Scoprire cosa cambia e cosa rimane identico nell’arco dei secoli è stupefacente e istruttivo, perché aiuta a distinguere le tendenze innate dalle mode passeggere. A tale proposito lo strano caso di Antonio di Giovanni Rinaldeschi, avvenuto nel 1501 a Firenze, è senza dubbio esemplare.
Non molti sanno, infatti, che cinquecento anni fa (ma anche molto prima) esistevano già i fumetti e che questa tecnica, tardivamente rivalutata dai critici d’arte, era considerata alla stregua di tutte le altre. La sfortunata vicenda di Antonio, inoltre, se da una parte conferma alcune tendenze comuni nei secoli, quali l’antipatia per chi imbratta i beni pubblici, dall’altra evidenzia come la tolleranza nei confronti di questi gesti sia decisamente aumentata, considerato che in passato erano crimini per cui si poteva benissimo venire defenestrati. Sebbene alcune cose restino identiche dunque, gli sguardi che si posano su di esse cambiano in continuazione; a restare immutata è solo la crudele e inconsapevole ironia del destino, perché oggi come in passato basta un piccolo gesto per scatenare una serie di terribili eventi…
Non molti sanno, infatti, che cinquecento anni fa (ma anche molto prima) esistevano già i fumetti e che questa tecnica, tardivamente rivalutata dai critici d’arte, era considerata alla stregua di tutte le altre.
Si prenda questa disavventura di più di mezzo millennio fa; se è passata alla storia si deve ringraziare un quadro di Filippo Dolciati, suddiviso in nove caselle e situato nella chiesa di S. Maria de’ Ricci, di fronte a vicolo del Panico. Per essere più precisi nella chiesa è esposta una riproduzione; l’originale si trova al museo Stibbert, in quanto parte della collezione di Frederick Stibbert (1838 – 1906), un collezionista di armi e armature che grazie a questo pannello ha esteso la sua raccolta anche al fumetto. Il quadro, infatti, è composto da nove vignette, che narrano in modo sequenziale la vicenda di Antonio Rinaldeschi; la prima rappresenta Antonio in un’osteria, dove altri individui lo guardano desolati; il testo recita:
Rinaldeschi nobile fiorentino nell’Osteria del Fico / Gioca e persi i danari e i panni accecato dall’ira …». La scena prosegue con il povero Rinaldeschi (ritratto vestito per censura o pietà) che afferra dello sterco da terra «… raccoglie sterco di cavallo stimolato dal diavolo… » per scagliarlo, nella terza vignetta, contro un’icona della Madonna: «… Getta lo sterco in faccia della / Beata Vergine bestemmiando e fugge in villa… ». Il fatto non viene preso bene dai concittadini e già nell’immagine seguente il disgraziato viene scortato da una ressa di guardie che lo trascinano a Firenze, «… lo conducono in fiorenza… », presso le prigioni del Bargello, dove subisce un veloce processo «… Lo cavano in prigione e lo conducono a esaminarsi… ». Nella settima immagine, che glissa sulle torture cui viene sottoposto, Antonio confessa il crimine, mentre nell’ottava viene condannato a morte «… Dal carnefice è condotto alla morte… ». Infine, nella nona figura, l’imbrattatore penzola da una finestra del Bargello, circondato da un nugolo di angeli e demoni che ne disputano l’anima «… A VII ore di notte è impiccato alle finestre del / Potestà e in sepoltura il dì di S. Maria Maddalena.
«… Getta lo sterco in faccia della / Beata Vergine bestemmiando e fugge in villa… ».
La stessa storia è narrata, col titolo di Narratione dello excesso del Rinaldesco, nel libro Entrata, uscita, debitori, creditori e ricordanze dell’Opera della Madonna dei Ricci, scritto da Giovanni Landi proprio nel 1501:
Ricordo chome insino a’ dì 11 di luglio 1501, passando Antonio Rinaldeschi per la piazzuola di Santa Maria Alberighi, richolse di terra una manata di stercho di chavallo ovvero d’asino, e quando e’ fu pasato la detta piazzuola e giunto nel chiasolino che va nella via di Porzanpiero, si voltò alla fighura della Nostra Donna Nunziata [la Madonna] che è dipinta sopra la porta di fiancho di detta chiesa, e gittogli quello stercho, el quale era alido, mediante l’essere stato per aventura qualche dì al sole, e miracolosamente gliene rimase un pocho apichata nella diademe sopra la collottola, tanta che quai pareva una rosetta secha [sebbene secco, lo sterco si incastra nel diadema della Madonna, apparendo come una poetica “una rosa secca” di feci]. Ed anchorara che ‘l detto Antonio non fusse da persona gittare simile sporcizia nella stessa Nunziata, e chome piacque a lei la chosa si scioperi, e’ venne a notizia a l’uficio degli Otto [gli “Otto di Guardia”, una magistratura composta da otto cittadini appartenenti alle Arti] e quali chonmetter bandi, sotto grave pene, chi sapesse el detto Antonio e no’ llo insegniassi, in modo ch’egl’ebono notizia che s’era fugito fuori di Firenze e in che luogho di che mandorono la sua famiglia [i famigli, ovvero la polizia] a pigliarlo; e di che, chome el detto Antonio si vide sopragiunto dalla detta famiglia da sse medesimo si dette di uno choltello nel petto. Et chome piacque a essa misericordiosa Vergine, che non volle però che per tanto eccesso che quella anima si perdessi, el detto choltello trovò una chostola, in modo che non passò drento, di che e’ fu menatone preso a’ dì 21 di detto mese [Antonio tenta il suicidio per evitare la trotura ma la Madonna lo “salva”]. E immediate fu disaminato [cioè torturato] da’ detti Signori Otto, e quali lo trovorono colpevole, e lui medesimo si giudichò esser degnio della morte per tanto eccesso quanto egli aveva fatto [non a caso venne torturato]; di che e’ lo sentenziarono alla morte, e detto dì fu impichato, circha a ore […] alle finestre del Chapitano, e lasciato stare morto, e così inpichato insino alla mattina vengniente che fu a’ dì 22 di detto. E detta mattina messer Lodovico Adimari, vichario dello arcivescovo di Firenze, mandò […], prete, a spichare el detto stercho dalla Nostra Donna [finalmente la Madonna viene ripulita].

