera per un momento, ritorna, etc. Come se nell’assenza del corpo fisico, quello sguardo, quello di skype, zoom o altro, per quanto sia ricambiato, non reggesse, non bastasse a se stesso e avesse bisogno costante del sostegno della parola. Altrimenti precipita. Tra i tanti modi di essere in imbarazzo, questo mi pare essere il più scomodo…
Come sempre Piero coglie qualcosa di sottile che è il bandolo da tirare. Parola, silenzio, occhi. La parola c’è, è la chiave della piattaforma. Ma già chi tra i dieci partecipanti è più defilato, più timido rimane come presenza potenziale, ma poco evidente, non basta vederlo o vederla in un rettangolo sullo schermo. E certamente quando la parola cade e c’è un silenzio, qualcuno di fa avanti o si aspetta che si faccia avanti a chiudere un buco. E soprattutto l’effetto di parlare insieme è molto fastidioso, ci si dà la parola a turno ed ecco che un party si trasforma in una conference call. Quello che però rende l’imbarazzo tale, lo provoca è lo sguardo. Lo sguardo non rassicura come in presenza, non da quel “dai continua!”, che in presenza è il dittico visibile e appena accennato che dà alla conversazione l’aspetto non di uno scambio di informazioni, ma di uno scambio affettivo. Certo manca qualcosa: questo è ovvio, ma non è la fisicità in astratto, il fatto di potersi “sentire” fisicamente, la vibrazione della presenza altrui a pochi passi da me. Quello che manca è che gli occhi non penetrano lo schermo, non ci si può guardare negli occhi, anche se ci si ama tanto, anche se ci si brama tanto. Lo schermo è uno schermo, cioè blocca davvero il passaggio dello sguardo. Aristotelicamente siamo portati a pensare che forse è vero che lo sguardo ha una fisicità, è qualcosa di indirizzato – un flusso di particelle- che tocca la pupilla dell’altro. Come i pugnaletti che nei cartoni animati partono dagli occhi di chi vi odia, c’è qualcosa che qui non passa, viene respinto da uno scudo. Cercate di guardare la persona amata negli occhi e vi accorgete che non “vi vede”, vi vede nel vostro apparire, ma non nel vostro indirizzarvi a lei. Skype & co consentono uno scambio disincantato, distratto, smagato, dove i corpi altrui sono il ricordo attualizzato dei corpi che conoscete, il simulacro di essi, direbbe Baudrillard, ma non sono del tutto essi. C’è chi ovviamente fa sesso online, c’è chi seduce perfino online, ma il tutto ricorda più un peep show piuttosto che un incontro. È la scena di Paris Texas in cui Nastassja Kinski risponde in maglione rosso al cliente dall’altra parte del buco – dello schermo, del marchingegno. È un eves-dropping, un guardare l’altro dal buco della serratura, e quindi una attività la cui perfezione consiste nello spiare l’altro, ma molto poco nella reciprocità. Entriamo in una apparente intimità, quella che l’altro ci concede pur sempre in una vetrina. Dimentichiamo spessissimo che lo schermo del computer, del telefono, dell’i-pad sono “vetrine”, cioè simulatori di presenza, alteratori di presenza, ne sottolineano l’aspetto fantasmagorico, spettacolare, ma lo riducono a merce, nel senso più ampio del termine. Con Skype &co compriamo la presenza altrui, o meglio il surrogato di presenza altrui. Mai come in questo momento ne abbiamo bisogno e mai come in questo momento ne restiamo delusi. Alla fine gli occhi dell’amore, gli occhi dell’amante, gli occhi dell’amico sono il riflesso dei nostri: siamo narcisi costretti ad accontentarci di riflessi in assenza della verifica che lo sguardo altrui, penetrandoci, potrebbe darci. Siamo allo stesso tempo pagliacci di noi stessi, tentativi di apparire agli altri come qualcosa che dovrebbe interessarli anche in assenza nostra. Siamo merci che non hanno dato il proprio consenso ad esserlo, che non hanno firmato alcun contratto di peep show, ma sono lo stesso stati assorbiti nello schermo dove esso si svolge. Anche qui, meglio di niente, certo, ma l’importante è saperlo, sapere che tutto questo “non è” come essere davvero insieme a coloro che ci amano, che ci bramano e che noi amiamo e bramiamo.

