Faerie – Una storia del fantasy a puntate


Da Omero a G.R.R Martin, da Ariosto a Tolkien: una storia a puntate di un genere che ha tanti detrattori quanti appassionati.


di Edoardo Rialti

Introduzione – Il “cosiddetto” fantasy

Ho avuto una visione straordinaria, un sogno che non c’è testa di scienziato che possa dire che sogno era. Se uno si mette a spiegare questo sogno, è un somaro.
W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate
Ragazzi, il romanzesco è la verità dentro la bugia, e la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste.
S. King, It

Il 20 novembre 2014, dopo essere stata introdotta da un emozionato Neil Gaiman, un’anziana signora dai capelli argentati è salita sul podio del National Book Award, una delle massime onorificenze letterarie americane e mondiali. Era Ursula Le Guin, autrice di decine e decine di racconti di romanzi fantasy e fantascienza e celebri saghe come Terramare o Ecumene. Dopo aver ringraziato la commissione, i propri agenti, amici e familiari, c’è stato un piccolo affondo che non è certo passato inosservato. Una di quelle cose che pronunci con un sorriso indulgente, come quando rispondi nel cuore della notte a un amante che percorra nella penombra una tua vecchia cicatrice, e ti chieda come te la sia fatta.

E mi rallegro di accettarlo e condividerlo anche con tutti gli scrittori che sono stati esclusi dalla
letteratura per così tanto tempo, i miei colleghi autori di fantasy e fantascienza, scrittori dell’immaginario che negli ultimi 50 anni hanno visto tutte le belle ricompense andare ai cosiddetti realisti

È un tributo dell’ultimo corridore di staffetta, che racconta un lunghissimo passaggio di fiaccole, e una diatriba antica quasi come il dibattito sulla natura della narrativa stessa. Una storia che, nelle parole di un esimio professore di Oxford che sapeva trovare porte magiche nei vecchi armadi in soffitta, “risale all’Odissea, e prima ancora”. Un tributo, e una frecciata. Realists. So-called.

In effetti, il fantasy è forse il genere letterario che ha incontrato più obiezioni critiche, prese di distanza, preoccupazioni, obiezioni, persino odi viscerali. Molto più del poliziesco, e in un certo senso persino della fantascienza. Pur annoverando tra le sue fila nomi eccelsi dell’arte di ieri e di oggi e pur essendo sempre stato enormemente popolare – o forse proprio per questo – il fantasy è stato spesso relegato con sufficienza tra la letteratura di facile consumo, disprezzato alla stregua di una comoda fuga in luoghi dai nomi improbabili, una visione semplicistica e larvatamente reazionaria del mondo e dell’umanità. Certo, anche la fantascienza ne ha passate di brutte, ma il suo carattere spesso esplicitamente politico, il suo premere l’accelleratore su elementi della società contemporanea e vedere dove potrebbero portarci  – dai viaggi spaziali alla cyberbiologia – ne ha favorito la ricezione come genere “alto”, degno di attenzione e studio. Il fantasy è invece parso spesso non un passo avanti, ma appunto una regressione verso modalità espressive e conoscitive che sono proprie dell’infanzia della nostra psiche o della nostra cultura, a un romanticismo sognante, o a un pericoloso tradizionalismo reazionario.

Basti pensare alle “fole” arturiane che tanto spiacevano al nostro Petrarca, o alle sopracciglia inarcate degli Estensi in ascolto dell’Orlando Furioso – Messer Lodovico, dove avete scovato tutte queste corbellerie? –Il mondo letterario serio, i poeti e i critici laureati hanno spesso reagito a draghi, cavalli alati, anelli che rendono invisibili con la stizza del Thomas Grandgrind di C. Dickens:

Ora quello che voglio sono i Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient’altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei figli e con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore! 

