Fuggire le chiese attraverso la meditazione

C’è chi vede nella meditazione una pratica un po’ da fanatici, ma questa prassi può anche aiutare a superare la rigidità mentale tipica delle comunità fideistiche.


in copertina e nel testo, Illusion, di Hyo Soon Choi (2008)

di Alice Diacono

Sono cresciuta in una comunità evengelico-pentecostale. La mia formazione è stata quindi quella tipica del fondamentalismo religioso. Bianco o nero. Dio o Satana. Salvati o dannati. Comunità dei fedeli (noi) VS “quelli del mondo” (tutti gli altri, i Babbani, come mi diverto a chiamarli adesso). Nessuna esitazione o via di mezzo concesse.

Questa mentalità rigida e giudicante è qualcosa che purtroppo mi sono portata dietro anche quando, a diciannove anni, sono uscita dalla comunità e mi sono buttata “nel mondo” , ed è qualcosa con cui probabilmente dovrò fare i conti per tutta la vita. 

Appena ci sono arrivata, nel mondo, ovvero quando a diciannove anni sono scappata dalla mia cittadina di provincia per andare a studiare a Bologna, ho scoperto gli ambienti culturali, accademici, politici e antagonisti. Non sapevo niente, ero curiosa di tutto, assetata di tutto, non mi orientavo bene tra le fazioni, né riuscivo pienamente a distinguere tra gruppi che appartenevano alla politica istituzionale e quelli extraparlamentari. 

Per me “essere di sinistra” era un calderone dentro cui poteva starci un po’ di tutto, esattamente come la maggior parte delle persone mette gruppi e comunità diverse sotto la categoria “protestanti”, senza avere una minima idea delle differenze dottrinali, della storia dei vari sottogruppi, delle scissioni interne ai diversi movimenti, dei rapporti buoni o cattivi che intercorrono tra di loro, e così via.

Ho cercato di imparare tutto ciò che fino a quel momento mi era stato proibito, o fortemente sconsigliato. Il problema è che ho assimilato tutti quei concetti, ideologie e contenuti con una forma mentis rigida, cominciando a giudicare chi aveva idee e opinioni diverse, o chi addirittura non le conosceva, come “ignorante” o sbagliato. La politica, la cultura, la rabbia sociale, erano diventati la mia nuova religione e un certo tipo di ambienti la mia nuova chiesa. 

Questa chiusura mentale mi faceva soffrire. Per ognuno di noi, in diversi momenti della vita, esistono schemi mentali che portano alla sofferenza e che quindi non sono più adatti a noi e al nostro modo di sentire, accanto a modi più “aperti” di porsi verso il mondo, che ci portano invece all’apertura e all’accettazione dell’altro e a un vivere più sereno e “pacificato”.

Di questo mi sono accorta perché la mia sofferenza mi ha portata a intraprendere un percorso di psicoterapia, in cui emerse chiaramente che soffrivo proprio perché quel sistema di pensiero cominciava ad andarmi stretto.

Un metodo che la mia psicoterapeuta ritenne opportuno suggerire, fu la meditazione.

Accettarlo non fu facile. La rigida mentalità materialista e marxista che mi ero creata come reazione alla fede in Dio rinnegata, mi impediva di vedere questa pratica di buon occhio. Tanto per dare un’idea: una volta sentii la mia psicologa parlare di segni zodiacali con un’altra paziente e andai in crisi, mettendo in dubbio tutto il percorso fatto con lei.

 Sapevo inoltre che se avessi detto ai miei amici “intellettuali” e “compagni” di aver cominciato a meditare, avrebbero pensato che mi fossi definitivamente rincoglionita e che la mia debolezza mentale e la disperazione, mi avevano portata a farmi abbindolare da pratiche new age e teorie pseudo-spirituali poco ortodosse. 

Ma stavo troppo male e decisi quindi che valeva la pena di fare un tentativo di superare i miei pregiudizi e quelli altrui, e provai dunque a fidarmi della mia psicologa, che consideravo una fricchettona, ma se non altro, una di quelle fricchettone preparate e molto colte. Al primo incontro conoscitivo mi invitò a guardare L’angelo sterminatore di Buñuel, e io pensai che una che ti propone di guardare un film del genere al primo incontro o era pazza o poteva cambiarmi la vita.

