Feticcio

Come sapete agosto su Indiscreto è sinonimo di racconti: abbiamo deciso di affidare ogni anno a una persona diversa la curatela del nostro breve mese letterario. Quest’anno a curare la selezione per noi è lo scrittore Vanni Santoni. Il primo racconto è di Bea Orlandi, che ringraziamo.


IN COPERTINA: Eugene Delacroix, Horse Frightened by Lightning

di Bea Orlandi

(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)

La condensa appanna la finestrella davanti alla quale Argentina si ferma. Attraverso le particelle d’acqua si vedono alcuni stallieri muoversi, passarsi oggetti, scuotono nell’aria le mani, senza una parola si scambiano ordini, i volti contratti, poi all’improvviso distesi. Ordini che verrebbero in un attimo calpestati dai suoi: gli ordini dell’unica figlia di Iseppi: il più grande allevatore di tutta la piana. Spostando il peso su un unico piede e lasciando che la testa, nell’adeguarsi al nuovo equilibrio, si inclini, Argentina riesce a vedere le natiche di un cavallo scuro che viene condotto fuori dal box. L’attaccatura della coda supera in altezza la nuca di alcuni stallieri. Un calcio staccherebbe loro la testa. Ma il Potenza è vecchio. È stanco anche lui. Ora alla stalla lo chiamano con il suo soprannome, Rudy. Sono vent’anni che feconda. Ovunque sue parti, ma dentro al box ancora poco di lui.
Ha fatto la fortuna della famiglia: il più grande stallone del secolo. Pessimo temperamento, ma anche quello, come tutto, si logora. Svanisce. Hanno su per giù la stessa età. Ma mentre la figlia di Iseppi si accinge ad entrare nella vita riproduttiva, nello stallone il seme pian piano si spegne. Argentina si sente legata a quest’animale di cui conosce a memoria il profilo tracciato nelle effigi, scolpito nei trofei, inciso nelle placche decorative, ma con il quale non ha mai avuto un vero e proprio contatto. Condividono i sintomi. Argentina vuole condividerne anche le medicine. Sedativo equino in dosi che rendono docile anche lo stallone più brado. Funzioneranno come hanno sempre funzionato, prese in prestito direttamente dal beauty dello stallone.

Il Potenza viene condotto altrove, la toeletta è finita. Luci si accendono e spengono seguendo l’itinerario dello stallone. Argentina scivola dentro la stalla. Crini le si annodano ai piedi mentre avanza senza quasi sfiorare il terreno. Dalle calze di nylon s’irradiano piccole scosse d’elettricità statica. Sulle mensole di cui è foderata la stanza spazzole, forbici, lime, per far risaltare la bellezza dell’animale. C’è anche uno specchio. Come in camera sua. Come se davvero contasse l’aspetto e non il potere che, da esemplare a esemplare, si tramanda nel sangue. Gesti teneri, pensa Argentina, per ammansire  prima di colpire con un potere che non ha volto, non ha denti, ne ha un paio di trecce da pettinare. Lei stessa si dedica con devozione alle sue apparenze, nella speranza di nuocere con cura a chi le sta intorno.

Insieme alla bellezza con la pubertà era arrivato anche il dolore. Durante l’infanzia Argentina non aveva sentito nulla, nemmeno il tirare dei follicoli nella cute quando da qualche parte le si impigliava la treccia, non la rabbia, non la noia, non una sola emozione. Poi all’improvviso le gengive si erano fatte sensibili. E nel marcio delle gengive i denti da latte che non cadevano mai. Dentro alla carne i nuovi denti spingevano, inutilmente. Nel frattempo Argentina cresceva, e lo spazio tra gli incisivi aumentava di giorno in giorno. Dal dolore sarebbe morta, pensava, e in quella fessura tra i denti sarebbe stata sepolta. Ma non le importava poi molto. Le interessava solo che il male, sconnessa la rete dei nervi, smettesse di comunicare con lei.