Pochi anni più avanti gli farà eco il mister Darling del “Peter Pan” di Berrie, che reagisce a fanciulli volanti e fatine minuscole con la condiscendenza che è solo un’altra faccia della stessa sprezzante avversione: La Signora Darling si consultò col Signor Darling, ma questi sorrise con aria superiore: “Sono tutte scemenze inventate da Nana” disse. “È stata lei a metterle in testa ai bambini, perché certe stupidaggini le può pensare soltanto un cane. Non te ne preoccupare, cara: la cosa passerà da sé.”

Solo un cane-balia potrebbe avere un’idea simile, certo. E tanti autori di racconti fantastici non sono stati considerati molto più che pennivendoli d’accatto, o adolescenti mai cresciuti. Cani-balie, appunto. Eppure, con quel semplice “Ma”, Barrie fa presagire un ribaltamento che è anche un divertito inciso metaletterario, e che, con un volo fulmineo, ci porta nuovamente al podio del National Book Award, intento ad applaudire proprio un’anziana e bellissima “Wendy”, esattamente un secolo dopo:

Ma la cosa non sarebbe passata affatto, e ben presto quel bambino inquietante avrebbe dato alla Signora Darling un bello spavento.

Il fantasy è proprio quel ragazzo turbolento, e di shock i tanti signor Darling che scrivono sui giornali o insegnano nelle università ne hanno ricevuti un bel pò. Basti pensare a cosa successe con “Il Signore degli Anelli” di Tolkien, che fu accolto da un coro di “Buuu” della critica eppure da settant’anni continua a essere da milioni di lettori, amato da poeti, operai, bambini, mistici, impugnato a Woodstock e nei Campi Hobbit, strattonato da fascisti e cattolici tradizionalisti, e tutto ciò che lo ha affiancato e seguito. Dalla Narnia di Lewis, alla Avalon della Bradley, da “Harry Potter” al “Trono di Spade” che oggi è persino il manifesto politico dei “Podemos” spagnoli. Altro che passare da sé.

Che lo si chiami Terra di Mezzo, Hogwarths, Cimmeria, Isola che non c’è, Sette Regni, Shannara, Kadath, il richiamo del Paese delle Fate non ha mai smesso di farsi sentire. Con il suo elegante e malcelato snobismo da gentiluomo parecchio bizzarro del New Englad, H. P. Lovercraft faceva di questo isolamento rispetto ai gusti della maggioranza persino un marchio di elezione:

Sono pochi gli individui relativamente immuni dalla monotonia della vita di ogni giorno, almeno di quel tanto sufficiente a rispondere ai richiami provenienti dall’esterno, e i racconti di sensazioni e avvenimenti, o di comuni deformazioni sentimentali di tali sensazioni ed eventi, occuperanno sempre il primo posto nel gusto della maggioranza delle persone. E questo probabilmente è giusto, in quanto le faccende ordinarie costituiscono la maggior parte dell’esperienza umana. Ma le sensazioni sono sempre con noi e, talvolta, un bizzarro tocco di fantasia invade anche gli angoli più riposti della mente più pragmatica; perciò nessuna razionalizzazione, riforma, o analisi freudiana, può cancellare del tutto la paura dei sussurri vicino all’angolo del camino o nel bosco solitario.

Del resto, e con buona pace per i mal di pancia di sua eminenza H. Bloom per Harry Potter, lo riconosceva già il Professore per eccellenza, Aristotele, il meraviglioso piace. Meglio prenderne atto. E se possiamo sempre distinguere la sua presenza elusiva anche ripercorrendo la storia letteraria di tutti i paesi e le culture, sbirciando il palazzo della maga Circe con Odisseo o viaggiando con Sinbad sui tappeti volanti, quello che spesso è stato un ruscello sottile come il rivolo d’acqua che separa Lusignano da Melusina – o Dante da Matelda – oggi è un’enorme cascata, anzi un vero e proprio oceano della cultura massmediale.

