Filosofia tra i ghiacci



Nell’era di Antropocene, i ghiacciai sono tra le entità più colpite dall’aumento delle temperature. La loro presenza-assenza si disvela e ci interroga attraverso le cronache di una perturbante agonia: il progressivo ritiro per causa antropica. Matteo Oreggioni traccia i lineamenti di una kryosophia, una filosofia che riflette sui ghiacciai come fenomeno metafisico e non solo naturale.


In copertina Maine Ice Storm, di Jamie Wyeth

Questo testo è tratto da Filosofia tra i ghiacci di Matteo Oreggioni Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.


di Matteo Oreggioni

Filosofia è libera scelta di vivere tra i ghiacci e le alte cime. 

F. Nietzsche 

Quando si parla di “crisi ecologica del clima” una tra le prime immagini che si concretizzano nella mente, iconica e inconfutabile, è quella che rimanda alla fusione dei ghiacciai. Chiudiamo gli occhi e subito prendono forma le pareti di ghiaccio che vanno in frantumi e si fondono, i rombi dei crolli e le onde anomale, l’aprirsi di immense fratture che, come cicatrici, percorrono i ghiacci marini di Artico e Antartico. Ma anche lo spettrale e deprimente spettacolo, se così si può dire, dei desolanti iceberg alla deriva, patrimonio dell’immaginario collettivo, che spesso vediamo sovrastati da un orso polare spaesato e ormai troppo lontano dalla riva per tentare un disperato ritorno a nuoto. Pensiamo all’imponenza del collasso del Larsen B in Antartide nei primi anni Duemila: una piattaforma di ghiaccio di 3.250 chilometri quadrati per uno spessore di 220 metri, il simbolo dell’inizio della fine. Possiamo immaginarci un ipotetico dialogo nel quale le future generazioni punteranno il dito verso i loro padri e le loro madri chiedendo loro: Dov’eri tu quando è collassata la Larsen B? Che cosa avete fatto per impedire quest’inferno? Per avere un’immagine del progressivo venir meno della criosfera ricordiamoci l’articolo già citato: ogni anno, da trent’anni, perdiamo un cubo della dimensione di un miliardo di miliardi di tonnellate di ghiaccio. Un’esplosione di significati. Il bianco che viene irrimediabilmente perso, che si annichilisce anno dopo anno, con un’accelerazione crescente nelle ultime due decadi. Un’accelerazione che non può che colonizzare l’immaginario di chi vive la montagna e in montagna, di chi fa l’esperienza diretta, concreta, di questa tendenza. Una rivelazione che esplode con tutta la potenza di un qualcosa che accade ed è qui. Qualcosa che è fuori dalla porta: lo possiamo vedere attraverso i vetri delle finestre di casa e mentre osservo mi sento osservato. Siamo dentro una tendenza che diventa un tutt’uno con il nostro sguardo interpretativo e che ci scuote esistenzialmente, qualcosa con cui non possiamo non confrontarci. Non siamo solo testimoni diretti di ciò che accade, ma siamo chiamati in causa perché correlati, in generale colpevoli e intimamente radicati. 

Gli studi ci raccontano che le conseguenze dell’attuale secolo si ripercuoteranno su scala millenaria: l’homo sapiens trascende se stesso e le sue scale temporali, allungando la sua ombra sul futuro dalla criosfera. Abbiamo di fatto disinnescato una nuova glaciazione, attraverso il riscaldamento globale, e questa è una delle conseguenze che più tocca da vicino i parametri “vitali” della criosfera e dei suoi cicli glaciali e interglaciali1. Questa decomposizione del bianco, che si concretizza in un movimento progressivo, è la metafora di una purezza andata perduta: la cifra della colpa del nostro divenire forza geologica. Colpa che si manifesta e ci interroga come un contrappasso simbolico e cromatico: simbolismo cromatico. 