Trova i tranquillanti dentro ad una scatoletta d’avorio. La mano sfugge oltre la manica e sale, s’immerge, colmando il palmo di piccole compresse azzurrine. Si gonfia la piccola tasca orlata di pizzo che ha cucita apposta sotto il colletto. Passa un momento. Nella stanza accanto, lo stallone si lascia sfuggire un tetro nitrito. È giunta l’ora di strizzargli fuori le ultime gocce di seme. Forse ne rimarrà abbastanza nei freezer per l’anno a venire. Poi chissà. C’è chi parla di vecchiaia, di impotenza, di eutanasia. Forse, come i veterinari hanno predetto, il tramonto della stirpe di Iseppi. Argentina sente l’eccitazione montarle ragniforme le gambe. Vuole finalmente qualcosa: assistere al suo stesso declino. Che spettacolo, pensa. Allora invece di roteare sulle caviglie e uscire, cercare il letto, lasciarsi cadere sul materasso, far scendere in gola una pastiglia mentre già finge di dormire, Argentina rimane nella stalla in piedi tra gli accessori dello stallone – spazzole, pale, bacinelle, forconi – come se il suo corpo avesse anch’esso un uso specifico, come se fosse munito di curve e di denti in modo da garantire efficienza meccanica ed economia. Le dita cercano già nel taschino.

Come una colomba stanca la mano pallidissima volteggia nell’aria, portando pace. Argentina spinge fuori la lingua: secca al contatto con l’aria, salata, pregusta già l’assenza di sentimento. Poi con la pasticca adagiata sotto al palato, e la lingua serrata dentro al colonnato dei denti, Argentina collassa in altezza, si fa piccola in mezzo ai drappeggi della camicia da notte, piccola accanto all’enorme trogolo dello stallone. Reggendosi ai bordi muschiosi della vasca bacia l’acqua marcia sulla cui superfice viscosa è intrappolato il suo volto. Porta via un po’ del suo riflesso a piccoli morsi, facendo schioccare la lingua con movenze da animale domestico. Poi deglutisce. Ascende. Salvifica la pillola già squaglia il palato, ruzzola oltre le tonsille e si dissolve, facendo da solvente anche al cuore.

Argentina ora è in piedi. La frescura dell’alba l’attraversa e la spinge. Volteggiando sul pavimento coperto di sterco si muove da un locale all’altro, leggera. Due stanze più in là ritrova il Potenza. È circondato da uomini che vestono la divisa della famiglia. Paiono microscopici, adolescenti in confronto alla stazza dello stallone. Come parassiti si arrampicano intorno al suo corpo. Qualcuno lo spinge più in là, qualcun altro gli conficca una siringa nella natica, altri semplicemente lo circondano, pronti a qualsiasi cosa, anche a essere calpestati, pur di seguire l’amplesso. Entra nella stanza un’apparecchiatura. Non si muove da sé, non è senziente: viene spinta da alcuni stallieri. Ha vaghe sembianze equine: un dorso cilindrico rivestito in cuoio, sospeso da appoggi in metallo all’altezza di garrese di una puledra, una puledra ancora troppo giovane per sopravvivere alla monta, se fosse vera. Un tubo di peltro penzola dal retro della struttura suggerendone, per assenza, l’apparato sessuale. Grazie alle leggi della termoidraulica, un torpore sintetico pervade il tubo rendendo il vuoto accogliente al sesso maschile. Più sotto, alla fine del dotto, sorretto da un pilastrino di cemento, un bicchierino di cristallo aspetta di essere colmato, o distrutto.

Argentina costeggia la scena. Qualcuno la spinge, trapassandola con gli arti senza veramente toccarla. Qualcun’altro con un gesto accompagna accidentalmente la sua figura, l’avvicina a quella dello stallone, la conduce oltre. Un carrello viene dislocato, su di esso tentennano ripiani e ripiani di fiale vuote. Nessuno pare prender nota della sua presenza: c’è chi poi giurerà d’aver visto una fluorescenza scaturire dalla bestia nell’istante dell’eiaculazione. Ma per ora lo stallone si muove appena, frusta con la coda la traiettoria d’aria entro la quale un tafano lo tormenta, dondola le orecchie cercando di liberarle dalle pulci, spinge fuori il fiato dalle narici dilatate in segno di esaustione. L’apparecchiatura femmina, spinta da mani umane, rinculando gli si avvicina.