Fa(k)ebook come surrogato di amicizia
-->L’assordante banalità di Facebook è stata analizzata da più par ti come un sintomo della distrazione dei nostri tempi. Si parla di un nuovo tipo di gossip, di uno scambio di ovvietà tra milioni di persone bisognose di comunicare al livello più basso del proprio cicaleccio quotidiano. Oggi se si vuole avere il polso del li vello della cultura generale, della soglia di credulità e disinformazione, del contagio di stupidità planetaria, basta entrare in Facebook. Questo non è l’effetto di un particolare progetto, Edoardo Saverin e Zuckerberg hanno inventato lo strumento, non i contenuti. Ma nel caso di Facebook lo strumento ha una matrice talmente ideologica che è difficile che vi possano essere veicolati altri contenuti. L’algoritmo che lo tiene in vita è molto semplice: rendere gestibile da parte di una rete quella zona di informalità che costituisce lo scambio tra persone nella vita quotidiana. Qui non si tratta di uno scambio con uno scopo, come veicolare informazioni, mettere in piedi transazioni commerciali o finanziarie. Non è uno scambio scientifico né professionale, per questo esistono piattaforme specializzate. E non richiede nemmeno il particolare impegno di concisione di strumenti come Twitter. Facebook espropria una zona ben precisa della vita sociale, quella dell’informalità delle relazioni che va dall’incontro casuale alla conoscenza e all’amicizia. Questa zona che Facebook maliziosamente chiama “Friends,” è per tradizione millenaria nella storia dell’umanità, un luogo che non è possibile fissare o definire. Sta al di fuori del mondo del lavoro, al di fuori delle operazioni quotidiane rivolte a uno scopo. L’amicizia non ha un fine e soprattutto non ha una formalizzazione. Non si va da un notaio o da un prete a sottoscrivere un atto di “amicizia”. La genialità di Facebook sta proprio nell’avere rapinato la zona dell’informalità. La sua vaghezza, il suo carattere non vincolante, il non essere nemmeno definibile come entertainment. Per capire come sia strana questa forma di rapina basta riflettere sul fatto che è difficile tradurre il senso di “friendship” veicolato da Facebook nel nostro concetto di “Amicizia”. Per un paese mediterraneo come l’Italia l’amicizia non è poter postare sul sito di qualcuno le proprie foto, né l’avere il diritto a spiare nella sua vita di relazione. L’amicizia è nella sua indefinibilità una delle istituzioni più inafferrabili delle società umane. È un’istituzione che viene definita al suo interno e le cui regole sono fluttuanti come lo è la relazione. Cercare di trasformare l’amicizia in una tabella di diritti e doveri è impossibile. O almeno lo era fino alla comparsa di Facebook. Facebook ha operato una forma di espropriazione dell’amicizia con un’abile riduzione di essa ad alcuni requisiti: si diventa amici con un click, o meglio con due, uno di richiesta ed uno di accettazione. Ma in quale società questa for ma è considerata una garanzia di amicizia? Dove risiede la gratuità, la non definibilità di un legame che si sostiene con il suo durare nel tempo, ma anche con l’implicare attrazione, simpatia o antipatia? L’amicizia è una forma di amore sociale, Facebook la riduce all’appartenenza alla stessa rete di reciproco spiarsi. Anche nel pettegolezzo, che è la forma sociale che più si avvicina a Facebook, le regole sono differenti. Il pettegolezzo si basa sull’infrazione del segreto e dell’intimità di terzi, mentre Face book si basa sul consenso all’infrazione del segreto e dell’intimità di noi stessi. Questa infrazione ci può sembrare poca co sa proprio per il carattere “banale” del social network, che uni forma al suo interno qualunque tipo di notizia personale, facendola diventare semplicemente un tag: dal postare un lutto per un amico, alla musica o un paesaggio che ci piace. Facebook abbassa il livello del pettegolezzo perché non è possibile fare di esso un discorso universale. O meglio lo è, ma a patto di distruggerne il senso. In un mondo totalmente trasformato in pettegolezzo la voglia di spiare nell’altrui vita e di essere spiati è una voglia che si autodistrugge nell’orrore della banalizzazione di qualunque forma di intimità. Perché il pettegolezzo umano, il sussurrare all’orecchio o la gomitata all’amico richiedono una speciale forma di intimità. Facebook deve il suo successo all’essersi presentata come una piattaforma di intimità a basso prezzo, non diversamente dai tabloid del sabato sera o dei peggiori programmi televisivi. E deve il suo successo al senso di infrazione che per noi assume darsi al pettegolezzo. Ma mentre questo è una forma di infrazione che può essere molto efficace – screditare chi ne è oggetto, calunniare sottilmente chi si vuol colpire – nel calderone del brusio banale di Facebook si perde ogni tipo di efficacia. Il “perdere la faccia” su Facebook è molto meno pericoloso che perderla in pubblico nella vita “fisica” di prossimità. Questa è un’altra delle attrattive di Facebook, perché vi ci si può sempre giocare cambiando profilo, ma è anche sinonimo del fatto che nel “campo Facebook” non si gioca veramente nulla che abbia un effetto. È infatti un campo autoreferenziale che simula di essere un campo sociale. Da questo punto di vista è il rappresentante ufficiale dell’imbroglio dei “social media”, simulazioni di un campo sociale, ma in realtà surrogati riduttivi di esso. I “social media” sono un’operazione volta a espropriare una fetta ulteriore del settore informale. Corrispondono alla tendenza dell’economia, denunciata da Ivan Illich trent’anni fa nel suo Lavoro ombra1, ad occupare lo spazio dei legami in una società. Come il lavoro femminile di cura, la cortesia trasformata in hostess, il selfhelp declinato in autosfruttamento, Facebook è la trasformazione in economia delle costruzioni di legami di amicizia. Ma da questo punto di vista è la produzione di un fake, di un falso, ed è efficace solo per chi la gestisce, per chi ha capito che oggi il settore informale è quello in cui affondare le mani per arraffare ciò che è “gratuito”.