Il candore andato perduto rimanda al suo opposto, all’oscurità che si concretizza nell’impero, cromaticamente nero, del petrolio e della sua potenza energetica e industriale. Nero che intasando l’atmosfera di CO2 costringe progressivamente la criosfera a percorrere un “sentiero di morte”. I ghiacci che arretrano sono la cartina tornasole di un agire perturbante che ci ritorna indietro in quanto significazione: la cifra, il concreto delle nostre azioni. Una significazione alimentata dalla cadenza ritmica, dall’incalzare dei feedback positivi, la retroazione delle nostre azioni, gli effetti non voluti che amplificano le tendenze. Nel caso dei ghiacciai è significativo l’effetto albedo, ossia la capacità riflettente del bianco della neve, colore che riflette in grado maggiore rispetto alle gradazioni cromatiche più scure, che diminuisce a causa dell’aumento delle temperature terrestri e che a sua volta, diminuendo, contribuisce a un ulteriore aumento delle temperature. Di fatto siamo dentro un movimento che si comporta come una costante e ostinata stratificazione di morte. Lo scioglimento, in questa lenta e silenziosa agonia, del ghiaccio e del bianco delle altezze ci si mostra come l’allegoria di una purezza perduta. La colpevolezza di un bianco che non è più, non è già più, che arretra mentre diviene sempre più prezioso ogni giorno che passa. Non solo quindi i nostri ghiacciai sono sulla via del tramonto, ma la criosfera tutta, la somma di tutto il ghiaccio del pianeta, delle sue logiche e dei suoi concatenamenti. In poche parole: il riscaldamento globale comporta la fusione progressiva dei ghiacci del pianeta, che sono una componente fondamentale della regolazione del sistema climatico. 

Il processo è semplice e autopoietico, una specie di loop. La temperatura sale e i ghiacci fondono. Più i ghiacci del pianeta fondono, più, a sua volta, la temperatura sale. Un circolo vizioso che si autoalimenta ed è soggetto ad accelerazione perché meno ghiaccio vuol dire meno superficie riflettente. Meno superficie riflettente vuol dire più calore: questo vuol dire vivere in un circolo di feedback positivi. La criosfera, attraverso un cambio di rotta imposto, volente o nolente, dall’azione geofisica della nostra specie, è strappata dalle pulsazioni cosmiche, che dalla notte dei tempi hanno regolato la temperatura terrestre, cadenzandola in fasi glaciali e interglaciali. La criosfera, da questo punto di vista, è entrata in una nuova era: Antropocene, che coincide con l’era del suo tramonto. Possiamo immaginarla come soggetta a una progressiva nientificazione. È vittima di una verticalizzazione termica che ormai sappiamo irreversibile. Il Ventunesimo secolo sarà il secolo in cui probabilmente diremo già addio ai ghiacci2, dei quali resterà forse una piccola parte sulle cime più alte appena sotto i quattromila metri di altitudine. In un mondo sempre più caldo, l’alito di vita dei ghiacciai è sempre più debole e tiepido. Un ghiacciaio che si riscalda è un ghiacciaio sulla via del tramonto, di fatto clinicamente morto. 

Già dopo questa breve suggestione ci rendiamo conto che ci troviamo su un terreno materico, eminentemente materico, che non lascia scampo a troppi slanci speculativi e ci costringe a una riflessione che sia consapevole dei limiti intrinseci e contingenti della materia ghiacciata e delle sue leggi. Questa struttura materica definisce e traccia una linea invalicabile anche per i nostri pensieri su di essa. Interrogare e interrogarsi rispetto a quello che accade, al cospetto della criosfera, e nel nostro particolare caso di un ghiacciaio, impone una riflessione che è strutturalmente legata alle logiche di possibilità del ghiaccio stesso, alle sue strutture fondanti, ma anche ai suoi rimandi, ai suoi non detti e alle sue metafore: all’invisibile che lo innerva. 

Un ghiacciaio ti costringe a pensarlo e pensarti sul suo stesso piano: siamo di fatto dentro un campo di forza che rimanda al pensato come coesistere: “pensare come un ghiacciaio” è già un atto di coesistenza e immedesimazione, un guardarsi negli occhi. Analogamente, interrogare un ghiacciaio e interrogarsi su di esso è già manifestarsi della coesistenza tra l’umano e il non-umano come plesso problematico. 

Questo vuol dire concretamente muoversi in terreni inesplorati, esplorare nuove possibilità del pensabile. Pensare un ghiacciaio è pensare nel coesistere con e in relazione a esso, è un pensiero doppio, materico e introspettivo al tempo stesso. 