Decisi quindi di fidarmi e cominciai a meditare in segreto. Questo perché mi accorsi di come in certi ambienti militanti o comunque “di sinistra” in cui ero immersa, certe pratiche venivano guardate con sospetto se non addirittura con disprezzo. Ah, per me meditare non significa nient’altro che ascoltare il respiro, con una campanella che ogni tanto suona e richiama l’attenzione. Lo scopo del gioco non è, come spesso si crede, rimanere concentrati o non pensare. Quello è impossibile, non ci riescono neanche i monaci tibetani livello pro pro pro. Lo “scopo”, se di scopo si può parlare, ma forse è meglio dire, l’esercizio, è proprio quello di distrarsi e poi tornare, allenando così il muscolo della consapevolezza e causando modificazioni plastiche a livello cerebrale. Come quando si fanno le flessioni, il muscolo si allena sia quando si va giù con le braccia che quando si torna su. Non c’è un momento giusto e uno sbagliato. Eppure spesso ci si giudica e ci si sgrida interiormente per essersi distratti. Questa è un’altra delle caratteristiche che si allenano col tempo: la compassione verso se stessi.

Mi ha colpito molto una cosa che ho visto in un documentario di Netflix sulla mente. Faceva vedere come una mente giovane sia come una collina innevata e i pensieri come slittini che ci passano sopra lasciando dei solchi. Con il tempo e con le abitudini, i pensieri tenderanno a incanalarsi nei solchi che sono diventati man mano più profondi e che creano la nostra percezione della realtà, quindi il nostro Io, o quello che noi chiamiamo “il mio carattere”. Tra le cose che permettono una “ventata di neve fresca” e quindi la possibilità di creare nuove connessioni e nuove sinapsi ci sono alcune sostanze psichedeliche come la psilocibina e l’lsd, e pratiche come la meditazione. 

Tornando alla mia storia. Praticando, mi resi conto di come, quando sto male o mi sento in pericolo, mi vado a ficcare automaticamente in un buco chiuso e stretto che sta da qualche parte nella mia mente, da cui comincio a giudicare me stessa e il mondo con severità. La mia terapeuta lo chiama “Cul de sac” (sempre a proposito di citazioni cinematografiche). 

Presto però mi accorsi che il problema non era solo mio, ma molto diffuso. 

Si divide il mondo e lo si giudica per categorie, attraverso una sorta di “sistema piramidale” chi sta più in alto e chi sta più in basso, chi ha ragione e chi ha torto, amici e nemici; sistema che porta ad un atteggiamento di chiusura a autosegregazione in determinati circoli. Quindi ci sono solamente alcune persone degne della nostra attenzione, solo alcuni luoghi degni di essere frequentati o abitati, solo alcune cose che meritano di essere fatte. 

Sfuggire a nuove chiese diventò il mio passatempo preferito. Ne trovavo ovunque. Non importa dove o con chi fossi, ritrovavo questo atteggiamento settario in qualsiasi ambiente, dal più progressista al più conservatore. Cambiava il contenuto ma non il processo. 

“Tutti abbiamo un’infinità di opinioni, convinzioni, pensieri e punti di vista ai quali siamo attaccati. Finché non molliamo la presa su quello che pensiamo e sentiamo, rischiamo di essere prigionieri delle nostre idee, invece che esploratori della nostra vera natura. Senza consapevolezza di sé, anche il punto di vista più ispirato può diventare una rigida ideologia.” Scrive la psicoterapeuta e scrittrice Robyn Norman in un articolo intitolato Is meditation enough?

Con il passare del tempo mi sono resa conto che la maggior parte dell’umanità adotta la tecnica del cul de sac, rifugiandosi nelle proprie idee e nelle proprie opinioni. Perché lo fa? Perché le nostre idee e opinioni sono la nostra identità e gli esseri umani hanno bisogno di un’identità esattamente come di avere una tana in cui rifugiarsi quando fuori fa freddo o sono stanchi. 

Tutto va bene finché c’è apertura e scambio tra la tana e l’esterno, ma quando ci si sente minacciati, confusi, e il mondo esterno fa paura, ecco che la tana diventa una trappola e rimaniamo conficcati lì, terrorizzati alla sola idea di lasciarla e di uscirne. Meditare è per me un modo per tenere la soglia della tana aperta, per fare pulizia, spazzando via le ragnatele e i residui intellettuali che si accumulano all’ingresso, o per accorgermi che ancora una volta mi ci sono ficcata senza lasciarmi scampo. 