Un’altra testimonianza si trova nei registri della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio, detta dei Neri, che lavoravano all’assistenza e la sepoltura dei condannati a morte. Il documento riporta il fatto in breve: «Antonio di Giovanni Rinaldeschi. Inpiccato alle finestre del Potestà all’ore 2 di notte , 22 luglio. E quinci stette insino all’altro dì, che ci è la festa di Santa Maria Maddalena. Perché per disperazione imbrattò con sterco la figura di Nostra Donna agl’Alberighi.».
-->Il motivo per cui l’esecuzione viene eseguita direttamente (e frettolosamente) al Bargello viene spiegato da un altro documento, la Seconda annotazione tratta dei registri della Compagnia dei Neri del 1637, che recita: «Per non esser dal popolo strascinato chiedeva di gratia di essere impiccato ivi. Fugli fatta, e fu sotterrato al Tempio.».
«… raccoglie sterco di cavallo stimolato dal diavolo… »
Analizzando le fonti, la storia dello sfortunato risulta piuttosto lineare; il nobilotto si ubriaca nell’Osteria del Fico e perde tutto al gioco, vestiti compresi. Sbronzo e furioso, barcolla fuori dalla taverna e giunge nei pressi della Chiesa della Madonna de’ Ricci, dove vede la sacra icona raffigurante la Madonna. Considerandola in parte responsabile, in quanto madre di Dio, o forse solo per sfogare la rabbia, l’uomo comincia a bestemmiare con la furia e l’inventiva nelle blasfemie tipica dei toscani. Non contento, raccoglie dello sterco da terra e lo getta contro l’icona. Accortosi di aver attirato l’attenzione dei concittadini, Antonio torna in sè e si accorge della gravità del gesto; fugge fuori Firenze ma viene prontamente riacchiappato dalla polizia. Consapevole del proprio destino, tenta il suicidio, conficcandosi un coltello nel cuore; il pover’uomo però fallisce ancora (nella versione dell’epoca lo “salva” una Madonna un po’ vendicativa) e si ritrova così ferito e catturato. Subisce un processo, che all’epoca è per lo più il sinonimo di tortura, e viene frettolosamente condannato a morte per impiccagione. Gli vengono risparmiate le torpitudini della folla ma per dare soddisfazione al popolo il cadavere viene comunque appeso alla finestra della prigione.
Una pena molto severa, soprattutto se si considera i supplizi cui i condannati venivano sottoposti durante gli interrogatori. Ne i Segreti di Firenze, Stefano Sieni scrive che:
A Firenze si rabbrividiva al solo pensiero degli “zufoli”, dei “tassilli”, della “vigilia” o della “ligatura canubis”. Con il congegno degli “zufoli” si rompeva la noce del piede. I “tassilli” erano pezzetti di legno impeciato, ai quali si dava fuoco dopo averli ficcati sotto le unghie del torturato. La “vigilia” era uno sgabello molto alto a punta di diamante, sul quale si impalava la vittima. Per “ligatura canubis” si intendeva una cordicella che legata al polso, lo stringeva sempre di più, per mezzo di una specie di argano. Da non dimenticare i “tratti di corda” la famigerata “ruota” e la” tortura dei capelli”. In quest’ultimo caso, si legava la chioma del “paziente” ad una fune che pendeva dall’alto, sollevando da terra il torturato con tutto il peso del corpo.

Non deve stupire più di tanto; come sostiene Michel Foucault nel suo celebre saggio Sorvegliare e punire: la nascita della prigione (1975), il supplizio pubblico era una sorta di “piazza teatrale” con precise funzioni sociali: ripercuotere la violenza del delitto sul corpo del condannato, essere di monito a tutti e porre in atto la vendetta del sovrano sul corpo del colpevole. La tesi di Foucault è che essendo la legge considerata un’estensione del corpo del re, era logico che la vendetta regale si incarnasse nella violazione del corpo del condannato. Se le cose sono cambiate, sostiene l’autore, non è per un’evoluzione dell’animo umano, ma perché questo metodo era spesso controproducente. Le esecuzioni, infatti, sfociavano spesso in tumulti in appoggio del prigioniero, che diveniva un simbolo del conflitto tra le masse e il sovrano; le prigioni si sono così dimostrare più efficaci per gli interessi dello stato. I metodi cambiano dunque, sebbene la sostanza resti spesso immutata; in ogni caso perdere la pazienza non è mai stata né sarà una buona idea.
di Francesco D’Isa e Matteo Salimbeni, tratto da Forse non tutti sanno che a Firenze… Newton Compton, 2015.
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