La vita della gente, la vita di relazione della gente, è ancora (ma non per molto) “gratuita” come lo è l’amicizia. Facebook ce la fa pagare e la trasforma in una merce ben precisa. Ci fa credere che siamo amici, mentre a volte lo siamo nonostante lo spazio di espropriazione che Facebook ne fa. Il fatto che poi su questo “social media” nascano amicizie vere dipende da noi e da quanto sappiamo creare gratuità a prescindere dalla rete. Da questo punto di vista Facebook rivela che il re è nudo. La rete pretende di sostituirsi alle relazioni che le persone creano normalmente nella loro vita quotidiana. Facebook non è un aiuto all’amicizia, ne è l’espropriazione al fine subdolo di “tassare” le relazioni, di sottoporle ad operazioni quantitative e qualitative che rendano questo spazio gratuito uno spazio controllato e utile ad altri fini. Non c’è bisogno di credere che sia il Grande Fratello o la forma più subdola di influenza e di consenso. Qui l’operazione avviene prima. È la trasformazione dell’amicizia in surrogato, in un fake dell’amicizia. Il surrogato viene spacciato per il “campo” dell’amicizia, per strumento che facilita i rap porti e li rende veloci ed agevoli. L’effetto, lo sappiamo bene, è l’illusione di trovarsi in un campo di amicizie, mentre invece ci troviamo di fronte a dei fake che nascondono le persone che si offrono di rappresentare. Le persone non sono il loro diario, il loro album, i loro tag e i loro commenti. Queste sono solamente le riduzioni delle persone ad una normatività deludente perché tutta omogenea e orrendamente belante. Non vi è mai capitato di chiudere Facebook sentendovi più soli di quando l’avevate aperto? Perché? Proprio perché l’amicizia di Facebook non dà compagnia, ma solo la rassicurazione che qualcuno che voi conoscete è anche lui/ lei collegato/a. Ma questo non dà alcun con tributo in più alla vostra storia di relazioni con le altre persone. È come se uno per farsi compagnia consultasse l’elenco telefonico. La forma di stanchezza che gli utenti di Facebook oggi pro vano è legata al fatto che è uno strumento che si autodistrugge. Più si amplia e meno dà quello che promette. Siete soli della solitudine metropolitana, quella per cui potreste conoscere chiunque, ma non conoscete nessuno, appunto perché conoscere e diventare amici è una informe forma di legame, è qualcosa che non può essere definito da parametri e da “profili”. L’amicizia è l’irruzione del gratuito e dell’inaspettato. E ogni “facilitatore” dell’amicizia è un lenone o una ruffiana. Zuckemberg è un ruffiano di grandi proporzioni che sfrutta l’impotenza dei suoi cli enti ad avere rapporti completi e a trovarsi da soli nei contatti umani.

Franco La Cecla
Il funerale di Facebook
Sarà successo anche a voi di scoprire leggendolo sulla sua pagina Facebook che un lontano conoscente, o peggio ancora un amico che non sentivate da tempo è passato a miglior vita. Ma gari lo avete scoperto perché qualcuno ha “postato” sulla sua pagina un affettuoso ricordo o un inconsolabile compianto. Se era un attore, un calciatore, una celebrità della tv o del cinema la cosa si sarà fatta più intensa e in tanti avranno scritto sulla sua pagina o sulle pagine degli amici un cordoglio prolungato, a vol te per giorni, o addirittura settimane.
Quando è accaduto le prime volte è successo di stupirsi e di cominciare a pensare che sì, visto che Facebook è per eccellenza un luogo dove la comunità dei veri o improbabili amici si conta continuamente, allora prima o poi, data la lunghezza media del la vita, sarebbe dovuto accadere. Probabilmente vi si sarà accapponata la pelle nell’aprire la pagina di un amico e vedere la sua immagine di profilo, riguardare le sue foto, pensando a com’è strano che non vi possa più rispondere. Ancor più strano diventa quando gli amici di lui o di lei cominciano a lasciare messaggi sulla sua pagina come se fosse ancora in vita o semplicemente in suo omaggio.
