Da alcuni dettagli e descrizioni presenti nei romanzi che leggiamo – sia quelli del passato che i più recenti – possiamo farci un’idea piuttosto precisa sugli stereotipi femminili. Ed è un esercizio utile. Qualche appunto.
In copertina e nel testo donne rappresentate in epoca medievale
di Gaia Giorgi
Dissolve la grossolanità del corpo, spiritualizza la personalità, espande la consapevolezza: così Susan Sontag analizza le conseguenze corporee di aver contratto la tubercolosi. La malattia divenne presto un orpello da esibire, come una spilla logora ricevuta per il merito: l’estrema magrezza, il pallore consunto, la delicata morte in solitudine erano qualcosa a cui ambire, per gli uomini romantici dell’Ottocento. Mi chiedo se ci sia una connessione tra ciò che teorizzava Sontag e la magrezza – mai esibita, ma in maniera periferica onnipresente – nei romanzi di oggi.
“Non ha mangiato a colazione e pranzo oggi”, “il suo appetito è scarso quest’estate”, scrive Sally Rooney a proposito di Marianne, protagonista di Persone Normali, uscito per Einaudi nel 2019. Quando ho ripreso in mano Anna Karenina, ho provato uno strano istante dissociativo nella lettura delle braccia floride della protagonista, di certo imputabili a un contesto socio culturale assai diverso dal nostro.
Emma Bovary era ricca e annoiata, proprio come la protagonista senza nome de Il mio anno di riposo e oblio (Ottessa Moshfegh, trad. ita di Gioia Guerzoni, Feltrinelli, 2020), ma laddove Emma collezionava indebitandosi vestaglie di seta, scialli, corsetti, la bionda assume per accumulazione Neuroproxin, Maxiphenphen, Valdignore e Silencio, Seconols o Nembutals, Valiums, Libriums, Placidyls, Noctecs, Miltowns – inutile provare a tentare di trovare i primi quattro, essendo farmaci di finzione: ciò preannuncia la totale inattendibilità della protagonista. La patina opprimente che pervade l’annoiata cittadina della provincia francese sembra stridere con la New York degli inizi Duemila, ma si tratta di un perfetto rispecchiamento di, in realtà, quello che all’epoca doveva apparire come il migliore dei mondi possibili. Se Emma e Anna scelgono l’arsenico e i binari ferroviari per tamponare il desiderio del desiderio, impossibile da realizzare in quanto sposate non per amore ma per calcolo, secoli dopo le protagoniste di nuove narrazioni decidono di perseverare in altrettante scelte infelici. Se la letteratura agiva come un’anamorfosi, in cui attraverso precisi tecnicismi un lettore riusciva a immergersi in un’altra coscienza, ora vedo solamente una lastra ai raggi x di un certo tipo di donna, etero, attraente ma non di quella bellezza che si tramuta in eccessiva sicurezza di sé, dai comportamenti delicatamente autodistruttivi. La consapevolezza di sé e del proprio intelletto permette alla donna di elevarsi, di dissociarsi da eccessive esperienze traumatiche, riuscendo ad analizzare la realtà che la circonda, in maniera a volte caricaturale.
Le mail scambiate tra le Alice e Eileen, protagoniste di Dove sei, mondo bello (Sally Rooney, trad. ita di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2022), le ho trovate da un lato qualcosa di estremamente rilassante, che riempiva la mia mente senza eccessivo sforzo, dall’altro percepivo una sorta di fastidio, come quando un parrucchiere, mentre ti lava i capelli, te li massaggia un po’ troppo duramente, premendo con le dita sulla nuca. Se l’insoddisfazione di vedere realizzate le proprie aspirazioni nutrite da eroine letterarie porta Emma a ingerire veleno, l’insofferenza provata da Alice nel vedere una moltitudine di cibi preconfezionati, chiusi in involucri, la costringe a scrivere in una mail in cui afferma di essersi quasi sentita male di fronte a questo scempio di accumulazione e sfruttamento. Le donne nel romanzo sembrano mancare di corporeità, come se fluttuassero nella loro magrezza, i loro fisici vengono caratterizzati da aggettivi come magro, pallido, sottile – leggendo ho provato la sensazione che i miei organi interni tentassero di ridurre lo spazio nel mio corpo.