In primo luogo, c’è il concetto di limite nella sua accezione materica e simbolica, sfondo inaggirabile e orizzonte di senso, che definisce le possibilità del movimento in atto. Come abbiamo visto la temperatura si alza e cambia le condizioni di possibilità. La criosfera fonde, si abbassa, in quanto totalità, summa di tutti i molteplici che la costituiscono, e insieme a lei anche i ghiacciai in quanto parte, in quanto determinazione di quella totalità. Immanente a questo processo vi è l’accelerazione: più la totalità fonde più il processo accelera. 

In secondo luogo, c’è il necessario lavoro di interrogazione, un lavoro che sposta il punto focale dell’indagine sulla relazione che si instaura tra noi che siamo concretamente al cospetto di questo evento, in quanto simbolico, e la “formulazione che rende tollerabile”, e quindi significante, la vista di questa colossale e materica agonia. È in atto in questa interpretazione un movimento di andata e ritorno tra il soggetto e l’evento, un lavoro filosofico ed esistenziale, il tentativo di ripensare e ripensarsi in rapporto con questi giganti morenti. Possiamo definirla una filosofia dello sguardo dell’operatore glaciologico, una metafisica dell’incontro, che non pretende di essere la filosofia degli operatori glaciologici, ma la riflessione di un filosofo prestato alla pratica concreta del recupero dei dati sullo stato di salute dei ghiacciai. Fare filosofia vuol dire creare concetti in grado di arricchire la nostra comprensione del reale, e impegnarci a metterci in comunicazione a esso. In altre parole, l’incursione, non richiesta ma inevitabile, della speculazione al fianco del lavoro secondo canone. 

Ogni operatore glaciologico si pone domande e fa l’esperienza diretta della ritirata dei ghiacciai ogni volta che va in missione. Qui si tratta di dare forma a quelle suggestioni, concettualizzarle, fissarle, per vedere sin dove ci si può spingere con un’interrogazione che si vuole fare interpretazione. Non vi è la pretesa di sostituirsi al mondo scientifico, ma la consapevolezza che bisogna andare oltre, bisogna provare a varcare la linea del già pensato per mettere in atto una nuova, e, si spera, più significativa, concettualizzazione di quello che sta accadendo. L’abisso che abbiamo indagato nel precedente capitolo si mostra anche attraverso il mio relazionarmi con eventi non-umani come i ghiacciai. La posta in gioco è quindi il tentativo di allestire una metafisica capace di interrogarsi sulla “kryo-agonia” in atto, di farla parlare, di renderla pienamente esperibile in un rapporto di mutua significazione, partendo dalle sincere sensazioni che animano il mio sguardo, il mio concreto esserci, durante gli avvicinamenti e i lavori. Come recita il titolo di questo libro e di questo capitolo, si tratta qui di mettere all’opera una filosofia tra i ghiacci. Dove l’accento non va riposto né su filosofia né su ghiacci, bensì sul tra. È, infatti, questo stare tra ciò su cui mi concentro e su cui dobbiamo prestare attenzione se vogliamo metterci in ascolto; quello che faccio quando sono al cospetto di un ghiacciaio è mostrare la genesi non di un sapere del ghiaccio, ma di un sapere tra il ghiaccio: la differenza è sostanziale. 

Sono ormai quattro anni che arrampicandomi su per monti e morene, in compagnia di glaciologi, studiosi e volontari, frequento le altezze e i ghiacciai. Questa frequentazione è stata contraddistinta da un personale e accademico studio della “questione ambientale” e più in generale del problema della “concettualizzazione di Antropocene”. È importante sottolinearlo perché, mentre sedimentavano in me competenze per quanto riguarda il concreto lavoro sul campo, di pari passo maturavano in me questioni, domande, suggestioni e tentativi di risposte. Questioni meno concrete ma forse, proprio perché meno concrete, più interessanti e suggestive. 

Nello zaino che mi porto in spalla, quando risalgo le montagne, c’è sempre un bagaglio filosofico che mi spinge a interrogarmi. Si tratta chiaramente di un lavoro che non è richiesto all’operatore durante la campagna glaciologica, ma nel mio caso, per formazione personale e di vita, rappresenta forse il momento più interessante. Questo perché il “ghiacciaio come evento” è in grado di far saltare, se interrogato, la nostra normale percezione delle categorie di spazio e di tempo. Lo zaino che mi porto sempre appresso, oltre a essere equipaggiato di tutto l’occorrente per la spedizione, è pieno di idee su “piani di immanenza” e “concetti”: la strumentazione del filosofo3. 