I post hanno sostituito i fiori sulla tomba e sono nati dalla constatazione o dall’illusione che la pagina di qualcuno sia in qual che modo una forma della sua presenza. È qualcosa che Thimoty Leary, uno degli antesignani della realtà virtuale e grande cultore dell’utilizzo di sostanze psicotrope, aveva già sognato: un’eternità in rete. Leary voleva lascia re una presenza di sé talmente ampia da far sospettare che la sua mente potesse essere ancora in vita: nel senso auspicato da Gregory Bateson in Mente e Natura.
In fin dei conti il pensiero di qualcuno continua a vivere dopo di lui, filosofi, poeti e scrittori lo sanno. In Bateson è presente l’idea ancora più radicale che la mente esista solo nell’interazione e che quindi l’esistenza sia una intersoggettività. Ma cosa ne è dell’intersoggettività quando uno dei soggetti è defunto? Questa è una vecchia storia cui le religioni, i culti de gli antenati, nonché i culti funerari, hanno cercato da sempre di dare una risposta.
In tutta l’area indonesiana ad esempio vi sono due tipologie di morte: quella che avviene nel momento del decesso e quella che deve invece essere cauterizzata, estromessa e ratificata at traverso un rituale in cui il morto diventa antenato, ovvero passa da una natura di defunto – pericoloso come tutti i revenants, i morti sospesi – ad una natura benigna.
A Bali, che è il luogo più celebre per questa forma di rituale, il morto viene seppellito spesso tra i pianti (anche se contenuti) dei parenti. Viene poi in un secondo momento disseppellito, a volte anche dopo alcuni anni, nel momento in cui la famiglia ha raccolto abbastanza soldi per poter celebrare insieme ad altre famiglie di defunti un grande rituale in cui le spoglie vengono poste in immense costruzioni di cartapesta a forma di elefante (o di gallo o di tigre oppure altro) e vengono date alle fiamme al termine di una lunga processione. In questa “seconda morte” i parenti non piangono, al contrario a volte sono celebrazioni molto allegre e colorate, quasi un carnevale. Nei rituali funerari di molte culture permane l’idea di una necessaria trasformazione dello statuto del defunto, che passa da un mondo a un altro e che soprattutto cambia la sua attitudine nei confronti di coloro che sono ancora in vita.
In Facebook invece avviene una specie di “trattenimento” del morto. Ne viene prolungata l’esistenza da “social”, come se fosse l’unica esistenza concepibile. Liberatosi dal corpo, lui o lei rimangono incatenati al ruolo che avevano all’interno dei social network. Ai morti viene dato il contentino del ricordo, trasformati in quello che sono stati, non in quello che saranno. Ovvia mente niente più di Facebook dichiara la natura atrocemente nostalgica e disperante della nostra concezione della vita e della morte. Ancora di più, essendo Facebook una cattiva appendice della banalità della carta stampata, gli amici ricordano il defunto come in ogni buon “obituary”, il coccodrillo dei giornali, l’annuncio mortuario. Chi muore era sempre una cara persona, era il migliore dei musicisti quanto era bravo come attore e non ve ne siete accorti lascia un grande vuoto e nessuno sarà mai come lui/lei . Una banale forma di beatificazione del defunto che acquista meriti per il fatto stesso di essere morto, un’impresa che ancora impressiona i più. Come se i meriti o i demeriti in vita venissero riscattati dal dolore vero o simulato dei fan. Ci sono episodi molto toccanti, ovviamente, anche in questo campo. C’è chi scrive ogni giorno sulla pagina della persona scomparsa (rinnovando una fedeltà che è lodevole, ma allo stesso tempo messa nella vetrina per tutti coloro che possono fare una visita alla tomba virtuale). Non è molto consolante né per il morto, né per i congiunti, salvo dare l’idea che il morto è diventato famoso e ha una sua modesta fama che lo sostiene. Come in una frase di Andy Warhol: la nostra società concede ad ognuno un quarto d’ora di celebrità – e aggiungo, concede ai morti una gloria che dura da un quarto d’ora fino a qualche mese di visite del loro “profilo”.
C’è naïveté e allo stesso tempo rozzezza in tutto ciò, ma soprattutto c’è un balbettio nei confronti della morte che è tipico del nostro secolo ignorante ed infelice. Questo imbarazzo è tan to più grande nel momento in cui riguarda qualcosa di insopportabile per i social network, di insopportabile proprio perché è lì dietro l’angolo in ogni momento. L’attualità su cui si basano i “social media” fa sì che essi siano sempre pericolosamente “scaduti”, votati all’oblio. L’oblio per i media è la cosa meno perdonabile, mentre nei rituali funerari esso costituisce l’elemento essenziale per lasciare i morti finalmente in pace.