Strisciando sul pavimento di cemento le ruote strillano. Verranno poi bloccate meccanicamente per impedire la fuga dell’attrezzatura: è dotata di levette cromate fatte apposta per quello. Ma mentre la macchina, ruote libere di girare, avanza, il Potenza non muove lo sguardo dal punto che pare incantarlo. La puzza di disinfettante del feticcio gli si fa vicina, sterilizzandogli le narici grandi, a riposo. Argentina allunga una mano e sfiora il dorso dell’apparecchio. Allora dalla bambagia dell’antidolorifico affiora un ricordo: la sedia su cui lei sedeva le rare volte che il padre veniva a trovarla, al tatto, era esattamente così. Sorridi a tuo padre, Iseppi diceva, e lei, tirando in su gli angoli della bocca e schiudendo le labbra, obbediva. Sorridi, le ripeteva: la pelle di cui è fatta la sedia apparteneva a una giumenta col tuo stesso nome. Argentina. Nata e cresciuta dentro al suo compartimento per essere fecondata da sperma nobile, possibilmente quello del suo stesso padre, il Potenza. Morta perché sterile, per salvar spazio. In tutti quegli anni l’arredamento nella stanza di Argentina non è mai cambiato. È stato solo smacchiato un paio di volte.

Il feticcio viene parcheggiato a pochi passi dallo stallone. Con un click si bloccano automaticamente le quattro ruote-zoccolo. Paiono rispondere al giro di chiavi anche i piedi di Argentina, inguainati nel nylon di seta. È sotto lucchetto anche la sua volontà. Ferormone equino viene vaporizzato nell’aria, la pompetta che controlla la fuoriuscita delle molecole si comprime e si gonfia dentro al palmo di un operatore. Le narici del Potenza si spalancano per un automatismo proprio al suo genere. Lo sguardo invece si alza appena, incamera la struttura di metallo e cuoio senza metterla a fuoco. Sono ormai dieci anni che il suo seme viene estratto così. Ma questa volta l’animale vero rimane immobile, in coda a quello posticcio.

Con la mano aperta qualcuno cerca sotto l’addome dello stallone. Il pene è ancora ritratto nella guaina, si chiude tra le mani solo aria umidiccia. Un tecnico scelto per le sue abilità mimetiche riproduce il nitrito della cavalla in calore. Un altro tecnico prende a girare manualmente la coda equina appuntata al feticcio. Altri in precedenza hanno perso il braccio proprio così, quando alla prima scodinzolata artificiale lo stallone, eccitato, già voleva montare. Ma questa volta non succede niente. La testa dell’omero rimane salda dentro la cavità glenoidea, mentre la coda recisa all’animale e incorporata alla macchina rotea nel vuoto. Il movimento d’aria tira Argentina con sé.

Anche gli uomini ora vorrebbero fottere l’attrezzatura. Forse per farlo si metterebbero in fila. Diligentemente. Come quando ritirano lo stipendio. Invece continuano a sollecitare il Potenza: per contratto, avverrà tutto tramite lui. Sono stati selezionati da Iseppi per il loro zelo e per l’immaterialità del loro desiderio, per la loro scarsa carnalità. È come se i loro corpi, invece di muscoli e sangue, fossero fatti di ordini coagulati: si muovono al muoversi del volere di Iseppi. Insieme a loro, come atmosfera mossa dal vento, si muove anche Argentina. Così, per un attimo, le pare di stare tra le braccia del padre. Lo ha visto poche volte: solo un inchino finita la colazione, le cene ufficiali alle quali le era stato un giorno chiesto di non sorridere più per non mostrare la fossa tra i denti. Dentro casa il padre era un uomo banale, un amministratore. Era talmente bravo però ad accudire il potere degli altri che pareva quasi scaturisse da lui. Come argento, tungsteno, o rame: un conduttore. Un uomo poco carismatico, ma preciso. Un uomo di testa. Anche quell’anno aveva dato il compito di colmare le fialette con il seme dello stallone, costasse quel che costasse. Aveva preso accordi riguardo al futuro della figlia, della quale a volte si scordava il nome.