La percezione di un corpo vivo e pulsante avviene attraverso la lettura di Atti di Sottomissione di Megan Dolan, pubblicato nel 2021 da NN Editore (trad. ita di Tiziana Lo Porto): la protagonista si innamora di un uomo alto, bello e disinteressato. La narratrice instaura con il lettore una conversazione sotterranea, in cui sembra anticipare ciò che l’altro potrà pensare: “nella mia vita, sarei felice di provare per una volta un desiderio che sono sicura sia solo mio e che non c’entri niente con gli uomini, con quello che è successo in passato con gli uomini, con quello che dicono di me e del mio corpo”. Mentre i personaggi di Rooney assomigliano più a delle statue, la protagonista di Nolan appare come un animale posto al centro di uno studio crudele, portato avanti dagli altri e soprattutto da sé stessa. Il suo desiderio di provare amore, assai simile al picco di euforia dopo aver bevuto alcolici, è un grumo incandescente. L’onestà con cui afferma il pattern ripetitivo di una relazione tossica – tutte le relazioni tossiche si somigliano, ogni relazione tossica è infelice a modo suo – e i tentativi di capire e conoscere il desiderio, un desiderio sempre mediato da una figura maschile: come afferma Katherine Engel in questa intervista per Il Tascabile: “le ragazze e le giovani donne hanno potere sugli uomini perché sono distruttibili, perché possono essere ferite, schiacciate. E quanto di questo desiderio è legato a distruggere le parti di sé che si odiano.”
-->Potrei pensare a prolifiche dipanazioni di relazioni sentimentali, al rapporto con l’involucro che chiamiamo corpo, mio, di altre donne che conosco e di innumerevoli che non conosco; mi risulta importante parlarne ora, di questa zona di conflitto, ché difficilmente verrà analizzata e postata in un’infografica Instagram rosa pastello. Le attiviste sulla nota piattaforma, infatti, ci esortano per lo più a dover essere più femministe e con fatica s’insinueranno in queste zone di confine. Appare molto più facile occuparsi della notizia del giorno, come la frase sessista di una celebrità, o esporre in un’infografica quanto sia importante occuparsi della propria salute mentale, apparendo così sugli schermi altrui sia relatable che una figura a cui aspirare. Dubito fortemente che dei riquadri colorati possano allenare il pensiero critico: non ho mai visto nessun post (per mia fortuna) su come alcune donne, dopo aver subito violenza, sperimentino comportamenti promiscui. Questi comportamenti, almeno online, non vanno ostracizzati: il sesso è bello, incoraggiamo l’onda sex positive magari con la vendita di sex toys viola. Se sullo schermo del nostro telefono troviamo donne che ci dicono che non dovremmo accettare la violenza verbale da nostri potenziali partner, nelle pagine dei libri abbiamo donne che si piegano ad essa silenziosamente, come in preghiera. Mi sembra che l’errore sia sempre lo stesso: l’appiattimento della narrativa del femminile a un modello unico. Come scrive splendidamente Katherine Angel in Il sesso che verrà (Blackie Edizioni, 2022): “Il nostro desiderio emerge nell’interazione; non sempre sappiamo cosa vogliamo, a volte scopriamo cose che non sapevamo di desiderare, a volte scopriamo cosa desideriamo solo nel processo. […] Il desiderio non esiste mai in isolamento. E questo è anche ciò che rende il sesso potenzialmente eccitante, ricco e significativo”.
Il romanzo di Nolan appare luminoso proprio perché la protagonista non si afferma come vittima all’interno della narrazione, ma tenta di comprendere la sua rappresentazione, cercando faticosamente di capire cosa desidera. Un riposizionamento che include la messa in discussione del sé è un invito alla responsabilità: come scrive Elisa Cuter a proposito di Handsmaid’ Tales: “Come ne La passione di Mel Gibson, il calvario è la via necessaria per la redenzione, la salvezza, e, non da ultimo, l’ammirazione, l’empatia e l’identificazione del pubblico. Sei una vittima, ergo senza macchia e senza peccato. Rendere la sofferenza un alibi o pensare che nobiliti qualcuno o qualcosa, è il peggior disservizio che si possa fare alle vittime”. Nel nuovo romanzo di Sally Rooney, una delle due protagoniste, Alice, giovane scrittrice affermata reduce da un crollo psicologico, instaura una relazione con Felix, giovane uomo, persona normale, lavoratore presso un magazzino inquietantemente simile ad Amazon.
