I figli più che un destino sono una scelta, anche inconsapevole, ma comunque varia e diversa come diversi sono gli individui. Appiattire l’idea di genitorialità sul semplice fatto biologico ci fa perdere di vista alcuni punti fondamentali.
in copertina un’opera di renè magritte
Se mi togli ogni sogno
dillo nella tua lingua-albero
se mi svuoti in un figlio
lavalo nell’olfatto delle bestie –
fallo perfetto, estraneo, crudele.
Io sono una madre senza latte
e con un laccio al polso.
Tam Lin
Domande semplici
Fare figli non è amare i bambini; chi ama i bambini non necessariamente desidera riprodursi. Queste due asserzioni traducono i versi della mia poesia scelta per l’epigrafe, come per ripararmi nella scrittura. Le poesie, le storie cercano una lingua che duri, mentre noi, per fortuna, trascorriamo. Il pezzo che segue vuole tuttavia entrare, qui e ora, nell’urgenza delle relazioni personali e nei luoghi del pensiero condiviso. Per dire: le donne senza figli ci sono, non portano malattia, non hanno sempre voglia di tacere accanto alle madri biologiche, e, infine, ci sono i bambini non riducibili a mero argomento del dibattito adulto.
Se al cuore di tutto c’è la sopravvivenza – opinabile – della specie umana, sarebbe opportuno rispolverare Donna Haraway e il suo invito a generare parentele, non figli, aprendoci all’accoglienza oltre la specie. Ed esprimere con chiarezza alcune domande nell’orizzonte imploso della cultura capitalista.
Perché avere figli biologici?
Perché un paese con una bassa natalità rientra in uno schema negativo?
-->A quale necessità o intenzione risponde la generazione di nuovi individui su questo pianeta esausto d’umanità?
Non mi interessa né credo possibile trovare risposte definitive, ma c’è almeno un fatto basilare: i bambini non chiedono di nascere. Di questa “non richiesta” sembra pericoloso parlare, addirittura più pericoloso dell’affermare che chi non vuole figli o si dichiara antinatalista non è né una persona infelice né un nemico dell’infanzia.
Ogni ragionamento privo di questa riflessione è viziato ed escludente nei confronti dei bambini come nei confronti di chi figli non ne ha. Aggiungo: sarà un ragionamento che ritarda la necessità di confrontarci apertamente e politicamente sulle adozioni per coppie di ogni tipo e genitori singoli, tema che in questo paese si accenna sottovoce, negli scantinati delle celebrazioni della maternità e della paternità.
Eppure di bambini a cui magari una famiglia servirebbe ne esistono parecchi, e se davvero ci preme una vita più libera per l’infanzia, è da loro che dovremmo partire e non dal progetto riproduttivo degli adulti.
Prima di cominciare a scrivere ho esitato: non ho abbastanza informazioni statistiche, non appartengo a collettivi femministi, non ho una bibliografia scientifica aggiornata. Ho, tuttavia, una poetica di scrittrice. Non voglio cadere nell’errore dell’inadeguatezza o del pudore verso la mia poetica e la letteratura in genere, poiché è nella parola letteraria che l’inascoltato tenta ogni volta di prendere corpo, seguendo la frattura fra la cronaca e la realtà.
Infanzie
Nella preadolescenza ho incontrato il Leopardi del Cantico notturno di un pastore errante dell’Asia. La naturalezza con cui ho potuto leggere quello che volevo (sì, grazie mamma), senza adulti preoccupati per la loro sensibilità pelosa e un po’ vile, senza fascette che suggerissero l’età di lettura, mi ha permesso di trovare parole compagne lì dentro, a undici come a quarantott’anni. La morte esiste, la sofferenza esiste e i bambini non ne sono esenti. La premura con cui l’adulto prova a tenere lontano bambini “privilegiati” da questi argomenti, che invece investono senza alcuna mediazione altre infanzie più esposte, non è tutela ma imbroglio.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Non ci si affranca dal male di nascere, ma in questo male è possibile scoprire la presenza degli esseri. Dire a tutto e a tutti che sul pianeta moriamo insieme, prenderlo a fondamento per una nuova possibilità di reciproca affezione. E ricordarci che la nascita, almeno fra gli umani, viene scelta da altri per noi che poi, forse, cresceremo, prendendo il loro posto, rimuovendo questa consapevolezza come si fa con una spina dalla carne, diventando incapaci di immaginarci fuori dal costrutto dei ruoli.