Non si tratta solo di un lavoro di recupero dei dati, in grado di descrivere quello che sta accadendo, lo stato di salute dei ghiacciai, ma anche di un tentativo di interrogazione del ghiacciaio in quanto evento. Quale orizzonte di senso è in grado di dischiudere un ghiacciaio? E se ne è in grado, con che intensità? La filosofia dell’operatore glaciologico è un’interpretazione che prende le mosse dall’operare sui ghiacciai, ma non è finalizzata alla sola indagine e interpretazione dei dati che vengono raccolti. Il cuore di questa filosofia sta nella messa in questione del proprio stare innanzi all’evento materico, e nell’interrogazione degli effetti che produce, in termini di significazione, sull’operatore stesso. Come operatori abbiamo un bel da fare durante le missioni di lavoro, ore e ore, su e giù e in lungo e in largo per i ghiacciai, a sondare lo spessore e la qualità della neve, scavare buche, misurare paline e classificare sedimenti. Il di più filosofico sta nel mettere e mettersi in questione rispetto a quello che si fa, cercando di problematizzare il rispecchiamento: l’interrelazione significativa tra umano e in-umano. In altre parole, si tratta di pensare in quegli spazi lasciati liberi dal pensiero che calcola e matematizza il ghiacciaio. La filosofia tra i ghiacci occupa i vuoti semantici dell’approccio tecnico-scientifico e cerca di concettualizzarli riterritorializzandoli in quanto esperienza di senso. Questo perché l’approccio calcolante sembra spesso chiudere un’esperienza, piuttosto che renderci disponibili a un’esperienza. Sul ghiacciaio anche il filosofo si comporta come un operatore glaciologico, è indistinguibile dagli altri: il filosofo sul ghiacciaio è in borghese. È nei momenti di avvicinamento e discesa, dove il passo cadenzato e il cervello ben ventilato sono le condizioni ideali per partorire socraticamente idee e nessi, per interrogarsi e concettualizzare le sensazioni, è lì che prende forma il fare filosofia tra i ghiacci. 

A un operatore glaciologico viene richiesto a grandi linee di andare in missione a fine maggio, fine estate e prima delle prime nevi per fare il bilancio di massa del ghiacciaio e capire se la stagione è andata bene, male o in equilibrio. In concreto si tratta di misurare la quantità di neve depositata sul ghiacciaio in inverno e primavera e poi ritornare sulla soglia dell’autunno, e prima delle nuove nevicate, per verificare quanta neve è riuscita a sopravvivere all’estate. Se la neve sopravvive, supera l’estate e viene raggiunta da nuova neve vi è produzione di ghiaccio nuovo e il processo è di fatto positivo per la salute stagionale del ghiacciaio. 

A partire dai primi anni Duemila la resistenza della neve depositata sul ghiacciaio è stata compromessa dal riscaldamento climatico, dalle lunghe estati settembrine e dalle incursioni dell’anticiclone africano. Se controlliamo i dati delle temperature alpine di questi ultimi anni ci rendiamo immediatamente conto che “non ci sono più le stagioni di una volta”, tutto sta cambiando molto velocemente. In particolare, sull’arco alpino abbiamo già raggiunto un aumento di due gradi rispetto all’era preindustriale. Le temperature estive si allungano sempre più frequentemente sino ai primi giorni del mese di ottobre, e questo comporta conseguenze nefaste per lo stato di salute dei ghiacciai. Con il regime termico del riscaldamento globale risulta decisamente difficile per il ghiacciaio, salvo rare eccezioni, riuscire ad avere un bilancio di massa positivo. 