L’immagine di sé nell’era del selfie
Quest’estate, durante un viaggio in Asia, ho assistito con uno o due mesi di anticipo rispetto all’Europa, all’uscita del nuovo gadget per farsi un selfie. A Borobudur e poi a Singapore mi sono trovato circondato da questi nuovi aggeggi, un bastone con una cornice alla fine a cui assicurare il proprio telefono e su cui agire con un meccanismo interno per fotografarsi. Da un certo punto di vista il gadget è una contraddizione in termini. Perché farsi un selfie a distanza? Nel selfie c’è una dimensione di intimità molto vicina a quella di uno specchio. E infatti non è raro vedere ragazze e donne mature aggiustare il rossetto o truccarsi nell’immagine che il portatile restituisce, come avrebbero fatto fino a dieci anni fa con uno specchietto custodito nella borsa. Il prolungamento del selfie non permette più questo tipo di intimità con sé stessi. E allora a che tipo di richiesta risponde? A quella di simulare una foto pur facendosi un selfie. In Asia è una simulazione collettiva. Ci si fotografa insieme ai propri coetanei o alla propria famiglia e lo si fa come se ci fosse qualcuno che ci scatta la foto da una certa distanza. Insomma è come se fosse un aggiustamento del selfie per simulare un effetto verità. Ma c’è un elemento in più: quello dell’autosufficienza. Il bastone consente di restare all’interno dell’intimità del gruppo o del sin golo senza dovere chiedere ad un estraneo di fotografarci. Per ché? Perché nella natura del selfie o dei suoi prolungamenti c’è qualcosa di cui sottilmente ci vergogniamo. Esso ci rimanda ad una ricerca di immagine di noi stessi che non passi attraverso il controllo, lo sguardo, l’attenzione altrui. Nasce da un confessato narcisismo di cui l’intera società ha una specie di vergogna. È una pratica solitaria e in quanto tale porta con sé l’aura di in frazione e di colpa che ne sono tipiche. Sorge all’interno della stessa simulazione del rapporto d’amicizia che è il campo di Facebook, in cui bisogna mostrarsi non come gli altri ci vedono, ma secondo una vetrina di noi stessi che accuratamente dobbiamo costruire. A che serve? A dimostrare a noi e solo dopo agli altri che al nostro nome corrisponde un’apparenza fisica. È a modo suo una ricerca dell’immagine di sé, una ricerca “biografizzata”, come se avessimo bisogno per riconoscerci di sfogliare l’album dei nostri ritratti e dei nostri selfies. Chi frequenta Facebook sa bene che una delle motivazioni per farne parte è “spiare” le foto altrui, entrare nella loro intimità, un’intimità che si lascia guardare anche se simula una chiusura ai pochi. Ci sono, nelle collezioni delle foto di un portfolio Facebook, cose che spesso non è previsto vengano viste da tutti, ma questo intrufolarsi nelle immagini altrui è in qualche modo parte di quella ricerca di precamera da letto a cui Facebook risponde. Si scoprono cose degli amici e dei conoscenti che ci sembrano intime, come se effettuassimo un’infrazione nei loro cassetti. Questa simulazione d’intimità richiede una particolare performance che ruota tutta intorno al selfie. È un autoritratto che nasce per es sere postato su Facebook: l’intimità calda del profilo che viene offerta “appena afferrata”. In questo offrirsi c’è una logica forsennata di ricerca dell’immagine di sé. È come se l’urgenza del selfie richiedesse una “conferma” dall’esterno, ed infatti si aspettano i commenti: “Sei bellissima!”, “Che figo” e via dicendo. È l’attesa spasmodica di una conferma che di selfie postato in selfie, rimanda il riconoscimento di sé ad uno scivolamento continuo. È in effetti la negazione del ritratto, l’urgenza del selfie rende ogni “presa” qualcosa che si svaluta appunto perché la sua istantaneità la rende parziale. Ci siamo fotografati, vero, ma adesso tra un secondo io non so più se la mia faccia apparirà come nel selfie appena postato. C’è una profonda inguaribile insicurezza in questa nuova forma di ricerca dell’immagine di sé. È la de nuncia di un effettivo scollamento tra un’identità che postiamo
come fissa, il nostro profilo, il nostro diario con le sue date, e il fatto che la foto fa sfuggire costantemente la nostra identità. Sembra una ricerca banale, ma dietro vi si cela la caduta del ritratto, il suo essere divenuto impossibile, almeno a noi stessi. Siamo impossibilitati ad autoritrarci perché non riusciamo ad afferrare la nostra apparenza e a fissarla. Nel digitale c’è una disperazione di questo tipo: nulla rimane fissato in una sostanza, nessuna testimonianza di noi stessi, perché ogni “presa” è negata dalla possibilità di una “migliore presa” tra un secondo. Quando passo in rassegna le foto che nel corso del tempo ho postato su Facebook trovo che esse siano troppo legate alla contingenza del momento, rispondono solo all’essere state vetrina di me in quel dato attimo. Ma soprattutto esse partono da una svalutazione inflazionaria dell’immagine di me. Vorrei non essere travisato: in questa ricerca c’è qualcosa di molto serio. È una ricerca autentica, è il contesto ad essere completamente un fake, cioè il contesto del “mirroring” posto dal