Un giorno, lei utilizza il cellulare di lui per una ricerca: l’ultima pagina visitata è un sito porno, in cui il nostro protagonista ha evidentemente fantasie sessuali che coinvolgono la dominazione. Alice reagisce con immotivata crudeltà (“Non invidio nessuno che debba denigrarsi per soldi”), salvo poi ricredersi quando, poche ore dopo, Felix la disturba nel cuore della notte per mostrarle il video di un orsetto lavatore. Entrambi sono bisessuali, benché questo venga vagamente accennato dall’autrice, come una strizzata d’occhio: veloce come la rapida disgregazione dello strano mangime che diamo ai pesci. Alice è una persona celebrale, tenta di comprendere il mondo attraverso l’intelletto, dunque, per sillogismo, si approccia al sesso con un piglio intellettuale: in una delle mail scambiate con la sua amica Eileen, si lamenta della scarsità di offerta di theory sulla sessualità: “Vorrei che esistesse una teoria della sessualità come si deve, e poterla leggere”, mi ricorda qualche spaesato utente di Twitter quattordicenne. Siamo proprio sicuri che nessuno ne abbia mai scritto, Alice?
C’è una citazione di un’altra opera definibile come romanzo millennial con una giovane e complessa protagonista che mi appare azzeccata: “Continui a descriverti come una persona particolarmente disturbata, quando gran parte di queste cose sono normali. Credo che tu voglia sentirti speciale – ma va bene, chi non vuole esserlo – ma non ti concedi di essere speciale in modo buono, e allora ti consideri speciale in modo cattivo” (Naoise Dolan, Tempi Eccitanti, trad. ita a cura di Claudia Durastanti, Blu Atlantide, 2020), che potrebbe venire parafrasato come: dopo aver superato una determinata età, non c’è niente di esaltante nel considerarsi speciali – a maggior ragione se questa particolarità risiede nella sofferenza privata. Ora, non riesco a non provare fastidio e vergogna nel leggere di come queste figure letterarie femminili reiterano comportamenti autodistruttivi e crudeli: la disperazione, la passività, l’autocommiserazione, nella vita e nei rapporti. Questa rappresentazione viene esaltata come rivoluzionaria una donna egoista, bella e con una stabilità mentale vacillante – quando nella vita reale non ha nulla di liberatorio. La continua riproposizione di questa figura si situa a metà tra l’insidioso e l’ingenuo, e il bearsi di questo complesso personaggio femminile (il complex female character) depotenzia il prisma umano e la rappresentazione della donna. Soprattutto, tale fragilità sottintende che vi sia qualcuno che se ne prenda cura – e non c’è niente di meno innovativo.
Nel momento in cui, unendo i puntini di questa frammentazione, ti rappresenti come desperate, per definizione hai bisogno di qualcuno che ti salvi; c’è dunque qualcuno che, complice in questa posizione, si è sdebitato liberandoti. Un atto simile comporta un gioco di potere squilibrato. Questa rappresentazione è sminuente e deleteria, poiché conseguentemente il confine della tua autorità e del tuo raggio d’azione nel mondo verrà sancito, moderato e controllato da un Altro – quasi sempre un uomo.
Mi sembra che vi sia un sovraccarico di intensità tossica e letargica, passata a odiare il proprio corpo, il mondo circostante e le persone che lo compongono. Energia sprecata, poiché si presuppone che una persona che potenzialmente ha tutto dovrebbe apprezzare questo privilegio, invece di cercare continuamente di disfarsene.
