I giorni dell’ira nello Yorkshire. Red riding, di David Peace.


Una lettura di Red Riding Quartet, il ciclo di romanzi di David Peace.


Di Filippo Polenchi

Ouverture: la pioggia, lo Yorkshire, le pinte, il whisky, la puzza di whisky negli aliti tiepidi di poliziotti marci, le strade, la durezza dello Yorkshire, le maschere da Cane di paglia, Leeds, maledetto Leeds, i saliscendi per le Moors, le rappresaglie, fuochi nella notte, fango, sangue, botte, lividi, lividi indelebili sulle nocche, la tortura d’istituto e quella segreta, i sotterranei, la miniera, angeli, cigni, draghi, visioni che non si cancellano dalla mente, il Circolo della stampa, chiodi, il fumo delle mille sigarette accese da Eddie Dunford, tradimenti, la feroce passione di Bob Fraser, l’amore che diventa male, l’amore sconfinato e puro, oscenamente innocente, madri senza figli, figli senza madre, padri dello Yorkshire, il Nord, «dove facciamo quello che ci pare».

È più di un romanzo di romanzi, di un’opera epica – come si dice generalmente di opere così sconfinate, ma spesso a torto – di una saga noir, che cancella le proprie mani nella gelida e tetra pioggia del Nord.

Red riding quartet, che ora Il Saggiatore fa uscire in una sorta di cofanetto, in edizione riunita, in un ponderoso e immane fascicolo (anche per stazza), originariamente uscì tra il 1999 e il 2002 e in Italia per Meridiano Zero e Marco Tropea Editore. Nel 2009 sull’emittente televisiva inglese Channel4 furono trasmessi tre film (Red riding trilogy) con tre registi diversi, traduzione in immagini la fantasmagoria letteraria di Peace.

«All’inferno in una macchina rubata, tutti i semafori rossi, il mondo perso come noi.
Nel sogno ero seduto su un divano, in una stanza. Un bel divano a tre posti.
In una bella stanza rosa.
Ma non dormo, sono sveglio.

All’inferno» (p. 465)

Il quartet arriva quindi ora nella sua compattezza editoriale, con la traduzione di Giuliana Zeuli e Marco Pensante, come monolite dinamico che turba i sogni dei lettori e le veglie, laddove il confine tra veglia e sonno si andrà affievolendo. Non esistono argini per resistere all’assedio di questi nightmares miserabili e inimmaginabili. Quando la soglia dell’orrore sembrerà tracciata accadrà qualcosa che la spingerà sempre più in avanti, perché «non finisce mai questa merda».

1974.
1977.
1980.
1983.

Sono questi i titoli dei quattro romanzi, che oggi si leggono come titoli delle quattro macro-sezioni di un unico romanzo, allo stesso modo per cui le varie «parti» di 2666 di Bolaño si leggono come segmenti di un’unica opera.

Sulle fascette o nei lanci d’agenzia troverete scritto che David Peace racconta i delitti dello Squartatore dello Yorkshire, ma questo è solo parzialmente vero: sono due semicerchi, concentrici, quelli che coprono l’arco narrativo di Red riding.

1974-1983: oggetto del racconto sono i terribili e struggenti rapimenti di bambine nel West Yorkshire (a Wakefield soprattutto).

1977-1980: la scena è urbana, sporca, maledettamente noir e tutta incentrata sulle gesta sanguinarie dello Squartatore dello Yorkshire.

Ma tout se tient, naturalmente. Cunicoli einsteniani scavano il materiale ferroso delle rocce sotterranee, attraversano le vie del rimosso per allacciare relazioni fra tutti e quattro le facce del prisma.

Un quartetto pieno di pathos, di sangue, di dolcezza e di violenza senza precedenti, dolente di sconfitta, di fatalità: non ci si può sottrarre al destino, soprattutto se si abita questa terra plumbea e acquitrinosa, proscenio perfetto per una tregenda. Una polifonia sublime, un’adunanza di voci e spettri irrompe nel fraseggio di volta in volta rutilante, duro, lirico, sincopato e sempre, sempre percussivo.

1974: chi parla è Eddie Dunford, giornalista dello Yorkshire Post che ritorna al Nord dopo la morte del padre. La piccola Clare Kemplay è appena scomparsa, ma a Eddie i conti non tornano e traccia una relazione (e molto altro) fra quest’ultima sparizione e il rapimento di altre due bambine: Jeanette Garland e Susan Ridyard. Questa ‘parte’ ha una velocità folle, un’accelerazione continua e costante che sembra impossibile. Squarci di tenerezza e di amore crudele avvampano il dannato Natale del ’74.