In termini filosofici, esistenziali e fenomenologici, questa lettura del ghiacciaio in quanto evento, come in parte abbiamo già spiegato, non è un qualcosa che si può vedere teoreticamente al primo colpo, anche perché la peculiarità del ghiacciaio è di mostrarsi, in un’esplosione di significati, proprio mentre si nasconde, mentre arretra. Il ghiacciaio come evento lascia, come ha lasciato su altre scale temporali, tracce ovunque, intesse lo spazio e la sua stessa spazialità di una trama significativa, manda segnali e pulsa di logiche sue, che noi dobbiamo avere l’intelligenza di saper cogliere come in un unico plesso: tracce storiche, cosmiche, fisiche e metafisiche insieme. È chiaro che siamo di fronte a un’operazione che può sembrare goffa, un maldestro tentativo di restare in equilibrio come quando avanziamo su morene instabili. Ma non possiamo non provare a indagare, quando siamo noi stessi a fare esperienza, a sentire e vivere il mostrarsi di queste tracce. Tracce che ci chiedono di essere interpretate. 

Siamo di fronte a una lettura che ha bisogno di una certa dimestichezza sia con il fenomeno, per cui non può essere campata per aria, sia con la capacità di orientarsi. Dobbiamo perfezionare lo sguardo, “affinare il gusto” direbbe Nietzsche, al fine di cogliere la trama dei rimandi morfologici, le tracce, gli incontri e gli sfilacciamenti della presenza-assenza, il movimento che si manifesta in scale temporali dilatate ed estese: un oggetto complesso e affascinante il “ghiacciaio come evento”. Già la fase di avvicinamento è un momento di preparazione fondamentale dell’atteggiamento e della postura filosofica. Mentre si avanza salendo sui pendii e lungo le vallate, magari anche a più di un’ora dal ghiacciaio già troviamo tracce della sua presenza, presenza che si manifesta come contingente anche se viene da molto lontano nel tempo. La differenza tra passato, presente e futuro crolla, quando stiamo tentando di codificare le tracce, di metterle a sistema. Mentre avanziamo troviamo massi erratici o morene anche di 13.000 anni fa, tracce che rimandano al significato profondo e costitutivo del ghiacciaio. Morene risalenti alla piccola età glaciale o a piccole pulsazioni che testimoniano qualche annata o serie positiva. Dobbiamo metterci in ascolto, ascoltare la spazialità, l’eco di tempi lontani ma anche il costante divenir altro della morfologia dei luoghi, le geografie nascoste, le geologie dei paesaggi, l’assedio e la lotta per la vita della vegetazione, la presenza-assenza dell’eventoII. C’è sempre un di più che si impasta con il paesaggio, paesaggio che è un rimando a un’alterità che in quei luoghi ha stazionato, ingombrato, pulsato e infine si è ritirata. Questa “spazialità vuota”, “spazialità sottratta”, lasciata indietro dal ghiacciaio in ritirata è in realtà piena, un brulicare di tracce e rimandi: testimonianza per rovesciamento della sua presenza. 

Mentre avanziamo possiamo figurarci la tridimensionalità del fantasma del ghiacciaio di un tempo, e dei tempi profondissimi, seguendo le linee del paesaggio tracciato dalle morene. Siamo di fronte a un duplice elemento, da una parte lo spazio dell’assenza, ma pieno di tracce, che rimanda alla presenza di un fantasma materico; e in secondo luogo il movimento, che possiamo immaginarci sulla scala del tempo. Doppio movimento che cogliamo per esempio quando, raggiunto un cartello che mette in guardia per i crolli dalla fronte del ghiacciaio posto vent’anni fa, ci rendiamo immediatamente conto che il ghiaccio è arretrato di due o trecento metri, e la minacciosa fronte non minaccia affatto. Di fatto, è ridotta al non-essere, a un mai più: la minaccia è deterritorializzata. Vien meno la minaccia, ma nel venir meno il ghiacciaio ne mostra e rimanda a un’altra. La minaccia è riterritorializzata in un’altra prospettiva che è ben più pericolosa e inquietante, quella del riscaldamento globale e delle sue conseguenze. 

Quando si percorrono i sentieri glaciologici, e ci si rende conto della ritirata, è un po’ come quando si entra nella casa di qualche amico o parente dopo la sua dipartita. Ogni cosa parla della persona che ci ha lasciato: la pipa appoggiata sul tavolo, il cappotto appeso, come sono posizionate le suppellettili, eccetera. Il movimento di ritirata si contrappone al vento gelido che arriva dalla valle che un tempo accoglieva e si faceva modellare dal ghiacciaio. Si tratta del vento catabatico, che scorre continuo generato dalla differenza di temperatura tra il ghiacciaio e l’aria circostante. Questo alito thanatropico ci mostra la presenza in senso contrario alla ritirata. 