selfie non mi restituisce a me stesso, ma mi restituisce ad un me stesso che è già in vetrina. Dietro l’apparente narcisismo io attendo una risposta. Posso riconoscermi in questa immagine? E gli altri mi ci riconoscono? Sembra quasi un ritorno all’infanzia, alla scoperta dello specchio, sembra un ritorno ad una condizione originaria di separazione tra il sé e l’immagine di sé. Ed effettivamente è così. In Facebook noi simuliamo una scoperta di noi stessi che avviene però alle condizioni poste non da un noi che si cerca, ma da un noi che è già separato dal me. Io mi rimetto ad uno sguardo esterno che cerco io stesso di produrre. È un cortocircuito che nell’affermare la mia alterità a me stesso la nega o meglio semplicemente la confonde, la fa finire in un riflesso di un riflesso, come nello specchio di un barbiere. È per questo che la nostra epoca apparentemente narcisista è invece estremamente povera di sé. Il selfie mostra l’artificialità del sé. Ci rivela che noi esistiamo solo nelle foto riconosciute o nella conferma che diamo alle nostre foto. Effettivamente c’è qui una verità. È vero che il self, il sé, del selfie è una costruzione culturale, è qualcosa di “intimo” alla nostra con cezione occidentale della persona e dell’individuo, ma la stessa costruzione ha una tale complessità che non la si può ridurre al processo di un selfie. Da questo punto di vista Facebook non solo “sfrutta”, “espropria” il nostro campo informale dell’amicizia, ma se ne impossessa nella costruzione, la costituzione del noi a noi stessi, un processo fondamentale per quanto culturalmente determinato. Noi cresciamo imparando a riconoscerci e a distinguerci, ma lo facciamo soprattutto con gli occhi degli altri, con gli occhi della madre che ci guarda o del padre che ci prende per mano e ci mostra di fronte ad uno specchio che quello che saluta con la manina siamo noi. È una costruzione fragile, ma essenziale.
Altre culture ne hanno di diverso tipo, altrettanto costruite. Ad esempio ci sono casi in cui l’io non si concepisce come “ego”, ma come parte di un sistema di relazioni, in cui io sono io perché connesso ad una costellazione di legami. È quello che racconta in un capitolo appassionante del suo libro Resonance l’antropologa norvegese Unni Wikan. L’idea di self, nella concezione anglosassone, è estranea ai mondi induisti e buddisti dello Sri Lanka, ma lo è anche all’infanzia della stessa Unni Wikan, cresciuta in una comunità di pescatori delle Lofoten. Perché ci sia un self è necessario un ripiegamento che in molte culture non è previsto o è marginale. L’ego si costituisce nelle relazioni e nei legami e non nella distinzione di un autoritratto ricercato in una proiezione di sé su di sé. In queste culture mi concepisco e mi riconosco in una intimità che non è prettamente solipsista, ma è sempre parte di un riconoscimento che affido agli altri. In Facebook questo processo viene simulato, ma anche ridotto e banalizzato al punto tale da divenire assurdo e inutile. Nel like non c’è lo sguardo altrui su di me, ma una volta di più il riflesso di un riflesso concordato a priori. Facebook azzera l’imprevedibilità del mio essere me poiché riduce la mia immagine a una raccolta di foto segnaletiche. Questo può andare bene per la polizia, ma non per riconoscere sé stessi.
Il portatile come presenza
Vi sarà accaduto. Vi rubano il telefono portatile o lo smarrite e vi sentite persi. Una parte di voi, una parte cospicua, quella che pulsa in una vita di relazioni, di incontri, di impegni, di foto, di promemoria, di musiche svanisce. Perdete una porzione della vita trascorsa. Magari avete un iCloud e questo non vi accade, ma a volte vi sarà successo che il patrimonio di contatti e immagini che avevate raccolto fino a quel momento non sia stato più accessibile. Vi viene sottratta una parte della vostra storia, una parte della vostra presenza nel mondo. Chi prende in giro la pervasività del telefonino nella nostra vita quotidiana non capisce che qui si tratta di una vera e propria “presenza” di noi stessi a noi stessi. Il telefono è parte fisica del nostro corpo, è un’appendice come poche altre cose lo sono state nella storia, forse l’auto, forse il cavallo, ma dal telefono non si esce o non si scende. Esso fa parte di noi in un modo molto sofisticato. È la nostra collezione di intenzioni, aspettative, la nostra raccolta di desiderio di legami e di scambi, è la potenzialità di tutti gli atti che possono condurci ad agire nel mondo. Oggi il telefono è parte integrante di quella Vita Activa che definisce il nostro mondo come costituito di uomini e donne faber. Col telefono cellulare facciamo accadere cose, ma esso si pone nella parte invisibile del nostro corpo, è un tutt’uno con l’intenzione e la parola, un tutt’uno con la capacità di ricezione. Non prendere sul serio questo strumento significa non capire l’antropologia che oggi ci descrive. Certo è singolare vedere persone le une accanto alle altre consultare o scrivere furiosamente sul proprio portatile ed ignorarsi reciprocamente. È la manifestazione di una “traslazione” dell’intimità.