Ho sempre scritto preoccupandomi per tre questioni principali: i bambini, gli altri animali e i fratelli perduti. Era alla mia infanzia che guardavo, alla sua differenza radicale, all’essere una bambina altamente socievole e ugualmente solitaria che da adulta avrebbe faticato nell’inserirsi fra gli altri, non per mancate doti comunicative, ma per troppa difesa di un certo sentire il mondo. Che forse non avrebbe nutrito un desiderio spasmodico di inserimento.
Riprendo una poesia di qualche anno fa:
I cuccioli non sono stelle
non capiscono quando tocca morire
tocca urtarsi, senza imparare.
Non si irradiano da alcun desiderio.
Vanno via, continuamente
contro le bestie, le piante appuntite
le fiocine, le melme strangolatrici.
Spargono plasma e polveri di fratelli
non fuoriusciti.
Hanno inutili occhi socchiusi,
ossa fredde, paccottiglia di madri
sul dorso.
Nei versi volevo raccontare che essere piccoli di ogni specie è un dono quanto una maledizione: ai piccoli si legano il destino e il sentimento degli adulti; nelle loro vite nuove splende una luce ottusa, inconsapevole. Difendiamo in loro la nostra inconsapevolezza, la nostra incapacità di apprendere un sistema culturale nel quale saremo spinti e poi detti. Inconsapevolezza che non coincide con l’idea del bene.
Nella letteratura la terra dei bambini è terra di orfani, di crudeltà, di morti. L’Isola Chenoncé dove è proibito crescere e amare; l’isola dove riparano i ragazzi nel capolavoro di William Golding, Il signore delle mosche, luogo non tanto della regressione al selvatico, ma del manifestarsi del male connaturato all’umano; il medioevo futuro di Apriti, mare! straordinario romanzo e oggetto linguistico di Laura Pariani, dove solo i bambini sono sopravvissuti alla catastrofe. Privi di conoscenze tecniche e scientifiche ricreano un ordine gerarchico e punitivo, a cui uno sciame di bambine sfugge cercando il varco per il mare.
Quanto sono distanti queste infanzie letterarie dal progetto educativo delle scuole, dall’immaginario diffuso di adulti iperprotettivi (verso sé stessi), dall’idea che la dimensione infantile sia bontà e gentilezza. Ci saranno certo bambini e bambine che anelano alla loro indipendenza senza abbandonare l’infanzia nemmeno crescendo. Saranno coloro che riconoscono il male nei loro simili e nel concetto di innocenza – un innocente è chi non sa di fare il male oppure non si aspetta di riceverlo. Un innocente è chi non ha ancora la parola per spiegare il male, quando lo riceve o quando lo compie. E un bambino o una bambina indipendente (libera?) sarà forse chi, mentre i grandi dettano le regole su come vestirsi, cosa studiare, dove giocare, quando dormire, cosa mangiare, mentre i coetanei massacrano piccoli animali, prendono in giro i più deboli, cercano di primeggiare secondo le logiche dei loro genitori, per un attimo si domanderà:
“Perché sono nata?”
Percorro un’altra mappa letteraria, che proviene dall’Africa occidentale e dalla tradizione yoruba degli abiku, ovvero gli spiriti dei bambini che non sopravvivranno all’adolescenza.
Lo scrittore nigeriano di lingua inglese Ben Okri ha composto il suo bellissimo La via della fame intorno a questo mito, intessendo la povertà e la quotidianità materiale con il filo invisibile degli spiriti. Azaro, il protagonista, è di fatto un abiku che tiene in sé sia la dimensione di figlio umano, sia quella di spirito lunare che da un momento all’altro potrebbe legittimamente abdicare a un’infanzia terrestre non richiesta.