Un fenomeno unico, capace di coinvolgere e legare narrativa e cinema, i fumetti, i giochi da tavolo, le convention in costume, e ovviamente i social media. Su facebook e twitter non si contano gli account Aragorn, Ermione, o Daenerys. Non c’è libreria che non abbia un nutrito scaffale di fantasy, e basta digitare la parola su un motore di ricerca, per sfilare davanti centinaia di migliaia di titoli. Milioni. Una carrellata da capogiro di spade magiche, castelli di madreperla, draghi, nani e orchi, che comprende portenti letterari e robaccia. Una caratteristica costante della narrativa di genere, e non da ieri: per ogni “Orlando Furioso” c’erano decine di “Amori di Marfisa”; per ogni “Dracula” decine di “Varney”. I vecchi steccati non reggono più.  Per diversi motivi e meriti, tra cui va certamente considerato il successo di alcune traduzioni cinematografiche e televisive, e a un mutato clima culturale nei confronti di tutta la letteratura di genere, il sospettoso recinto degli appassionati e i pregiudizi degli oppositori si sono ormai arrugginiti. Il portone è crollato.

Finalmente, e con sempre maggiore diffusione, il fantasy viene letto, studiato, discusso per quello che è: una delle modalità narrative fondamentali con cui l’umanità ha desiderato guardare sé stessa e il mondo. Offrendoci capolavori e paccottiglie. Mature capacità di autoanalisi e prodotti scadenti. Sorprese e parodie. In costante e perpetuo dialogo con tutto il resto del panorama artistico.

Certamente G. R. R.Martin col suo fantasy adulto, “brutto sporco e cattivo” e J. K. Rowling, con il più importante ciclo per ragazzi a cavallo di millennio, costituiscono i due casi fondamentali, i due salti in termini d’importanza degli ultimi vent’anni, ai quali molto continua a fare riferimento, approfondendo, variando o distanziandosi, come tutti i figli devono fare da padri e madri magari molto forti. Tuttavia resta assodato come la storia del genere possa tuttora essere fondamentalmente scandita con un A. T / D.T: avanti Tolkien, dopo Tolkien.

Il 1954, data di pubblicazione de “La Compagnia dell’Anello” resta la data spartiacque, verso cui tutto converge, e da cui tutto si dipana. Mutuando una celebre immagine evangelica, che certo sarebbe piaciuta al creatore degli Ent e di Lothlorien, è proprio  quello l’albero di senape cui vanno a ripararsi tutti gli uccelli del cielo. E, proprio come nella parabola, ha tutto inizio da un piccolo seme, una scena che, al pari di quella del “Peter Pan”, costituisce anche una profonda riflessione sul genere stesso: nelle prime pagine della sua precedente fiaba, l’hobbit Bilbo Baggins subisce di malgrazia l’invasione di un gruppo di nani – e annesso stregone con cappello a punta e pipa sempre accesa- nella sua tranquilla routine. Gli ospiti inattesi non gli stanno solo saccheggiando la dispensa, ma parlano anche di coinvolgerlo in quella brutta, fastidiosa, scomoda cosa che è un’avventura! Evocano draghi predatori, tesori da riconquistare, regioni impervie da attraversare. Tutte informazioni che Bilbo ascolta con la stessa disponibilità e piacere che riserviamo a una scheggia nel dito. Quand’ecco succedere un’altra cosa inaspettata. Solo che stavolta si tratta di un inaspettato diverso. I nani si mettono a cantare, illuminati dalla danza delle fiamme nel camino.

Improvvisamente, mentre cantavano, lo Hobbit sentì vibrare in sé l’amore per le cose belle fatte con le proprie mani con abilità e magia, un amore fiero e geloso, il desiderio dei cuori dei nani. Allora, qualcosa che gli veniva dai Tuc, si risvegliò in lui, e desiderò di andare a vedere le grandi montagne, udire i pini e le cascate, esplorare le grotte e impugnare la spada al posto del bastone da passeggio. Guardò fuori dalla finestra.