Anni fa vidi ad Hong Kong per la prima volta una ragazza baciare lo schermo del proprio telefono. Aveva appena parlato con il suo ragazzo e le sembrava la cosa più ovvia da fare. Nel cellulare noi custodiamo il nostro patrimonio di intimità. Ovviamente a ciò corrisponde una “scarsità” di intimità con coloro che ci circondano fisicamente. Il telefono portatile è un “rifugio in un mondo senza cuore”, così come lo sono le cuffie per sentire la musica. È la constatazione che il mondo fisico è divenuto estraneo ed ostile. Come non averne la percezione in un vagone affollato della metro? È il tentativo di ricostruire la propria nicchia in un mondo di estranei. Da questo punto di vista non è il telefono in sé la causa, ma l’espansione della società o meglio della città a dimensioni che rendono tutti gli individui in essa, anonimi. La città ha rinunciato ad offrirsi come spazio della contiguità fisica delle persone, si è smarrita in un altrove che spesso le impedisce di essere un qui. Siamo un po’ tutti schizofrenici in questo senso, legati ad un altrove ed ignari del qui. Da questa tendenza si può però tornare indietro, anzi lo si sta già facendo. C’è un ritorno alla fisicità del rapporto abitanti-città che si riflette ad esempio nello “scendere in piazza” di questi ultimi anni, non a caso una magnifica battuta che circola oggi nei movimenti di occupazione recita “Scendete in piazza, se non altro potrete trova re un bar aperto”. Il corpo ha bisogno della fisicità e della prossimità altrui possibile negli spazi pubblici di una città. Il telefono portatile ci ha liberato dalla schiavitù di un domicilio dove ricevere le telefonate, ma ci ha anche rinchiuso in una nuova bolla, quella costituita dalla monade di noi stessi col telefono in mano. Il fatto che possiamo scriverci, vedervi film, ascoltarvi musica e leggervi persino romanzi ha reso questa bolla sempre più esclusiva ed elusiva. Da un certo punto di vista il telefono portatile risponde al mito del boyscout e del suo kit da giovane marmotta: rende possibile l’assoluta autonomia dell’individuo e la sua conseguente solitudine. È strano però che le città possano ospitare questo tipo di nuove monadi. La dimensione urbana in fatti non coincide con una vita che consente la consultazione continua del piccolo schermo: prova ne sono le centinaia di incidenti in auto in città dovuti all’utilizzo del cellulare alla guida.
Siamo comunque in una fase di transizione, proprio perché stiamo imparando a servirci di questo strumento così potente. Esso amplifica il nostro essere nel mondo e allo stesso tempo riduce ai minimi termini la nostra presenza fisica. È una forma di inazione attiva. Eppure proprio nella diffusione planetaria di questo strumento, nel fatto che è diventato un’appendice, anzi una protesi, anche per il conduttore di risciò o per il pescatore indonesiano, c’è la chiave del suo futuro. Lo stiamo addomesticando nonostante le pretese dei produttori e dei distributori di fare di quest’oggetto il sostituto della nostra presenza nel mondo. Il gioco cui stiamo giocando è di diventare presenti al mondo con in aggiunta tutti i nostri desideri di altrove, oppure di esserne impoveriti perdendo la partita del qui. Ma è difficile che il qui rinunci alla nostra presenza, appunto perché è fatto di urgenza e necessità molto più che l’altrove e alla fine le sue ragioni prevalgono. Come ho cercato di dimostrare in buona par te del mio lavoro, in questi anni la dinamica tra l’altrove ed il qui non è qualcosa su cui si possano emettere giudizi moralistici e autocondanne tipiche dell’Occidente. Ne esce una società che produce regole ed etiche quotidiane che sono parte di una danza dei corpi nella città. L’ho raccontato in un lavoro scritto con Piero Zanini qualche tempo fa Una morale per la vita di tutti giorni. La vita quotidiana produce le regole che servono al qui a perpetuarsi e contrattare continuamente con i cambiamenti del la società e con gli shock della tecnologia. La globalizzazione, lungi dall’essere una cappa che ci costringe ad essere dispersi e dissipati, deve sempre fare i conti con il qui e l’adesso della vita quotidiana. È bene non dimenticarlo: per quanto ci accontentiamo di “surrogati di presenza” essi non sono che una parvenza ed un rimando alla inestinguibile ambiguità indecifrabile della nostra presenza nel mondo.