Nelle prime pagine del libro spiega:
“Non ce n’era uno fra noi che fosse impaziente di nascere. Non amavamo le fatiche dell’esistenza, i desideri irrealizzati, le venerate ingiustizie del mondo, i labirinti dell’amore, l’ignoranza dei genitori, la realtà della morte e la sorprendente indifferenza dei vivi nei riguardi delle semplici bellezze dell’universo. Temevamo la crudeltà degli esseri umani, i quali nascono ciechi e raramente imparano a vedere”.
E ancora:
“Quanto più eravamo felici, tanto più si avvicinava il momento di nascere. Preparandoci ad affrontare un’altra incarnazione, ci impegnavamo a fare ritorno al mondo degli spiriti alla prima occasione. Prestavamo questi giuramenti in campi colmi di fiori odorosi, nella luce dolcissima della luna di quel mondo. Coloro che partecipavano a quei convegni erano chiamati tra i vivi con il nome di abiku, “spiriti bambini”. Non tutti gli uomini sapevano riconoscerci. Il nostro era un eterno andirivieni di esseri incapaci di scendere a patti con la vita. Avevamo la facoltà di scegliere il momento di morire. I nostri patti erano vincolanti”.
Alla fine Azaro, a differenza dell’amico Ade, abiku come lui, decide di restare.
“Ero uno spirito bambino in rivolta contro gli spiriti e desideravo vivere la vita terrena e le sue contraddizioni. Ade voleva andarsene, tornare a essere spirito, libero nella prigione della libertà. Io desideravo la libertà dei confini, avevo il desiderio di trovare e creare altre strade oltre a questa che ha tanta fame, a questa strada del nostro rifiuto di essere. Non ero necessariamente il più forte dei due; forse risultava più facile vivere dentro i limiti di questo mondo piuttosto che liberi nell’infinito”.
La forza del romanzo non sta tanto nella scelta finale di Azaro di provare, comunque, a essere, quanto nella possibilità stessa data al bambino di compiere una scelta. Di esprimere volontà propria, calando la sua eredità spirituale nella terra inutilmente complicata dei viventi. Azaro è quindi uno spirito che diventa un bambino lavorando a una sua lingua non imposta. Una via tutta sua. Glielo permette una tradizione animista e concreta, così inusuale per le aride certezze razionali dell’Occidente.
Mentre creavo il mio mazzo di tarocchi ispirato alle creature magiche del mondo, illustrato con attenzione e cura da Gabos, ho voluto dedicare alla figura dell’abiku il più aspro degli Arcani Maggiori, ovvero la Giustizia. Ho voluto che la Giustizia fosse bambina, che fossero quei particolari bambini in fuga dalle gabbie sociali a reggere la sorte degli adulti. Quei bambini che non scelgono di nascere. Ma che, chiamati in vita, possono scegliere di restare. Oppure no.
Madri
Sono una donna che non ha avuto figli. Non avrei saputo con chi e perché, il mio orologio interno segnava i tempi del sogno, del viaggio, della scoperta, del gioco con i cuccioli di ogni provenienza e non ha mai battuto l’ora del riprodursi. Ho abortito però. A venticinque anni, nemmeno troppo giovane e incosciente, in piena autonomia decisionale e senza il bisogno di addurre scusanti riguardo il padre inadeguato o gli studi da finire. Ne ho scritto anni fa, in un articolo a difesa della 194, nel mio romanzo d’esordio e nella poesia. Con lo sguardo del futuro che poi ho abitato, potrei dire che quell’eventuale bambino sarebbe rimasto orfano di padre a tredici anni, che avrebbe dovuto indossare l’etichetta di figlio di tossicodipendente e con lei la sgradevole pietà dei benpensanti, e che io avrei comunque difeso la vita e la morte di quel suo padre davanti al giudizio di chiunque. Ma la verità è molto più semplice: non volevo essere incinta, non volevo essere madre. La mia gatta amatissima era morta da poche settimane e io rivolevo lei, non un umano sconosciuto nel mio corpo. Questo non significa che il tutto sia avvenuto con spensieratezza. Il ricordo della sala d’ospedale è indelebile e carico della stessa angoscia con cui dissi all’infermiera che un giorno, forse, un figlio lo avrei avuto. Io, la donna bambina, l’amica di tantissimi piccoli, avevo abortito. Ero la non madre, colei che rinuncia, colei che decide in piena salute, colei che non chiede scusa, colei che anni dopo, davanti a orribili donne antiabortiste che manifestavano ad Hyde Park esibendo gigantografie di feti, sarebbe riuscita solo a pronunciare un debole: “Perché ci fate questo”, prima di ammutolire per le scale della metropolitana.