Nella stanza c’è chi rammenta con che furia il Potenza montasse le fattrici in passato, come si era poi accanito, anno dopo anno, sull’attrezzatura, obbligando i tecnici a lunghe sessioni di manutenzione post-eiaculazione. Vedendolo ora, si direbbe che ogni voglia lo abbia ormai abbandonato. Stivali spingono cauti sugli stinchi, imprimendo le loro impronte nel manto. Il petto della bestia va a cozzare contro l’estremità del tubo-vagina. Un cigolare di ferro e giunture: la macchina non si sposta, lei, nel suo disegno, ha più volontà. Qualcuno allora si azzarda a infilare la mano nella guaina dello stallone, a stimolarne il membro molliccio. Non ne deriva alcun effetto, nemmeno ira o fastidio. Sotto all’aggeggio dalle forme equine, il bicchierino rimane intoccato.

Un giorno, il padre le aveva detto: con quei denti lì, nessuno ti amerà più. Lo aveva detto senza guardarla, parlando alla stanza, ai muri, come contasse i suoi averi. Se ora ci pensa, in mezzo a quella folla di tecnici della riproduzione, le viene da ridere. Forse che Rudy ama il gingillo di cuoio e di ferro con cui puntualmente si unisce? Però è possibile che provi più ammirazione per quel feticcio che per le mille giumente con cui si è dovuto accoppiare in passato. Quel coso, almeno, non sente. Forse anche Argentina proverà stima per la meccanicità di chi, prima o poi, l’amerà.

Il Potenza fa un passo indietro, nitrisce. Si è ferito il petto con l’apparecchiatura contro alla quale è stato forzato. Qualcuno accorre, che non si sporchi la macchina, qualcuno dice. Del sangue che cola sul manto dello stallone non se ne cura nessuno. Una pasticca gli viene infilata in fondo alla gola, poi molteplici mani gli stringono il muso affinché mandi giù. Un eccitante. Si sussurra che Iseppi stesso ne faccia uso. Che qualche stalliere ne abbia inghiottito una dose e, preso da un’euforia senza fondo, abbia camminato oltre gli stipiti di una finestra. I tecnici si muovono ora intorno allo stallone come alghe sul fondo di un fiume: attendono che le componenti chimiche, eccitate, facciano effetto, e che il membro del Potenza si rizzi. Nel frattempo, la frenesia li sposta, li meccanicizza. Per riflesso si sposta anche Argentina. Lo stallone, invece, sbadiglia: il desiderio a lui ormai fa quest’effetto.

A un certo punto la massa in divisa si squaglia. È quasi mattina. Presto Iseppi verrà a controllare che le fialette siano state riempite. Gli uomini hanno i volti vuoti, gli occhi persi, piccoli piccoli: la dose di ottimismo che li drogava sta già perdendo effetto. L’animale è immobile al centro della stanza, il muso basso, le orecchie abbandonate, la coda moscia. Nemmeno una bestia da soma si comporta così. Il tecnico che gli aveva fin lì somministrato inutili pratiche di masturbazione lascia andare la presa. Ha la mano dolente, la fronte zuppa. Qualcuno scuote la testa. Forse andrebbe ammazzato una volta per tutte, così.

È lì che una figura si stacca dal corpo policefalo degli stallieri. Sparisce dietro alla porta che conduce alla toeletta. Buon momento per andare in bagno, qualcuno sussurra. Poco dopo ne esce, la patta mal chiusa. Ha staccato lo specchio dal muro e lo porta con sé. L’uomo si avvicina, il corpo mozzato dall’ovale d’argento. La superficie moltiplica la folla, cattura le luci fluorescenti incardinate al soffitto, le scaglia come saette per tutta la stanza. Alcuni operatori fanno dondolare la testa, dubbiosi. Poggiandosi lo specchio allo sterno, lo stalliere avanza indisturbato verso il centro della stanza dove cavallo e feticcio attendono che venga mattina. Ma mentre lo specchio fissa già le due semi-bestie, l’attenzione dello stalliere scivola più in là, oltre la calca, dove si è aperta e chiusa una porta senza fare rumore.

