Cosa hanno in comune il film Gremlins e la scuola filosofica contemporanea detta OOO, “Object-Oriented Ontology”, ideata dal filosofo statunitense Graham Harman nei primi anni duemila?
IN COPERTINA e nel testo, Gremlins art, di Sianose
Questo testo è tratto da “Decentrare l’umano – Perché la Object-Oriented Ontology” a cura di Vincenzo Cuomo e Enrico Schirò. Ringraziamo Kaiak per la gentile concessione.
di Claudio Kulesko
Cute. Clever. Mischievous. Intelligent. Dangerous. Tagline promozionale di Gremlins, 1984
A crowded room, friends with tired eyes I’m hiding from you, and your soul of ice My god, I thought you were someone to rely on. Wham!, “Last Christmas”, 1984
Nell’estate del 1984, assieme a due pellicole, che di lì a poco, sarebbero divenute due capisaldi della storia del pop ‒ Ghostbusters e Indiana Jones e il tempio maledetto ‒ il pubblico statunitense fu graziato da una terza apparizione, di gran lunga meno “miracolosa”: Gremlins, di Joe Dante e Chris Columbus. A discapito del bassissimo livello qualitativo della sceneggiatura, della recitazione, della fotografia, della colonna sonora ‒ a discapito, insomma, di una generica, ineludibile, bruttezza ‒ il film registrò incassi da capogiro, andandosi a classificare come secondo film horror per incassi nella storia del cinema, subito dopo Scream. Non è facile comprendere cosa abbia scatenato un tale interesse da parte del pubblico, se non, appunto, la pura e folle demenzialità della pellicola. La scarna trama di Gremlins è incentrata sulle peripezie di un giovane ragazzo di provincia, Billy (personaggio anonimo e dai contorni vaghi, interpretato da Zach Galligan), e della sua ragazza, Kate Beringer (Phoebe Cates Kline): i due, loro malgrado, si ritrovano ad affrontare un’invasione di malevole creature magiche, i mogwai, nate e proliferate a partire dall’esemplare in loro possesso, il tenero Ghizmo, acquistato dal padre di Billy, Randall (Hoyt Axton), in un misterioso negozio di antiquariato cinese. Tutto quel che sappiano dei mogwai ‒ e, assai stranamente, tutto quello che gli stessi personaggi del film paiono sapere o intuire, senza mai interrogarsi oltre ‒ è che essi non devono in alcun modo essere bagnati, pena la nascita di altri mogwai (apparentemente più stupidi e più indisciplinati dell’originale); che la luce diretta ne ferisce la pelle e gli occhi; che sono terrorizzati dal fuoco; che sembrano avere un’affinità istintiva con la musica e con la televisione; ma, soprattutto, che non si deve mai dar loro da mangiare dopo mezzanotte. Nel corso del film, ovviamente, Ghizmo verrà accidentalmente bagnato, e i suoi “pargoli”, nati da una serie di orridi bozzoli, finiranno per ingozzarsi di junk food dopo l’orario consentito, trasformandosi nell’orda di mostruosi punk al centro della vicenda ‒ una vera e propria banda, capitanata da Stripe, il mogwai “maggiore”.
La storia non differisce molto dal paradigma stabilito da film successivi, quali Ghoulies (1984), Critters (1986), Munchies (1987) e Leprechaun (1993) ‒ spesso imitazioni o semplici cloni di Gremlins, ma anche, come nel caso di Ghoulies, veri e propri gemelli sfortunati. In ciascuno di questi film, i protagonisti si imbattono, in via del tutto casuale, in un artefatto o in un “veicolo” di un qualche tipo ‒ ambiguamente ritratto come un soggetto in attesa delle proprie vittime, piuttosto che come mero oggetto passivo ‒ finendo per sguinzagliare sul mondo una o più creature di piccole dimensioni e, tuttavia, sorprendentemente resilienti e pestifere. A uno sguardo più approfondito, ci si accorge di come questo tipo di narrazione rimandi essa stessa a una sorta di archetipo; proprio come l’artefatto, essa sarebbe in grado di agire in qualità di segno mediatore verso un male più antico. Il riferimento è alla figura del trickster ‒ personificata da entità divine e semi-divine quali Loki, Kokopelli, Anansi o il krampus: un outsider leggendario, descritto non come immediatamente malvagio, ma caratterizzato da un comportamento incontenibile, immorale, osceno e carico di perfidia.