Sono anche, per rincarare la dose, una donna che ha contemplato il suicidio, ci ha provato da ragazza, ha vissuto attraverso il suicidio di persone molto care e ancora oggi crede che le intenzioni dei suicidi siano del tutto comprensibili e non incompatibili con la bellezza dell’universo. Donna senza figli, donna con aborto, donna dagli istinti suicidari. Donna che osa parlare di bambini fuori da ogni ruolo, rigettando ogni ruolo. Donna che non riesce a tacere e l’attimo dopo pensa di aver parlato troppo. Qualcuna però deve esporsi alla solitudine e parlare per chi proprio non riesce. Allora ribalto quanto ho appena scritto. Sono una donna che non ha bisogno di avere figli per vedere i bambini, sono una donna che esercita la cura come meglio può, imparando o mancando ogni giorno la libertà, sono una donna che ama molto e non ha ancora compreso come amare, sono una donna che si arrende alla sconvolgente meraviglia del mondo chiusa nel male di vivere. Sono una donna che si spezza per fare luce. E a volte la luce non viene. Si spezza in una bambina, in una bestia, in un albero di carne e ossa.
Ho concluso qualche settimana fa la lettura del memoir La Donna che Veglia sul Mondo della scrittrice americana di origine chickasaw, Linda Hogan. La Donna che Veglia sul Mondo è una statuetta messicana che arriva a casa dell’autrice in pezzi, dopo essere stata acquistata, imballata e fatta spedire. Come quella statuetta anche la nostra storia di singole donne ed esseri umani viene spezzata dalle brutalità della Storia con la s maiuscola, dei dettami sociali, delle tragedie di popoli e individui sopraffatti da poteri scellerati. Hogan racconta la scelta di adottare, insieme al marito, due sorelle, bambine native di cinque e dieci anni, passate da genitori infranti ad affidatari violenti, trattate come merce di cui abusare fisicamente ed economicamente. Dall’adozione, dice, non si torna indietro, eppure si può scoprire che l’amore non basta, in alcuni casi può essere la causa scatenante della violenza e del rifiuto. Bambine e bambini non amati temeranno l’amore: le violenze subite potrebbero non sanarsi, divenendo il modello della loro vita adulta.
“È difficile, quasi impossibile credere al fatto che esistono bambini che bevono esclusivamente dal gabinetto, si rifiutano di mangiare, riducono tappeti in brandelli a mani nude, oppure, come mia figlia, torturano il cane di casa”.
E prosegue:
“Nella vita reale il cuore si spezza e qualche volta rimane spezzato, così come le persone e le cose si chiudono in sé stesse senza più schiudersi. Come madre credevo che l’amore potesse compensare la Storia, la loro e la mia. Avevo immaginato un futuro felice, ma la realtà di rivelò ben diversa. Nonostante ciò non tornammo sui nostri passi. Non c’era modo di ritornare a essere le persone che eravamo “prima” –
parola magica nella nostra esistenza quando ciò che era rilevante era misurato e soppesato ogni giorno, passo a passo. Fummo irrevocabilmente trasformati in altre persone”.
Ho riflettuto a lungo su queste parole, che dialogano con la mancata necessità di chiunque di essere partorito. Varrebbe la pena ripetersi che mantenere i dubbi e cedere al non sapere, possono essere vie molto più sagge e sostenibili della concitata ricerca moderna di soluzioni. Anche l’amore è una forma di violenza: con violenza spinge verso la luce. Ma gli esseri che vorremmo far uscire potrebbero non avere abbastanza pelle o protezione, potrebbero seccarsi e distruggersi, potrebbero impazzire.