La moltitudine s’accorge di quello sguardo obliquo e si scosta, liberandogli la traiettoria. Lì, in quel solco, gli occhi di tutti, sganciati dallo stallone, si rincorrono e come biglie scivolano via. In fondo al tracciato Iseppi siede tranquillo su di una poltrona di cuoio. Le gambe fuoriescono dal mobilio divaricate come tenaglie. Fuma. Cenni del mento coordinano la danza degli stallieri. Nella sua testa calva sono racchiusi già i primi bagliori dell’alba. Argentina lo guarda, e in un attimo l’effetto della ketamina sparisce. Torna a posarsi su di lei, passeggero, il peso del corpo, tornano ad inchiodarla i trentadue denti. Nella fosforescenza girovaga della sua camicia da notte, Iseppi riconosce soltanto un’accidentale proiezione dello specchio che, scardinato dal muro, ora avanza sicuro verso il Potenza. La mano di Argentina cerca il taschino, risale e, gravida, si infila di nuovo tra i denti.

Un’effervescenza nuova saltella da corpo a corpo. L’animale stesso, pensano, deve per forza avvertirla. Ma quello rimane impassibile, ha gli occhi sbarrati: pare dormire. La folla gli si fa addosso. Argentina si trova all’improvviso accanto alla bestia. Il sudore dell’animale sale in spire biancastre nella stanza fredda ma lei non sente più neanche il calore. Sembra un’animale docile, pensa: il brio della stanza lo narcotizza. Avanzando, lo specchio riflette la moltitudine di operatori esaltati, il fumo della sigaretta che Iseppi consuma in fondo alla stanza, l’ultima traccia di luna.

Poi, giunto accanto al feticcio, lo specchio si assesta. Dentro alla superficie argentina fa il suo ingresso il famoso stallone detto il Potenza. Si materializza serafico in coda al feticcio. Rudy solleva il collo pesante e scruta l’apparizione. Da dentro all’ovale, il noto stallone lo fissa caparbio. Tra loro, la cavalla sintetica rimane inerte, disponibile. Si offre. La vulva rivestita di gommapiuma, schiusa, le ruote bloccate, la coda posticcia tirata all’insù dalle mani di un uomo pagato per farlo. Con civetterie artificiali, la macchina si promette ad entrambi. Rudy ha le articolazioni infiammate e il ventre stanco, ma fulmineo il dovere lo prende, imitando le pulsioni del desiderio. Deve essere lui a possedere la femmina e deve farlo in fretta, prima che sia il famoso stallone a farlo per lui. Complice, lo specchio ruota su sé stesso, s’inclina e cattura il pene del Potenza che già s’allunga sfacciato oltre la guaina. Rudy allora s’accorge di avere, per impulso mimetico, già sfoderato. All’unisono i due stalloni nitriscono. Un unico lamento riecheggia nella stanza che, incandescente, trattiene il respiro.

Il Potenza si è sollevato sulle gambe posteriori, trascinando Rudy con sé. Cigola la gomma, facendo attrito con la carne poco lubrificata del sesso: qualcuno ha penetrato il feticcio. Per via di come un calore sintetico gli inghiottisce ritmicamente il pene, Rudy s’illude che a vincere la monta sia stato lui. L’apparecchio crepita sotto i colpi stanchi dell’animale. Stridore di metallo e di cinghie. La struttura pare sul punto di capitolare. Di tornare ad essere un ammasso di materiali senza alcuna funzione. Lo stallone arranca. La sua natura lo imbavaglia e lo muove. Colpo dopo colpo, Rudy svanisce nell’immagine grandiosa che lo specchio rimanda. Estasi, sdoppiamento. Preso dentro alla foga sintetica dell’accoppiamento, lo specchio oscilla e tira Argentina dentro di sé. Lei si assottiglia nella superficie d’argento, sparisce tra i suoi bagliori inconsistenti, pare provenire proprio da lì. Pallidissima, caldoluminescente, le labbra dischiuse a mostrare le gengive turgide e gli incisivi scostati, ha in volto il preludio di un’emozione che poi non arriva. Da dentro lo specchio lo stallone la trapassa come fosse condensa. Se l’animale le si facesse addosso, se la calpestasse, Argentina non sentirebbe niente. Dentro di lei il farmaco continua a montare: le manca un solo colpo per volar via. Il bicchierino aspetta immobile alla fine del tubo. Poi è un lampo, e seme e luce lo riempiono. Fa giorno. In fondo alla stanza, in controluce, Iseppi continua a fumare.

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