L’amorale e capricciosa Catherine di Cime Tempestose muore e sotto forma di fantasma infesta la vita terrena del suo amato: l’assoluta, umida devozione la trascina lentamente alla follia. Ricordo bene come sottolineai il paragrafo in cui paragona il suo amore per Heathcliff “alle rocce sotto terra. Una fonte di scarsa gioia visibile, ma necessaria” (Emily Brontë, Cime Tempestose, traduzione italiana di Marta Barone, Bompiani, 2018). Era qualcosa a cui aspirare, durante l’adolescenza, un amore così assoluto e necessario. Offriva qualcosa che ci solleticava e inteneriva, come i documentari sulla vita di animali monogami, ancora più forte grazie agli splendidi e angolati toni cupi del romanzo. Oscuro come il luogo in cui nasce e cresce la protagonista di Nascita e morte della massaia della scrittrice Paola Masino, romanzo osteggiato dalla critica fascista e pubblicato per la prima volta nel 1945. La protagonista, una bambina senza nome, cresce polverosa in un baule colmo di ragnatele; il titolo ci prefigura già la sua sacra fine. Masino vuole analizzare, a proposito del dolore del soggetto donna, “che cosa vuol dire essere squarciati, manomessi”: la sensazione di lettura del romanzo è claustrofobica. La protagonista appare in antitesi rispetto a una Emma Bovary: se quest’ultima trabocca di illusioni e sentimenti irrealizzati e irrealizzabili, costruita a misura dello stesso sistema ideologico che la distrugge, la Massaia è rovesciata, disillusa e cinica. Soccombono lentamente, come soldati in una trincea, e la protagonista che accetta il suo destino di sposa diventa un automa nel letto coniugale. L’unico personaggio che nel romanzo le ispira tenerezza – o un briciolo di amore, spesso si confondono – è un uomo che appare, come un sogno o un incubo, che sembra un prolungamento dei pensieri della protagonista stessa. Una protagonista polverosa, amorale e riluttante: se l’avesse scritto nel 2022, a cosa si sarebbe piegata l’eroina di Masino?
L’amore nei romanzi sembra ancora essere un pianeta brillante, nella misura in cui Nabokov, tratteggiando l’incontro tragico di Anna e Vronskij, scrisse “La passione per Vronskij è un potentissimo riflettore che fa apparire il suo mondo di prima un paesaggio morto in un pianeta morto” (Lezioni di letteratura russa, Adelphi, 2021); il pianeta è ancora morto, ma non i personaggi che vivono al suo interno. È un amore bruciante come una fissione nucleare, che fa apparire il pianeta meno intollerabile. Un aspetto cruciale è che alcune personagge sembrano monodimensionali, più simili ai quaderni da colorare che s’incrociano nel reparto delle riviste del supermercato o in un’edicola: Problemi alimentari? Pessimo rapporto con la famiglia? Fascino discreto? Piccola cerchia di amici presentati come meno intelligenti e capaci? Non credo che nei romanzi ci siano temi più meritevoli di altri o tantomeno indegni di esplorazione, ma a volte sembra che per le donne etero ci siano solo due caselle possibili all’interno di una grande macro narrazione contemporanea.
Se da un lato, troviamo i video con sequenze di brevi fotogrammi di donne dai sorrisi posticci e dall’addome piatto che si svegliano alle sei per fare esercizi e bere un bicchiere colmo di liquido verde, dall’altro abbiamo donne – altrettanto magre, ma un magro artificioso, adolescenziale – disincantante ed egoiste che ergono l’amore alla massima prospettiva esistente, incolpando gli altri di azioni terribili, come la mancanza di empatia nei loro confronti.
Nel profondo del suo cuore, scriveva Flaubert a proposito di Madame Bovary, si aspettava che accadesse qualcosa. Quindi, cosa potremmo volere? Donne che inseguono il loro desiderio, che spesso non coincide con quel che dovremmo volere, la vulnerabilità che non presuppone passività, l’ironia e il cinismo senza autocommiserazione; rapporti tra donne geometrici e ambigui. Le relazioni sono tridimensionali e limitarci ad addentrarci nella coscienza di solo una di esse è limitante. Nutro speranze: annoto sul telefono le prossime uscite, gli screenshot prendono polvere, di solito, Servirsi di Lilian Fishman, Il profilo dell’altra di Irene Graziosi (entrambi in uscita per Edizioni E/O), La casa di marzapane di Jennifer Egan, Nessuno ne parla di Patricia Lockwood (entrambi in uscita per Mondadori). Vedremo.
Complimenti. Articolo preciso ed illuminante.