In questo dramma tutto falso del calo di nascite dentro il dramma tutto vero della crisi climatica, sono così tanti i bambini che non sanno dove si trovano, che hanno tutto il diritto di provare rabbia – bambini là fuori e dentro gli adulti. Sono così tante le domande che dovremmo porre senza timore di ferire la sensibilità di qualcuno mentre azzittiamo la nostra.
“Un giorno di non molto tempo fa, a casa dei miei genitori, stavo pulendo il viso della mia nipotina quando mia madre mi disse: ‘Tu li ami proprio tutti, non è vero?’. E io le risposi: ‘Sì. Tutti gli ultimi, ogni esistenza, ogni cosa, ogni creatura’”.
Questo amore si interroga sulle ragioni degli altri. Non ha paura di aprire la scatola del rimosso. Non reclama legami di sangue. Ha bisogno di riconoscimento della diversità, di sforzo per colmare la distanza fra le nostre solitudini e le nostre varie infanzie. Ha bisogno di gettare il velo dell’ipocrisia, lasciando emergere le anime scomode nel coro di una tanto proclamata e appiattente sorellanza di facciata. Di accettare la sua fallibilità, la sua temporaneità – quei luoghi ombrosi dove hanno voce le persone che senza averlo chiesto sono qui, presenti, e, a volte, irrimediabilmente perdute e irraggiungibili.
Mi hai commosso Francesca. Il più bello scritto sulla gravidanza mai letto. Da un padre fra meno di un mese.
Grazie Gualtiero per la tua riflessione. Forse bisognerebbe cominciare a esplicitare il segreto a tutti noto: la denatalità non è una scelta consapevole bensì è l’unico modo che i giovani d’oggi hanno per protestare. Senza la possibilità di scendere in piazza, senza più diritti sindacali, pienamente inascoltati da un potere politico orwelliano, presi dall’assoluta frenesia di consumo e la mercificazione della natalità stessa (si legga Maternità surrogata). Concordo pienamente che non si debba colpevolizzare la scelta di non avere figli (scelta che per primo abbraccio e condivido) ma non si può neppure narrare liricamente cercando giustificazioni di moralismo occidentale nelle culture straniere che occupano i restanti 5/6 del Orbe. Concludo con una riflessione deprimente e volgare: ma a forza di vedere BES, ADHD, DSA, iperattività, autismi o qualsiasi altro disturbo nei bambini occidentali d’oggi, “un po’ ti si ammoscia” per buon senso e non perché lo dicano Foscolo o gli Ainu di Karafuto…
Veramente tanta roba, dai mille colori, dai mille sapori… non necessariamente in ordine “cronologico” del pensare. Per ogni “istante emozionale” una viva concatenazione di pensieri. Grazie, a volte è bello anche essere travolti da una camionata emotiva. Lo leggerò ancora…
Grazie.
Dal profondo del mio cuore ti ringrazio per queste tue parole.
chiedo scusa per i refusi, ma al momento ho un vecchissimo pc con tastiera parecchio difettosa
Benchè sia un padre e marito felice e fortunato non ho mai condiviso alcuna retorica di colpevolizzazione di chi non figli -uomo o donna che sia.
Premesso ciò, anche il parlare di figli senza vedere la consapevolezza di essere sulla soglia di ciò che più di ogni altra cosa ha valore (questa è l’impressione, fra le altre cose, che mi han dato queste note) lo trovo abbastanza imbarazzante. Ricordo che in una delle sue ultime pere G. Bateson ragionava a lungo -lui, con una intera vita scentifica di “laico” alle spalle- sul “senso del sacro”, e su cosa voleva dire che una cultura ne perdesse cognizione. Ecco.
Accostare al parlare di figli biologici la lamentela sul fatto che ci sono tanti bambini che aspetterebbero di essere adottati è un non senso. E comunque, i paletti che rendono spesso lunga e difficile la strada dell’adozione non sono stati messi lì dalle coppie di genitori biologici, ma dal Parlamento -e ce ne fosse uno, dico solo uno, di partiti, che si battesse per semplificare un poco gli iter di adozione!
Andando avanti mi imbatto nella formulazione che segue:
“la mancata necessità di chiunque di essere partorito”.
Questa sola frase è abnorme, è assurda, è un tale manifesto di nichilismo radicale da far passare la voglia di ragionare, di capire, di ascoltare.