1977: si alternano le voci di Bob Fraser, poliziotto invischiato in una pericolosa relazione extra-coniugale con una prostituta, la venerea Janice, e quella di Jack Whitehead, acerrimo nemico di Eddie nella prima parte. Qui i percorsi di caduta sono apparentemente simili, ma inversi: Bob Fraser (anche lui compare già in 1974: è l’unico poliziotto alleato di Eddie) precipita in una spirale senza fine, mentre Jack viene già da un inferno. Jack aspira alla liberazione.

1980: è Peter Hunter, di Manchester, il narratore/cacciatore. Hunter e la sua doppia missione, lui, il «santo stronzo», che deve inchiodare lo Squartatore e indagare sulla sospetta corruzione che sfama gli sbirri del Nord. Probabilmente questo episodio è il vertice dell’intera opera. È la bradicardia del muscolo narrativo: il sussulto estremo, illusorio, inefficace. Qui l’ossessione si fa sistematica, qui le ripetizioni formali di Peace divengono spettacolari.

1983: prendono la parola l’avvocato John Piggot, Maurice Jobson, «sovrintende capo», detto il Gufo «per gli occhiali» e BJ, «il sopravvissuto». La resa dei conti è un infinito canto di menzogne, morte, lacrime, fughe, sangue e rivelazioni.

Il congegno narrativo è prodigioso e lineare. La ricerca storica che soggiace a questi libri è pari a quella di un altro grande autore della contemporaneità: William T. Vollman. Ma a fare la differenza c’è lui, lo stile di Peace, che si svincola dal formalismo per farsi pura ricerca e(ste)tica.

«Lì su quel treno, quel treno di lacrime che avanzava a passo d’uomo verso  quegli inferni spogli, quei piccoli inferni spogli, quei piccoli inferni spogli decorati da tanti campanellini minuscoli, lì su quel treno ascoltai i campanellini che suonavano, annunciando la fine del mondo:
1977.
Il 1977, l’anno in cui il mondo si sfasciò.
Il mio mondo» (p. 575)

Uno stile ossessivo, replicante. Lo scrittore utilizza – in un climax che s’intensifica man mano che ci addentriamo nelle ‘parti’ del romanzo, fino a raggiungere il parossismo – la ripetizione con funziona epistemologica. Il programma etico aderisce a una pratica religiosa. Si ripete la litania come un esercizio spirituale. Si ripete la formula mnemonica finché il dio, pascalianamente, non comparirà. Non a caso ciascun romanzo-sezione è aperto da una «supplica» o una «implorazione». Quale dio invoca questa voce martellante, che replica inserti di testo con progressione geometrica? Forse un «Cristo Abbandonato», per la cui effige un ambiguo sacerdote compie esorcismi cruenti?

Con quale crescendo ossessivo Eddie e poi Bob e Jack e Peter e John e BJ e Maurice e tutti, tutti i personaggi perduti, sommersi, umiliati, disgregati, tutti i bambini che scompaiono, tutti i ritrovamenti d’apnea nelle discariche, tutta l’infame violenza e ingiustizia alla quale sono sottoposti gli inermi, le vittime designate, tutti i capri espiatori dei quali l’Inghilterra neoliberista della Iron Lady ha bisogno come carne da bancofrigo, con quale crescendo ossessivo tutti questi personaggi sprofondano nella follia? Nell’eccesso, nell’errore.

«Sei steso supino, nel tuo appartamento…
Ad ascoltare i rami degli alberi che battono contro la finestra;
Lo sanno tutti; lo sanno tutti; lo sanno tutti…
Ascolti i rami degli alberi che battono;
Lo sanno tutti; lo sanno tutti; lo sanno tutti…
Ascolti i rami degli alberi che battono contro;
Lo sanno tutti; lo sanno tutti; lo sanno tutti…
Ascolti i rami degli alberi che battono contro la ferita» (p. 1403)

Sintagmi che ritornano a distanza di alcune frasi, che si completano, che si aggiornano, scene che si ripetono con le stesse identiche formule. Si vedano gli interrogatori nel «Ventre», un sotterraneo di polizia, una caverna di controllo e supplizio: in almeno tre occasioni ci sono le stesse azioni, le stesse intimidazioni, le stesse minacce, la stessa modalità di tortura basata sulla paura. Liturgia della paura.