Non credo che sia una consapevolezza o un’apertura che si può raggiungere con la riflessione. Anzi, a mio avviso è il dare troppa importanza alla razionalità che non ci permette di liberarcene. Politicamente e umanamente parlando. 

Tempo fa scrivevo che ciò che ancora molti si ostinano a non capire è che l’accordo di non belligeranza con se stessi (anche detto “felicità” nel linguaggio comune e per le anime semplici), non passa attraverso l’intelletto ma attraverso qualcos’altro che è sia profondamente individuale che profondamente collettivo. Bifo l’ha definita “mente corporea”, nell’ intervento scritto in morte di Mark Fisher. 

L’unico modo che ho trovato per sentire questa “mente corporea” è ascoltando il mio respiro anche nei momenti peggiori, in cui l’angoscia diventa così solida che l’anima sembra volersi staccare dal corpo e scapparsene il più lontano possibile. Lì, da qualche parte sotto l’ombelico, nel mio petto o nel naso, qualcosa accade senza che io faccia nulla e mi tiene in vita. Ascoltando questa cosa senza tempo e senza nome, si torna al centro, si ricomincia a sentire il corpo, si sentono di nuovo i suoi pieni e i suoi vuoti, si ricomincia a sentire tutte quelle minuscole sensazioni sottili, i microprocessi interni ed esterni, che non sentiamo mai, dato che affidiamo la maggior parte della nostra vita all’intelletto, in un mondo basato sulla razionalità scientifica dominante.

Questo atteggiamento di sospetto e pregiudizio di certi ambienti politicizzati, verso tutto ciò che è invisibile o “spirituale” è nocivo sia per i gruppi, sia per i movimenti stessi che tendono a reiterare all’infinito meccanismi (fallimentari) considerati politici, che si basano però su convinzioni, idee e atteggiamenti personali. Se queste idee personali sono guidate da meccanismi dentro-fuori, giusto-sbagliato, degno-indegno, in maniera inconsapevole e senza neanche minimamente considerare la parte spirituale o invisibile che va al di là del razionale e del materiale, l’orizzonte delle strategie politiche e la loro portata, il loro respiro, rimarranno sempre limitate. Come ho scritto in questo articolo pubblicato su Not, “È del tutto inutile continuare a parlare del capitalismo come se fosse un oggetto estraneo ai nostri corpi: noi siamo gli ingranaggi che lo muovono, noi gli anelli della catena e finché noi stessi non spezziamo l’incantesimo con i nostri stessi corpi, questo continuerà ad andare avanti, anche solo per inerzia.”

Sono consapevole del fatto che si tratta di un argomento controverso nel momento storico che stiamo vivendo, il cosiddetto medioevo digitale, in cui l’irrazionalità porta a complottismi di ogni tipo, eppure penso anche che è proprio qua possiamo trovare la soluzione. “Una lunga e fondata tradizione ammonisce a non spalancare troppo le porte, specie in una cultura che non sa distinguere tra profeti e ciarlatani.” Scrive James Hillman nel suo bellissimo Il codice dell’anima.

Insomma, bisogna stare attenti a fare questo tipo di ragionamenti, se non si vuole perdere credibilità agli occhi di quelli che sono ancora invischiati nello scientismo e nel materialismo, o per dirla con Montale, dentro a “le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede.”

O anche, per ripeterlo e con le parole di Hillman, “Nel regno (o è un centro commerciale?) dell’Occidente, la coscienza ha sollevato il trascendente sempre più in alto e sempre più lontano dalla vita quotidiana. L’abisso attraversabile è diventato vuoto cosmico. […] Sicché la mente razionalizzata preferisce l’abisso al ponte; il taglio netto che separa il regno del visibile da quello dell’invisibile.”

Secondo i recenti studi di fisica quantistica quasi un quarto di tutta la materia nell’universo, è costituito di sostanza invisibile.Per invisibile intendo che non assorbe nello spettro elettromagnetico. Non emette nello spettro elettromagnetico. Non riflette. Non interagisce con lo spettro elettromagnetico, che è ciò che utilizziamo per rilevare le cose. Non interagisce in alcun modo. Quindi come sappiamo che c’è? Lo sappiamo a causa degli effetti gravitazionali. In effetti, questa materia oscura domina le forze gravitazionali di tutto l’universo.” Ha spiegato la fisica Patricia Burchat in una Ted Talk dal titolo Shedding light on dark matter.  Un’altra grossa fetta della torta è costituita da energia oscura, che tende a far espandere l’universo sempre più rapidamente. Per entrambe non si è ancora trovato una spiegazione. 