Conosco pochi momenti che esprimono così bene la natura più intima, il potere dell’esperienza artistica. Una finzione espressiva che però arriva a farci vivere nelle scarpe di qualcun altro, che fa battere un cuore estraneo nel nostro petto, e che conferisce ai cinque sensi – vedere, udire, esplorare-impugnare – nuovi confini da attraversare. Così come conosco poche frasi che hanno la forza di quel Guardò fuori della finestra, una principale che potrebbe scrivere anche un ragazzino di 8 anni, ma che qui è incastonata come un lago di montagna tra picchi innevati. In un certo senso l’immagine stessa esprime già tutto, senza bisogno di spiegare niente. Bilbo è già partito, la brutta fastidiosa scomoda avventura si è rivelata improvvisamente capace di ridestare qualcosa di profondamente intimo, che adesso lo precede sul cammino che lo porterà a sconfiggere i Troll con la stessa astuzia di un piccolo Odisseo, a diventare amico degli Elfi, a sostenere una micidiale conversazione con Smaug il Magnifico, a sopravvivere alla Battaglia delle Cinque Armate, e tornare a casa per raccontarlo. Il primo e fondamentale tesoro non sarà l’amicizia con Thorin Scudo di Quercia, la parte del tesoro del drago e neppure l’Anello del Potere, ma questo lato di sé che neppure lui sapeva di possedere. Il mattino seguente, i suoi buffi piedi hobbit non faranno che seguire quel suo sguardo intrepido, che ha già varcato il cancello, che è già in strada.

Alla costante accusa di escapismo che veniva rivolta al fantasy, Tolkien ribatteva che c’è fuga e fuga, e che tali obbiettori

confondono l’evasione del prigioniero con la fuga del  disertore… Perché mai un uomo dovrebbe essere disprezzato se, trovandosi in carcere, cerca di uscire per tornarsene a casa? O se, non potendolo fare, pensa e parla di argomenti diversi dai carcerieri e dai muri della prigione? Il mondo reale non è diventato meno reale per il fatto che il prigioniero non possa vederlo.

Non è certo un caso che Bilbo sia, al pari di Frodo, Gandalf e Aragorn, anche uno delle figure più autobiografiche di Tolkien, un ritratto dell’artista da giovane (e da vecchio) e, a ben pensarci,  il primo autore di un fantasy, quel “Libro Rosso dei Confini occidentali-Signore degli Anelli”che completeranno Frodo e Sam e che Tolkien, al pari di Manzoni, dirà di aver solo trovato e tradotto.

Nelle parole di un grande autore contemporaneo come R. K. Morgan ogni scrittore, fantasy in particolare, è essenzialmente un prestigiatore.

Maghi di palcoscenico o di strada, a seconda, forse, di quanto venerabile e ben arredato si riveli essere l’ arredamento della perfomance. Il sig. Tolkien, ordunque, è un gentiluomo della vecchia scuola, con i suoi armadietti in legno duro e specchi barocchi, acquistati a gran prezzo a Venezia; colombe d’un candore niveo, un paio di bellissime assistenti, lame di Toledo che scintillano nelle luci smorzate del teatro; tende di velluto, mantello e cappello a cilindro, l’intero armamentario. Mr Harrison, d’ altro canto, è strada pura, e non dedicherebbe un “grazie” a tutti questi orpelli. Con lui è tutto fuori dalla scatola, sui ciottoli. Una torsione del polso  il luccichio dello sguardo, carte sudice piccioni che sprizzano dalle maniche, fiamme dal nulla e voilà! Guarda! La testa è sparita!