Tanto vale dire che l’universo in quanto tale non ha alcun bisogno di essere.
Non so quanto serva, ma vorrei osservare che continuano a nascere bambini fortemente desiderati. Fra le infinite che che “non sappiamo”, certo, si potrà mettere anche quella circa la “volontà” o meno del nascituro di “essere partorito”. Ammettiamolo pure. Ma sarei curioso di sentire in merito il parere di “persone informate sui fatti”, come per esempio sono le ostetriche. Tornando ai bambini fortemente voluti: qualunque genitore che sia preso a cuore da vicino l’accudimento del figlio fin dalla nascita, può testimoniare come -salvo specifici problemi, malattie eccetera- il nato manifesti in genere tutti i segni possibili di una inequivocabile voglia di vivere, di essere, di esistere. E’ una volgia che può manifestarsi e si manifesta in mille modi diversi, ma è inequivocabile. E tato più la coppia madre-padre ha la capacità, le energie, le condizioni per corrispondere alle richieste e ai bisogni del nato, tanto più quella voglia di vita troverà conferma, alimento e sostegno, e il bambino crescerà, esplorerà e scoprirà sempre di più, fino ad inziare pian piano a prendere coscienza, della madre, di sè, e via via di tutto il resto che lo circonda.
Infinite cose che fan parte della socità sono del tutto indifferenti le une alle altre -gusti culinari o d’altro tipo, passatempi, modi di dire, abitudini eccetera- questa no. Che esistano o no figli che crescono desiderati, amati, forti, educati, oppure no, non è indifferente. non lo è mai stato, no lo può essere, non lo sarà mai. Far finta che invece lo sia -cosa che pare spesso informare tanti atti della nostra società, leggi, comunicazione e altro- è una ricetta perfetta per fare della società un inferno in Terra, più di qjanto già non sia. Ma vabbè.
Due cose infine sulle nascite (o non nascite).
Chi nasce non nasce come un qualunque cucciolo d’uomo che si aggiunge indifferentemente agli oltre otto miliardi di umani. Non è così. Questi otto miliardi sono suddivisi in varie centinaia di stati, diversi e in vari casi molto dversi uno dall’altro, per non dire delle culture e dei vernacoli, che non sono centinaia ma migliaia. “Ma non siamo tutti essere umani!?”
Certo, nessun dubbio che siamo tutti essere umani. Ma il punto è che esistono culture e stati che hanno natalità molto alta, altri media, e altri che ce l’hanno bassa o bassissima.
Non conosco nessuno, fra quanti mostrano fastidio per l’argomento della denatalità in Italia (non parlo di chi ne gioisce), che non ignori volutamente questo dato elementare.
Affermare che un problema di denatalità in Italia non esista è affermare il falso -magari unicamente per ignoranza elementare di fatti insopprimibli demo-sociali, ma è affermare il falso. Mi spiace.
Ogni società si fonda sempre, inevitabilmente, su un equilibrio demografico che è delicato: è l’equilibrio fra chi è in grado badare a sè e agli altri e chi, per età o per condizioni psicofisiche specifiche (malattia eccetera) non lo è.
Quando il numero di chi può occuparsi di sè e di altri si abbassa troppo, la società collassa (lo può fare in vari modi: dittature/guerre, guerre civili, altre catastrofi che abbattono il numero dei vivi). Gioire di una bassissima natalità protraentesi per decenni vuol dire in realtà augurarsi qualcuna di queste catastrofi. so che ci sono anime belle che reagiscono sprezzanti e vittoriose: “ma c’è l’immigrazione! Basterebbe fare vera accoglienza!”. Chi crede questo si conferma ignorante,e mostra di non essere informato.
Gli immigrati cercano paesi nella cui economia inserirsi, con prospettive di miglioramento. L’Italia queste prospettive le offre sempre meno, e gli immigrati se ne sono accorti, e han preso le loro misure. Da molti anni la gran parte degli immigrati che qui arrivano concepiscono l’Italia unicamente come una piattaforma da cui spostarsi in altri paesi UE.
L’ho fatta troppo lunga, mi taccio e chiedo scusa.