Il ghiacciaio come evento è ontologicamente inafferrabile se non nella misura in cui ci si accontenta dei suoi rimandi, delle sue tracce. Possiamo interrogarne le tracce, farle risuonare in un orizzonte di senso, per capire come esiste e con quali intensità. Un ghiacciaio come evento è spaziale e non spaziale, riempie uno spazio come un fantasma, è materico e spettrale allo stesso tempo. È in rotta di collisione con il principio di non contraddizione, è una terra di mezzo, mostra una via interpretativa ma non è la via, bensì un rimando a quella viaIII. Mentre si sale già ci si interroga, il movimento è duplice, mentre interroghi le tracce interroghi te stesso e il tuo stesso interrogare: è arte della problematizzazioneIV. Lo schema fisico con cui ci si confronta è quello che porta a riflettere sui propri limiti. Limiti fisici, corporei, che portano verso una più ampia generalizzazione del concetto di limite cui rimandano. Lo stesso schema, la stessa suggestione, a cui anela la verticalità dell’esperienza della montagna, la filosofia della montagna presente nel primo capitolo. Mentre si sale si fa esperienza, vissuta e pensata, dei propri limiti fisici, delle proprie capacità e del proprio allenamento. Questa attenzione nei confronti della nostra fisicità, ma anche della nostra finitudine, ci porta a un atteggiamento amicale nei confronti di un evento come il ghiacciaio: ci predispone all’ascolto. Diventiamo più empatici, più recettivi, nei confronti della sofferenza a cui rimanda il movimento di sottrazione del ghiacciaio. Se sono cosciente dei miei limiti, se ne faccio esperienza, mi predispongo ad accogliere i limiti dell’alterità non-umana con più attenzione, con più sensibilità. È come se i limiti materici dei processi che fanno sì che un ghiacciaio sia quello che sia si saldino più marcatamente nelle mie impressioni e suggestioni. Familiarità decisamente strana, perturbante, che è in grado di affinare i nostri sensi nella comprensione e nell’interpretazione simbolica dell’evento stesso. Com’è possibile, com’è stato possibile arrivare a questo punto? Ci chiediamo mentre avanziamo, passo dopo passo, in senso contrario alla ritirata del ghiacciaio. Il salire è un riavvolgere il nastro della pulsazione mortale del ghiacciaio, avanzando percepiamo la spazialità di un’agonia materica e inarrestabile. Tutto ci racconta di quello che siamo, del disastro che abbiamo più o meno consapevolmente, alla luce di quello che sappiamo oggi, creato, e siamo in grado di entrare in risonanza empatica con il ghiacciaio: da un certo punto di vista possiamo sostenere che “ci sentiamo in colpa nei suoi confronti”. 

La criosfera arretra da più di centocinquant’anni, quasi come se ci fosse un sincretismo, una fusione e mutazione simbolica, con la rivoluzione industriale, come se avesse già saputo come sarebbe andata a finire. Come è stato possibile non rendersene conto per tempo, non accogliere il suo messaggio? Non abbiamo prestato sufficiente attenzione a quello che stava accadendo? Forse frequentare i ghiacciai non è cosa di tutti i giorni, bisogna salire la montagna, avere gamba buona e polmoni sani, ma il punto è che non è sufficiente frequentare i ghiacciai per capire che cosa è in atto, per cogliere la profondità e la radicalità del movimento e della sua concatenazione. 

Un ghiacciaio come evento è anche inevitabilmente un costrutto culturale, per osservarlo e coglierne il messaggio dobbiamo aver avuto la possibilità di immergerci e riconfigurare lo sguardo in qualche testo di glaciologia, ma soprattutto, di aver frequentato esperti del fenomeno, geologi, glaciologi, eccetera. È necessario incarnare nella propria vita uno snodo, una soglia, un punto d’incontro tra le scienze cosiddette dure e quelle umanistiche, è necessario immergersi e farsi guidare dalla vocazione filosofica alla transdisciplinarietà dei saperi. Anche se va detto che questo incontro tra i saperi al fine della nostra interpretazione non è, da solo, in grado di esaurire il significato dell’evento in sé. Questo perché c’è sempre un di più empatico che sfugge alla concettualizzazione, un di più che la precede, un di più che si può solo vivere, sentire come un’intensità. 