Che si preferisca la prima arena o la seconda, ti aspettano emozioni e brividi, e dimostrazioni di perizia capaci di mozzare il fiato. Ma- alla fine, siamo comunque sempre e solo dei prestigiatori. Siamo qui per farti credere di essere in un’altra landa, che non ha alcuna esistenza al di fuori delle nostre teste; per farti piangere e temere personaggi che non sono reali. Siamo qui per venderti stronzate rigorosamente effimere, magia che sai non avere alcun fondamento reale, eppure, eppure……….

Se il trucco è buono, per tutta la durata del nostro atto, ti ritrovi completamente rapito.

E non è solo lo spettatore-lettore a sbarrare gli occhi per la meraviglia. Già, perché, incredibile a dirsi, il trucco funziona oltre le aspettative e si rivela essere un vero incantesimo. Con stupore del prestigiatore stesso, come in Pomi d’Ottone e manici di scopa, dove il ciarlatano diventa inaspettatamente un mago vero. Che li si ritenga sciamani, bardi, sognatori o pazzi, gli scrittori fantasy sono tutti eredi di Bilbo, che incantava i bambini hobbit con le sue storie sotto la luce dei fuochi d’artificio, mentre qualche vicino perbene borbotta sospettoso. Sono, al pari di lui, dei viaggiatori, che si sono messi sulle tracce del canto dei nani, diretti al Reame Incantato. Non è solo il lettore che, al pari di Sam Gamgee o Lyra Belacqua, alla fine del viaggio, nell’ultima pagina può trarre un profondo sospiro, e dire “Sono tornato.”

Questo racconto a puntate, questi appunti desiderano essere la storia di quel canto, dei Bilbo che l’hanno seguito e che sono tornati per raccontarcelo. Per evocare orchi, principi e castelli incantati al nostro focolare e farci guardare fuori dalla finestra, e desiderare di salpare con Caspian alla ricerca della terra di Aslan, di sfidare Dio insieme a Lyra Bellacqua e fondare la repubblica dei Cieli, di macellare i nemici con Conan il barbaro o Logen Novedita, di scalare i tetti di Gormeghast con Ferraguzzo, lo scaltro senza faccia, di ubriacarsi con Nicomo Cosca, o volare su un ippogrifo con Harry Potter. Di cavalcare con i Rohirrim verso l’assedio di Gondor, o cercare la Torre Nera insieme a Roland di Gilead. Di addentraci nelle nebbie di Avalon con Morgana e Viviana, o tenere testa agli spettrali Estranei dall’alto della Barriera insieme ai Guardiani della Notte.

Ogni storia di un genere letterario è anche il racconto e la rievocazione del paesaggio storico che ha visto nascere e diffondersi quelle stesse opere. È diverso scrivere di fate e prodigi se sei stato nelle trincee della Somme o sei hai protestato contro il Vietnam. Se credi in Dio oppure no. Se ritieni che le donne se ne debbano stare belle tranquille in cima a una torre o possano impugnare una spada come un uomo, magari meglio di un uomo. Se a tuo giudizio l’Oscuro Signore vive nella Mosca di Stalin oppure, forse, poteva avere le sue sorprendenti ragioni. Per questo raccontare il fantasy, con i suoi elfi, draghi e cavalieri, con le sue regine, con i suoi orchi e guerriere, con i suoi nani e gli alberi parlanti, vuol dire raccontare anche (e almeno) i nostri ultimi 200 anni; vuol dire raccontare le guerre, il femminismo, le lotte politiche e civili, i dibattiti letterari e religiosi, ma anche lo sport, la moda, il cinema. Vuol dire raccontare Hitler e Kennedy, Gandhi e Woodstock, internet, gli allucinogeni e il sesso. Come nell’armadio di Narnia, o nel Binario ¾, è possibile muoversi sempre avanti e indietro, tra questo mondo e gli infiniti altri, in attesa. Andata e ritorno.