La percentuale di materia ordinaria e misurabile – e per ordinaria intendo voi, io, i pianeti, le stelle, le galassie” continua Burchat –  è solo una minima percentuale, si stima intorno al 5%. Se la scienza non può ancora spiegare questi come tanti altri fenomeni – forse ci riuscirà un giorno – perché abbiamo la pretesa di fidarci solo di ciò che è visibile? Se non sappiamo neanche cosa sia il 95% della materia che compone il nostro universo, come possiamo credere vero solo ciò che è, ad oggi, visibile e misurabile? 

“L’assillo di dover capire equivale a un atteggiamento di cattura e di riduzione al già noto. Ma comprendere può essere invece ascoltare e aspettare. Peter Bichsel in Quando sapevamo aspettare scrive: “È possibile ascoltare bene solo quando si tollera di non capire.” Scrive Chandra Livia Candiani ne Il silenzio è cosa viva.

 “A differenza di quel che accade con la scienza occidentale, le pretese di verità del buddismo si fondano principalmente sull’introspezione, meglio conosciuta come meditazione. Tra l’altro la salute mentale dell’Occidente è precaria, e l’approccio materialista non aiuta. Poiché non comprendiamo appieno i meccanismi della coscienza, molti di noi non sanno come funziona la propria mente. […] La resistenza del mondo accademico occidentale a dialogare con le tradizioni sapienzali orientali come il buddismo, è particolarmente deleteria, in quanto il buddismo offre un metodo comprovato, sostenibile e replicabile per superare il materialismo e i sentimenti di alienazione, depressione e ansia che ne derivano. […] Il buddismo può certamente adattarsi anche al nostro stile di vita occidentale, per aiutarci a superare il disagio mentale dilagante, ma perché questo avvenga, dobbiamo rivedere la nostra fiducia dogmatica nel materialismo scientifico. ” scrive Joel Gruber, professore in buddismo tibetano e studi tantrici della facoltà di Teologia dell’Università della California.

La parola stessa “intellettuale”, usata spesso in modo dispregiativo o nella formula “intellettuale di sinistra”, la dice lunga. Nella nostra società, gli intellettuali, quelli davvero intelligenti, che hanno studiato, che sanno le cose, che dettano legge all’interno di sacche di avanguardie culturali prima e nella cultura di massa poi (di solito una volta che sono morti), sono quelli che usano l’intelletto, appunto. Ma, continua Gruber “Come spiega Tarthang Tulku, il problema principale di noi occidentali, sta nel credere che possiamo comprendere la mente rivolgendoci all’esterno di noi stessi invece che all’interno. Il risultato è che in Occidente abbiamo una cultura sconfinata, conosciamo tantissime cose, ma non sappiamo affatto come funziona la nostra mente”. E come possiamo arrivare a comprendere la nostra mente? La meditazione come è proposta oggi ha spesso connotati materialistici – su questo si potrebbe aprire un altro, enorme, capitolo – e viene spesso venduta come un prodotto, come se fosse una compressa di Xanax capace di ridurre lo stress o di renderci più produttivi al lavoro. Invece di andare alle radici dell’ansia, della dipendenza e della depressione, questo approccio, diciamo “neoliberista”, usa la meditazione come un cerotto da mettere sulla ferita. Il risultato è che raramente la pratica della meditazione risolve l’ansia generata dal materialismo, semplicemente perché non è nata per questo.

“Pur avendo rinunciato alla secolare ricerca dell’anima in questo o quell’organo o apparato del corpo, la scienza della psicologia continua a essere motivata da una smania di ingabbiare l’invisibile con metodi visibili. E quando i ricercatori videro che non riuscivano a trovare l’anima nei posti in cui la cercavano, la psicologia scientistica lasciò perdere l’idea stessa di anima.” Scrive ancora Hillman. Mentre Emil Cioran,  ne La tentazione di esistere: “Oggi, chi si cura più dell’anima? Se la si menziona, è solo per distrazione; il suo posto è nelle canzoni: soltanto la melodia riesce a renderla sopportabile, a farne dimenticare la vetustà. Il discorso non la tollera più: troppi significati ha rivestito, a troppi usi è servita, così si è sciupata, deteriorata, svilita. Il suo patrono, lo psicologo, a forza di girarla e rigirarla, doveva darle il colpo di grazia. Così, non suscita ormai nelle nostre coscienze che quel rimpianto che si accompagna alle belle glorie per sempre tramontate. E pensare che una volta i saggi la veneravano, la ponevano al di sopra degli dèi, e le offrivano l’universo affinché ne disponesse a suo piacimento!”.