«Sono sveglio, sudato e impaurito, gli occhi fissi al soffitto, niente macchine per
le strade.
Ho di nuovo paura…
Niente più dormire, niente più dormire, niente più dormire…» (p. 797)

Il racconto di paura e violenza è un racconto di fondazione. Mitologia di una nazione fondata sull’odio e che raggiunge l’acme naturalmente in 1983, l’apice sentimentale, devastante, brutale dell’intera tetralogia. È qui che i nastri si riavvolgono, è qui che emergono dalle primitive tenebre di un orrore senza ragioni, le fluorescenze di una terra «marcia, non pulita», come un cimitero indiano sul quale sono costruiti palazzi maledetti, vedi l’Overlook Hotel di Shining. È qui che la terra generatrice di miseria e di Male dà senso alle parole kinghianamente rovesciate pronunciate nella schiuma di un delirio, presso il manicomio di Stanley Royd, «la Gabbia, la Gabbia dei Matti, la Casa dei Folli, la Fattoria degli Svitati».

«Etrom id acirbbaf» (Fabbrica di morte).  

Ma si sbaglia chi vede in Peace un erede di Ellroy o di un cantore mitologico della civiltà malata. Giuseppe Genna ha afferrato perfettamente la questione vedendo nella matrice morale di Ellroy una filiazione impossibile con l’altra matrice di Peace, invece kafkiana.

«Ma la porta rimane chiusa, le tende tirate, la loro bambina non si vede, la pioggia continua a battere sugli scheletri delle villette in costruzione, con i teloni cerati che sventolano nella brezza, a guardare le file di sagome scure che risalgono le colline con i manganelli e lo sguardo rivolto a terra, i cani poliziotto silenziosi che si chiamano Nigger e Shep, Ringo e Sambo, l’ambulanza bianca in fondo alla strada che riparte vuota e silenziosa, la bambina non tornerà mai più né col bel tempo né col cattivo tempo, la porta resta chiusa, le tende tirate a bloccare la luce del sole, aperte sulla luna…» (p. 1125)

L’impressione che si ha leggendo questo libro immenso è che lo sguardo di David Peace fissi attonito il momento archetipico di una tragedia primitiva, quando il caprone (il tràgos da cui tragedia appunto) veniva scannato. Il coro cantava, vestiva le maschere. Il folle teatro di Artaud, ispirandosi a quello balinese, prevedeva che ogni personaggio sulla scena fosse seguito dal suo doppio. Tutte le ombre di Red riding infuriano nella cassa ecoica del Libro, nella sua definitiva natura di testo aperto. C’è una sorta di autodeterminazione, a pagina 657, quando in 1980 irrompe un commovente catalogo di fantasmi:

«eco prova trasmissione numero uno la cronaca per radioamatori di una mostra delle atrocità uscita dalle ombre fuori dal fascio di luce dei riflettori».

Questo è il corpo mutante di 1974, 1977, 1980 e 1983: una registrazione hughiana di spettri captati nel rumore bianco dentro il quale chi sa si nasconde. «Vidi sua moglie che cuciva i costumi da angelo, un bacio e via, così passava tutto» (p. 303). È una voce flebile, che s’interrompe di continuo, però non si arresta mai. Un sibilo, appena udibile, che proviene da un’oscurità ctonia dipinta d’azzurro, come un cielo nel quale draghi sbranano angeli.

Un filo trasparente che parla di noi, dell’abisso del nostro cuore, del nostro odio verso l’estraneo: gli zingari, i polacchi, chi viene da altrove.
«L’odio inchiodato alle ombre del tuo cuore…
La paura cucita nel tuo lardo di ciccione…
Odio e paura, paura e odio…
Metti insieme odio e paura e paura e odio…
Li metti insieme e hai…
Il Regno del Male.
La chiave che hai in tasca…
La chiave del Regno…» (p. 1452)

Peace non usa il parterre dei generi ‘neri’ per sfondare membrane percettive. Il grappolo di noir, thriller, gialli, storie di inseguimenti e serial killer non servono per dire altro, com’era nei progetti delle letterature anni Novanta. No, a lui non interessa questo generico meta-linguismo, questa meta-narrativa. Peace intravede dentro il genere un nucleo luminescente sul quale si può insistere, come se fosse una nota sola da tenere per 1500 pagine. E in fondo cos’è questo poema sacro – dove dentro tutto trova cittadinanza: Dante («La fede è sostanza di cose sperate e argomento di cose non viste»), William Blake, Cappuccetto Rosso (Red riding appunto), il Lupo, l’IRA, i Clash, l’odio politico che trafigge l’Inghilterra al tempo dell’ascesa di Margaret Thatcher – cos’è se non un basso continuo che picchia sulla stessa nota? Sembra di ascoltare gli Spacemen 3 quando si leggono i delitti dello Yorkshire, l’orrore dello Yorkshire, l’epifania nera del cosmo.