In quei sogni si annidano bellezze e pericoli che paradossalmente hanno tutta la stessa indefinibile eppure inconfondibile stoffa. Come notò sempre Tolkien, desideravo i draghi con profondo desiderio perché il mondo che conteneva anche la possibilità di incontrarlo era più ricco e più bello, per quanto pericoloso fosse. Chi abita in pianure fertili e tranquille può sentir parlare di colline tormentate e del mare senza messi e anelare ad essi nel suo cuore. Perché il cuore è forte anche se il corpo è delicato.

Questo perché anche i draghi sono stranamente belli, sia che si creda, con Chesterton, che le fiabe insegnino che si possono sconfiggere, oppure con G. R. R. Martin che li si possa cavalcare per reclamare il Trono di Spade. In fondo, tra questi due poli, tra queste due possibili risposte sta il grande arco di duecento anni di sogni, di eroismo e disperazione, di gioia e malinconia. Sempre connesse alle nostre aspirazioni quotidiane più profonde, personali e collettive.

Come intuiva il Bardo al termine della sua carriera, e proprio sulle labbra di un vecchio mago malinconico, noi siamo fatti della stessa materia dei sogni, ma è anche vero il contrario: i nostri sogni sono fatti della nostra materia, raccontano le nostre speranze, le nostre paure, le nostre sconfitte passate o future. E persino nel quadro più fosco, persino nell’incubo più raggelante e disperato, affiora un grande costante “eppure”, come lo descrisse S. King in “It”, dove alcuni bambini trovano nella fantasia e nell’amore reciproco la forza per tenere testa a un mostro: per diecimila contadini medievali che creano i vampiri credendoli reali, ce ne può essere uno – probabilmente un bambino – che immaginerà il paletto necessario a ucciderli.

E credi ai mostri, credi ai corpi imbestialiti, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano? si chiedeva C. Pavese, per rispondersi Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.

In effetti, quelle che ripercorreremo nelle prossime puntate sono sempre storie di uomini nel paese delle fate, e anche laddove si racconti tutto dal punto di vista degli elfi stessi, sono sempre elfi raccontati e immaginati da uomini. Quel paese che contiene infiniti universi, ma non è mai più grande o bizzarro del nostro cuore.

Come scrisse sempre C. S. Lewis, che di letteratura e di fantasy se ne intendeva,

il valore del mito è che esso prende tutte le cose che conosciamo e restituisce loro il ricco significato che è stato nascosto dal “velo della familiarità”. Il bambino gusta la sua carne fredda (altrimenti sgradevole) immaginando che sia un bisonte, da lui appena ucciso con arco e freccia. E il bambino è saggio. La carne reale torna a lui più saporita per essere stata intinta in una storia; potete dire che solo allora essa è davvero carne. Se siete annoiati del paesaggio reale, guardatelo riflesso in uno specchio. Facendo partecipi di un mito il pane, l’oro, il cavallo, la mela o le strade vere e proprie, non fuggiamo dalla realtà: la riscopriamo. Mentre la storia continua a essere presente nella nostra mente, le cose reali sono più loro stesse. Inserendole in un mito le vediamo più chiaramente.

Questo libro vuole essere la storia di questo specchio magico, e dello strano riflesso che ci aspetta sulla sua superficie, tendendoci la mano.

Vogliamo guadare?


Premessa per i fissati

(ovvero mettere le mani avanti con gli appassionati del genere)

Ho già visto la stregoneria prima d’ora e non ha mai rappresentato un ostacolo se dovevo uccidere chi mi contrastava. Sentiamo, cos’ha di tanto terribile?
È bello, Gil. Ecco quel che dicono, che è bello al di là di ogni parola.
R. K. Morgan, Sopravvissuti