Ricordo ancora la prima volta che mi trovai, anni fa, al cospetto del mio primo ghiacciaio, quel particolare sentire impastato di emozione, fatica, gioia e inquietudine. Un sentire che solo dopo molto tempo iniziai a ripensare e concettualizzare in quanto evento. Ero rimasto senza parole rispetto alla potenza materica, al sublime dei crolli, agli azzurri e ai grigi, e alle infinite gradazioni cromatiche tra questi due colori. La suggestione del ghiacciaio era esplosa in me come una rivelazione che faticavo a concettualizzare. In principio fu un sentire, una vibrazione estetica, come la consapevolezza di essere dinnanzi a qualcosa di enorme, concreto, definitivo e sublime. Un ente in grado di testimoniare forze geologiche e cosmiche: un dio ancestrale agonizzante, un martire, un titano morente. Senza una conoscenza dei processi che al ghiacciaio sottendono, l’agonia non è auto-evidente, non è ancora concettualizzabile, è pura intensità. In altre parole, una suggestione metafisica che non è in grado di animare una sua concettualizzazione. Senza confronti fotografici, capaci di testimoniare il movimento sotteso di un prima e un dopo, o senza la capacità di leggere morfologicamente l’ambiente circostante, ossia il lavoro metamorfico sul paesaggio, il ghiacciaio ci appare come forza materica. È solo dopo aver affinato lo sguardo della mente e le proprie conoscenze che ci si rende conto del concreto plesso di infiniti rimandi e concatenamenti che lo costituiscono. Rimandi che sono la concretizzazione del campo di forza, della sublimazione della sua forza materica, delle sue pulsazioni vitali e delle sue traiettorie future. 

Una volta che si fanno propri questi elementi, il ghiacciaio come evento inizia a parlare, si mostra come un caleidoscopio di informazioni, e noi, un po’ tristi e curiosi, perché coscienti dell’agonia, non sapendo bene come e perché, iniziamo a fare esperienza di esso come se fosse un essere vivente. Il ghiacciaio come evento è senz’altro un essere vivente. Suggestiva ed esemplificativa di questo particolare sentire, e sentirci innanzi a esso, è la descrizione metafisica che ne dà René Daumal: 

I ghiacciai sono esseri viventi, in quanto la loro materia si rinnova con un processo periodico in una forma quasi permanente. Il ghiacciaio è un essere organizzato: con una testa che è il suo nevaio, con cui bruca la neve e ingoia dei frammenti di roccia, testa ben divisa dal resto del corpo dalla crepaccia terminale; poi un enorme ventre, in cui si compie la trasformazione della neve in ghiaccio, ventre inciso di profondi crepacci e da solchi, canali escretori dell’acqua superflua; e nella parte inferiore rigetta, sotto forma di morena, i rifiuti del proprio nutrimento. La sua vita è ritmata dalle stagioni. D’inverno dorme e in primavera si risveglia, con scoppi e scricchiolii. Vi sono persino dei ghiacciai che si riproducono secondo processi che non sono certo più primitivi di quelli degli esseri unicellulari, sia per congiunzione e fusione, sia per scissione, che dà origine a quelli che chiamiamo i ghiacciai rigenerati.4 

Non saprei trovare parole migliori per descrivere il ghiacciaio come evento vitale. Siamo di fronte a una – sostiene l’autore – “non euclidea ma simbolicamente autentica” descrizione metafisica di un ghiacciaio come essere vivente. Questo perché si ha sempre la sensazione di essere su qualcosa di vivo, oltre che di essere su qualcosa che sta vivendo l’esperienza della sua stessa progressiva agonia. Essi vivono, o meglio, essi muoiono per causa nostra, e noi ne siamo testimoni. 

 


Matteo Oreggioni è dottore in Scienze filosofiche, insegnante e divulgatore scientifico. Dal 2017 è operatore glaciologico del Servizio Glaciologico Lombardo, per il quale studia, monitora e pensa i ghiacciai.

 

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