Meditare mi ha insegnato ad accogliere gli aspetti irrazionali e invisibili dell’esistenza, a rimanere aperta al non sapere, allo sconosciuto, a ciò che fa paura, ai lati oscuri dell’anima, ai pensieri ossessivi, a riconoscere il giudizio continuo che inquina e avvelena me stessa e il mondo. Mi ha insegnato a testimoniare la rabbia per poi agire, e a non reagire per rabbia. 

Scrive ancora Chandra Livia Candiani:

“Sono seduta e seguo umilmente e con pazienza il respiro perché so che pensare non dà soluzioni, solo aggiunge nuove narrazioni all’autonarrazione e la narrazione non è la vita. La voce dell’autonarrazione non è nostra, è convenzionale, antenata, è strategia di sopravvivenza. La postura è esporsi all’essere. Dunque, sedersi in meditazione, accogliere in silenzio il respiro, conoscere senza pensare, è un gesto politico. Ha una portata collettiva indelebile, mi trasforma e con me trasforma tutto il mondo attraverso il cambiamento del mio atteggiamento verso ogni fenomeno con cui entro in contatto, non solo mentre medito, la meditazione formale non è che una palestra, un laboratorio, ma sempre e ovunque, nella vita quotidiana che è l’unica che c’è.”

Ci ho messo sei mesi per scrivere questo articolo. In questi sei mesi sono ripiombata in uno di quei buchi neri e la meditazione mi sta aiutando ancora una volta a uscirne. Per dare fiducia a questa pratica e per superare la sofferenza ho dovuto andare oltre i miei pregiudizi, le mie convinzioni, le mie sicurezze, il mio materialismo. Fa male. E fa paura. Molta più paura che rimanere nel tiepido malessere conosciuto. Ma mi ha permesso di vedere oltre la cortina di ferro del fenomenico, della realtà empirica, di quella razionalità a cui davo fiducia assoluta e che mi portava sempre alle stesse, sconsolanti, deprimenti, conclusioni.

Nei momenti in cui sto male, devo stare ben attenta a non ricadere in quel circolo vizioso di pensiero in cui ciò che so, penso e credo diventa automaticamente la cosa migliore per chiunque ed è per questo che voglio specificare che la meditazione e la psicoterapia non sono gli unici modi per diventare consapevoli dei propri automatismi e per mantenere la mente aperta e flessibile. Ne ho parlato con Francesco D’Isa che mi ha dato l’idea per scrivere questo pezzo e che mi ha detto ciò che penso anche io ma che quando sto dentro il mio buco tendo a dimenticare, ovvero che ognuno può trovare il suo modo, la sua via. Ci sono strade diverse che si adattano a persone e biografie diverse. Non esistono “salvati” o “persone da salvare”. Siamo già salvi, se non dalle nostre convinzioni.

Questo articolo è frutto di un lungo e complesso percorso personale. Non ha nessuna intenzione di fare proselitismo o di proporre la meditazione come soluzione adatta a tutti o panacea per tutti i mali. 


Alice Diacono è autrice di poesie, prose, articoli, saggi e insegna letteratura e storia in un liceo del Nord Ovest. Ha collaborato con Jacobin, Vice, Not e Doppiozero scrivendo di sottoculture e antifascismo. Nel 2019 ha pubblicato Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento con Battaglia Edizioni.

6 comments on “Fuggire le chiese attraverso la meditazione

  1. […] giorno mi son messo a giocare con questo concetto spiegato per esteso in questo articolo, dove si parla di interiorità e capitalismo (per riassumere). Adesso ci siamo stufati di fare le […]

  2. Grazie. Non so trovare altre parole per esprimere la mia gratitudine per queste riflessioni.

  3. Liliana Orlando

    Grazie, ho riletto l’articolo più volte perché mi ha colpito la sintonia con i miei pensieri che però non riesco a chiarire da sola.

  4. grazie confermiamo quello che sto pensando da mesi arigrazie

  5. Articolo davvero interessante, comunque devo dire, con cognizione di causa, che le neuroscienze dialogano da anni con il mondo buddhista…..

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