Come ammoniva il prof. Tolkien Il Paese delle Fate è una terra pericolosa; vi sono trabocchetti per gli incauti e prigioni per i temerari… è vasto, profondo, eminente e colmo di molte cose: vi si trovano animali e uccelli di ogni genere; mari sconfinati e stelle innumerevoli; bellezza che incanta e pericolo onnipresente; gioia e dispiacere taglienti come spade. E se è coraggioso tentare anche solo un’incursione, che dire del tentativo di stendere un resoconto di tutti i viaggi e i racconti? Come si può mappare La Storia Infinita, appunto? Proprio recensendo Tolkien, il suo sodale Lewis riconosceva che un simile libro ha i suoi lettori privilegiati, oggi persino più numerosi e critici di quanto ci sia sempre accorti. Ed erano gli anni ’50. Che dire di oggi, con i milioni di siti di appassionati, le recensioni dei blogger, le convention di cosplayer? C’è di che far tremare le vene e i polsi. Privilegiati, numerosi, critici e AGGUERRITI, verrebbe da aggiungere.

Chiunque abbia un minimo di dimestichezza col mondo fantasy, sa che da qualche parte esiste sempre un tolkienista che conosce una declinazione elfica in più, un potteriano che ha evidenziato un altro dettaglio, un martiniano che ha notato una ripresa di Lovercraft cui nessuno aveva ancora pensato. Sono perfettamente consapevole che, per quanto curata e appassionata possa – spero – essere la mia ricerca, ci sarà sempre e giustamente chi troverà qualche mancanza. Che mi scriverà o solleverà la fatidica domanda: PERCHÉ non hai parlato di Lynn Flewelling? PERCHÉ non hai citato quest’altra fonte di Conan? E PERCHÉ così poco spazio per Dimenticato Re Gudu? Guarda che ci sono ALTRI  urban fantasy, e una giovane scrittrice finlandese ha pubblicato i primi due volumi di un ciclo in sette volumi che si annuncia come il NUOVO Harry Potter

E so già che la mia reazione sarà un misto di Maledizione! Lo sapevo che qualcuno l’avrebbe notato e di E chi cazzo è questa maledetta finlandese?

Come diceva C. Hitchens, la croce-delizia dello scrivere un libro e che solo dopo averlo pubblicato incontri molte delle obiezioni e annotazioni che lo avrebbero reso molto migliore. Amen. Per questo metto le mani avanti, Gentile Lettore: lo so, davvero, come diceva Bilbo, che ci sono ancora tante e tante cose/ che io purtroppo ancora non conosco,/ diversi in ogni prato e in ogni bosco/ il verde e il profumo delle rose. Lo so che nel Paese delle Fate ci sono altri boschi, altre cascate, altri mostri, altre città. Che ci sono altri sentieri battuti dal vento, altre colline dove si può conversare con gli ultimi rappresentanti del Piccolo Popolo. Altre case incantate, altre spade maledette. Altre gioie e altri terrori. E so che molti di questi tesori possono significare tantissimo per te che ci sei imbattuto. Io ho provato a raccogliere e descrivere il più possibile, ma è questo è ciò che sono riuscito a fare. So bene che se ci incontrassimo intorno a un focolare su ci stendere le mani intirizzite, passandoci da bere, ne avresti di racconti preziosi. Sono il canto dei Nani che hanno fatto irruzione a casa tua, cambiandoti per sempre. Sono gli Elfi che ti hanno rapito bambino, per crescerti con loro. Sono i guerrieri che ti hanno addestrato tra i morsi del gelo, più feroce di qualsiasi lupo. E se il fantasy racconta il nostro tempo, questi oltre due secoli di vicende collettive comprendono anche la tua vita. So che ci sono pagine che ti hanno compagnia mentre manifestavi in piazza, o quando ti sei dichiarato alla persona che ami, che ti sono state lette mentre eri bambino, o che ti hanno desiderare che il treno arrivasse in ritardo. Perché è stato, ed è così, anche per me. Diversi in ogni prato e in ogni bosco il verde e il profumo delle rose.

Così, se non ho reso piena giustizia a ciò che ami, ti chiedo perdono, e confido nella tua indulgenza.