Rosari e telefoni portatili
23 Febbraio 2015, aeroporto di Kathmandu, sala d’aspetto, affollata, dei voli per Delhi. Una coppia attende il volo Air India in ritardo di ormai tre ore. Lei è tibetana, indossa il vestito tradizionale in un tessuto che imita la seta, con una fantasia disegni della felicità e un grembiule dove si sovrappongono come in un quadro di Paul Klee barrette di scintillanti colori. Tra le mani un trengwa, il rosario di preghiera tibetano di 108 grani fatto con i semi dell’albero di Buddha, diviso in tre da nastri chiusi in fondo da piccole vajira, segno indiano e tibetano del potere re gale, del fulmine e del fuoco. Accanto a lei il marito, con un aspetto più indiano, di un indiano del sud, che tibetano, ma potrebbe essere semplicemente un nepalese. Mentre lei sgrana il trengwa (a bocca chiusa, la preghiera mentale silenziosa viene da queste lande) lui tiene in mano il telefonino e lo consulta compulsivamente. Girando intorno a loro nella mia un po’ ridicola pratica di “shouldering”, guardo da dietro le spalle di lui lo schermo. Sta giocando a Poker o meglio sta spostando delle carte da Poker sullo schermo. Penso che stiano facendo qualcosa di analogo: “intrattengono” il tempo, o per meglio dire usano il tempo dell’attesa per esercitare una pratica. Entrambi lo possono fare distrattamente, mentre aspettano e tengono le orecchie aperte a possibili annunci. Fanno qualcosa di simile, ma al contempo anche di molto differente. In effetti il telefonino sembra aver sostituito un po’ dappertutto nel mondo pratiche di ripetizione che aiutavano la gente ad “ammazzare” il tempo, o ad usarlo in qualche modo quando non c’era altro da fare. Mia nonna diceva il rosario, anche se non spesso dato il suo atteggia mento molto critico nei confronti della Chiesa. Era però devota alla “Madonna del Carmelo” e lo faceva quando lei, che era una donna iperattiva, si permetteva di fermarsi. In tutto il mondo uomini e donne usano strumenti di preghiera come i rosari, i tesbih del mondo islamico, i mālā e i Japamālā del mondo buddista ed induista, strumenti di meditazione e di preghiera basati sulla ripetizione infinite volte di mantra, sutra, nomi di Dio, avemarie e paternoster. È un modo diffuso in tutte le latitudini per dare un senso al tempo dell’attesa, un senso ed una “utilità”, perché queste pratiche hanno a che fare con ciò che il filosofo Peter Sloterdijk chiama attività mirate al “devi cambiare la tua vita”. Sono una atletica, una ascetica, un esercizio volto al miglioramento della propria condizione mentale, al posizionamento del proprio stato di fronte alla divinità o a un principio divino. Si basano su un esercizio di ripetizione che sappiamo dagli studiosi avere un effetto sulla mente, sulla concentrazione, sulla produzione di sostanze che separano il corpo dalle ansie e dalle urgenze e lo centrano su sé stesso. Alcuni studiosi aggiungono che l’effetto di queste pratiche è di “staccare” l’amigdala che è un organo pre posto alla localizzazione. Il risultato sarebbe un senso del tempo fuori dallo spazio e quindi la capacità di centrarsi sul sé e non sul contesto. Comunque sia queste attività vengono semplice mente sostituite dall’espandersi mondiale di Internet sui telefoni mobili. Facebook, le mail, Twitter, Viber o qualcos’altro tengono occupata la mente che attende, la fissano ad uno schermo con la scusa di offrire un costante “plugging” cioè una connessione costante con gli assenti e con il mondo come fonte di in formazione. È il contrario delle pratiche legate ai rosari. Attraverso l’uso del telefono portatile si amplia infatti l’area del con testo, rendendolo più astratto. Ci si allontana dal sé e lo si fa di pendere da quello che arriva dall’esterno. La propria attenzione è concentrata su ciò che avviene, su ciò che quotidianamente, momento per momento, “sta avvenendo”. L’essere sempre connessi aiuta a non perdere il rapporto con il mondo. Ma quale mondo? Non quello direttamente accessibile e a portata di mano, ma quello inaccessibile se non attraverso Internet. Nulla di male o di strano in ciò perché questo tipo di pratica corrisponde ad un effettivo allargamento della coscienza. Io non posso fare a meno di sapere del resto del mondo, perché è il rimescolamento generale delle cose che fa sì che i miei legami e i miei interessi non siano più confinati da un contesto limitato e preciso. Quello che trovo interessante però è che questo tipo di preoccupazione diventa, per così dire, un surrogato della ripetizione legata agli strumenti di preghiera. Una volta di più la nostra ipermodernità risulta antichissima. Si potrebbe obiettare che è ben diverso recitare un mantra o un rosario e compulsare ossessivamente il “mobile”. Certo, la prima pratica “libera” energie, e spazza la mente, la rende meno preoccupata, mentre la seconda si àncora alla nostra ansia di non esserci per quelli che ci conoscono e che non sono qui con noi. È un’ansia di presenza e come tale soggetta a tutti i problemi della prestazione di presenza. È un’atletica della presenza differita.
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