Tutti perdono, è vero: ma tutti confessano. C’è una disponibilità alla confessione che rende evidente la distanza peaciana dai noir classici ed è appunto la facilità di alcune conclusioni: le visioni di Eddie Dunford, così rivelatrici, così disponibili alla comprensione, i sospettati che parlano, le teste che annuiscono siglando una verità che non potrebbe essere detta più chiaramente.

Il punto bollente di questa interrogazione agostiniana sul male e sul tempo non è antropico, ma galattico: è l’afflizione del tempo e dell’universo sulla fragile carne dell’uomo che leggiamo. È la battaglia dell’uomo con questa sofferenza sterminata.

«Bocca aperta contorta che urlava e ululava da sottoterra…
Contorta che urlava e ululava da sottoterra…
Che urlava e ululava da sottoterra…
Da sottoterra…
Da sottoterra, mentre loro ti uccidono…
Hanno ucciso te:
L’Ultimo Uomo dello Yorkshire» (p. 1127)

Da anni David Peace vive in Giappone e dalla sua spelonca scrive i suoi romanzi. Finora si è imposto a un pubblico di lettori più ampio grazie a Il maledetto United (Il Saggiatore, 2010), dal quale è stato tratto un film. Anche Red or dead (Il Saggiatore, 2014) parla di calcio e assoggetta a una folle ripetizione la materia essa stessa ripetitiva dei rituali calcistici e del loro allenatore Bill Shankly. Fantasmi (Fantasma è la sua più recente raccolta di racconti) e assassini tornano nella trilogia giapponese su Tokyo, nella quale le vendemmie di sangue trovano ambientazione nel Giappone degli anni Quaranta, al tempo dell’occupazione americana.

Perdizione e purificazione. Caduta. Tutti i suoi personaggi perdono, sono sconfitti, cadono e si rovinano per sempre. I più fortunati ne escono lobotomizzati. Sebbene il principio meccanico del noir sia esso stesso una caduta a spirale, una reazione a catena a partire da un innesco molto basico (denaro, sesso ecc.) qui chi cade non è il protagonista. Anzi, semmai è vero il contrario. La tragedia nasce dall’agnizione che ricevono i protagonisti, dalla loro elevazione: angeli martoriati, purificati. Gli eroi del Libro vivono in transizione tra due inferni, ma in quell’interstizio numinoso ricevono il bacio velenoso della luce. Anche John Piggot, il più pigro e meno ambizioso dei protagonisti, è abbagliato dalla metafisica sporca dello Yorkshire.

Il Giappone così, lungi da fornire un esotismo biografico un po’ chic, è peculiare alla scrittura stessa di Peace. La catabasi di Red riding rompe un guscio monocromatico, grigio come la pioggia sotto Natale, per cercare una via d’uscita. Una luce che abbaglia e acceca i personaggi eletti che non possono sostenerla. Vengono così dalla tradizione del Bhagavadgītā e di altri testi sacri orientali la necessità della liberazione, la ciclicità degli eventi, l’infinita e inafferrabile concatenazione di danni che si trasmettono di vita in vita, attraverso reincarnazioni guaste. «Non finisce mai», appunto.

Infatti, c’è un’afflizione sanguinaria nel macro-testo. Le torture che subiscono quasi tutti i personaggi sono accanimenti di una souffrance tanto assurdamente tenace quanto necessaria. C’è un senso di passaggio, di transeunte che dilania il corpo mentre le anime continuano a parlare, come nel mahleriano «coro dei bambini morti» o nelle frequenze radiofoniche ectoplasmatiche attraverso le quali i morti parlano, in un’ecolalia che rimbalza sulle parole del loro carnefice.

Finale. Ali di angelo, tutte le ali sulla schiena, bruciacchiate e mutilate, rotte; gli specchi, le notti nei motel, il Redbeck, le sue stanze morte, le fotografie, le nottate distesi sulla moquette, le tumefazioni, il sangue, le lacrime, tutte le lacrime versate, il silenzio, bambini che scompaiono nei furgoni, le «ossa bianche» dei lavori edili, le ali, il sangue, le lettere scritte sull’acqua.


Filippo Polenchi (1982) fino a trent’anni ha vissuto una vita semplice, ritirata. Poi ha buttato tutto all’aria per un paio di anni, nei quali ha vissuto un inverno da eremita, ha inseguito (senza trovarle) stazioni di benzina macedoni, ha trovato l’amore, ha fatto lavori ignobili, ha trovato quel che non cercava. Ora fa una vita semplice, ritirata; fra le altre cose lavora nell’editoria, collabora con riviste on-line e cartacee (su tutti: «Alfabeta2» e «L’indice dei libri del mese», «Le parole e le cose», cura il blog «Coselli» di Barta Edizioni) ed è felice.

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