Mi consola una consapevolezza, e anche stavolta mi vengono in aiuto le parole del prof. Tolkien: Una storia deve essere raccontata altrimenti non è una storia, tuttavia sono le storie non raccontate le più commoventi. E questo non è per rabbonirti con un trucchetto elusivo, visto che è vero non solo di ciò che non raccontiamo, ma anche di quello che cerchiamo di raccontare. Lo sai. Sappiamo entrambi che nessun resoconto del Paese delle Fate gli renderà mai giustizia: come esprimere la prima volta che abbiamo letto di Frodo e Sam, in quell’autobus, o quando, tristi a un party noioso, ci siamo ricordati di Elric assiso sul suo trono tra i fumi delle danze, o quando eravamo solo noi, Harry e Hermione, in un cafè, mentre fuori nevicava? Chi mai potrà descrivere il brivido che ci percorse la schiena mentre Lord Juss scalava il Kostra Pivraca, mentre Ringil correva contro i Dwenda, folle di dolore e follia, o Miss Couter balzava su Metraton?

Spero davvero che altri viaggiatori raccontino le montagne affilate come spade, le città di perla e i boschi tenebrosi che io mi sono solo limitato ad indicare con un gesto, o che si sarebbero stagliati a un’altra curva della strada senza fine.


Edoardo Rialti (1982) è traduttore di letteratura anglo-americana e letteratura fantasy, sci-fi, horror, per Mondadori, Lindau, Gargoyle, Multiplayer. Tra gli altri ha tradotto e curato opere di C. S. Lewis, J. Abercrombie, P. Brown, O. Wilde, W. Shakespeare. E’ collaboratore de “Il Foglio” dove si occupa di critica letteraria e ha scritto le biografie a puntate di J. R. R. Tolkien, G. K. Chesterton, C. S. Lewis, C. Hitchens. Ha insegnato in Italia e Canada. Dipendesse da lui, la sua giornata comprenderebbe solo caffè, sport e scrittura.
Copertina: un’opera di Ivan Bilibin.

3 comments on “Faerie – Una storia del fantasy a puntate

  1. Giulio Macioce

    Edoardo Rialti colpisce ancora. Ha il dono raro di saper cogliere l’essenza delle cose. Bangarang Edward!

  2. […] psichica; tutto è Fantastico e appare come visto dall’altra parte, verso le altre parti, disprezzando ogni storia che consacra solo il […]

  3. Alessandro F.

    Ho sempre odiato l’argomento per cui la letteratura d’evasione può essere odiata solo dai secondini. Sullo stesso metro, uno potrebbe dire che dev’essere amata da assassini, ladri e truffatori giustamente imprigionati.
    Inoltre, ma questo sarebbe un po’ troppo lungo, ci sarebbe da dire che è legittimo far partire il fantasy dall’Orlando Furioso perché Ludovico Ariosto NON CI CREDEVA e la cosa era evidente dall’opera stessa, e non da informazioni private sull’atteggiamento dell’Ariosto nei confronti del ciclo arturiano. Quindi, per me, sarebbe del tutto sbagliato inserire nel fantasy i miti pagani o l’aldilà di Dante Alighieri nel fantasy perché sia loro che i loro lettori CI CREDEVANO. Inferno, Paradiso e Purgatorio per Dante era realtà estremamente concrete in cui un giorno ci saremmo trovati tutti, non espedienti narrativi o metafore.
    Quanto ai critici che ce l’hanno col fantasy – facepalm. Vedere cosa Benedetto Croce diceva sia dell’Ariosto che del Pinocchio di Collodi: mi limito a dire che ne parlava molto bene. Non ho idea di cosa avrebbe pensato di Tolkien. In compenso sulla pagina di Wikipedia italiana dedicata al fantasy la scarsa fortuna del genere in Italia è affibiata proprio al povero Croce (in una precedente versione anche a Gramsci, però vedo che è stata corretta in seguito).

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