Ciò che distingue Gremlins dalle pellicole a esso ispirate, tuttavia, è la stringente continuità tra le forze del bene (Ghizmo) e quelle del male (Stripe e i suoi fratelli). Di fatto, Ghizmo, il mogwai amichevole, appartiene alla medesima specie alla quale appartengono le creature che seminano il panico in città. Inoltre, trattandosi di creature che si riproducono per via bizzarramente asessuata, i mogwai possono essere per certi versi definiti un mogwai o, meglio ancora, la pluralità in costante differenziazione di una singola intelligenza sciame (o, più correttamente, di una “stupidità sciame”) ‒ di cui Ghizmo e tutti i mogwai amichevoli rappresenterebbero lo stadio “infantile” o, meglio, neotenico. Ancor più interessante è il fatto che, a differenza dei vari token nati da Gremlins, il ruolo di portale, ossia di veicolo per la banda selvaggia verso la nostra dimensione, sia giocato proprio dallo stesso Ghizmo, il primo mogwai che ci viene mostrato. In questo senso, è proprio Ghizmo ad essere l’artefatto, l’oggetto antico, enigmatico ed esotico, sprovvedutamente condotto all’interno del consesso civile moderno. La sua stessa esistenza, d’altronde, rende evidente la vera natura del trickster: una molteplicità caotica che irrompe dall’unità e dall’armonia, lacerandole; ma anche un buffone perturbante, incapace di porsi freno, che suscita la risata sino all’istante del rovesciamento ‒ ossia sino al momento della strage e dell’omicidio. Nel corso del film, non è difficile accorgersi di come i mogwai siano esattamente agli antipodi del detto “lo scherzo è bello finché dura poco” ‒ una caratteristica che li potrebbe accomunare a Loki che, nella mitologia scandinava, giunge a uccidere il dio Baldr per puro divertimento; ma anche ai krampus, che, nel corso delle processioni, si avventano sulla folla percuotendo gli uomini, terrorizzando i bambini e molestando le donne.
Le origini dei mogwai cinematografici, tuttavia, non rimandano unicamente ai trickster degli antichi miti. Ci si sarà accorti, finora, di come la parola “gremlin” non sia comparsa neppure una volta, se non proprio nel titolo del film, che sembrerebbe alludere a una sorta di “leggenda metropolitana” nata tra i reparti della Royal Air Force, in un periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale. Nel folklore, il gremlin (dall’old english “gremian“, traducibile in inglese come “to vex”, ossia “dar problemi” o “causare fastidio”), non sarebbe altro che un folletto, o uno spiritello dispettoso, dedito al sabotaggio di ogni genere di strumentazione; all’azione nociva di tale creatura sarebbero dovuti guasti, avarie, malfunzionamenti e piccoli incidenti. A rendere popolare questa figura furono, in un primo momento, i manifesti di sicurezza affissi tra i reparti della RAF, ritraenti le creature come degli gnomi dall’aspetto metallico, intenti a combinarne di tutti i colori; in un secondo tempo, tale figura divenne un vero e proprio classico grazie al racconto per ragazzi del 1943, The Gremlins, di Ronald Dahl. Nel film di Joe Dante, l’unico riferimento alla tradizione dei gremlin proviene dai deliri alcolici del vecchio Futterman (Dick Miller) che ‒ in una sorta di anticipazione o di momento epifanico ‒ suggerisce ai due protagonisti di stare “attenti agli stranieri”, giacché ficcherebbero «dei gremlin dentro agli aggeggi che producono…Gli stessi gremlin che facevano precipitare i nostri aerei durante la Grande Guerra…Ancora li spediscono qui da noi, dentro alle TV, nelle automobili, nelle radio che vi appiccicate alle orecchie, negli orologi da polso…Minuscoli gremlin verdi»1. Futterman, benché sin da subito presentato come un personaggio paranoico e dedito all’alcool, sembrerebbe incarnare una delle prospettive geo- politiche più diffuse negli USA degli anni ‘80: il red scare, il “terrore rosso”, perpetuamente accompagnato dagli incubi dello spionaggio, della guerra atomica e del complotto nel complotto ‒ alcuni dei topoi dominanti della cinematografia dell’epoca.
-->Il breve scambio tra Futterman e i protagonisti parrebbe gettare nuova luce sull’intera pellicola, che si tramuterebbe così, da commedia demenziale, a elaborata allegoria della questione della tecnica, per lo più sormontata dallo spettro della guerra fredda. Non a caso, Dante e Columbus preferiscono adottare, all’interno di tutto il film, il termine mogwai: una designazione niente affatto neutrale, anzi, alquanto profetica. Il mogwai, di fatto, è un entità appartenente al folklore cinese ‒ anziché a quello inglese o, come ci si sarebbe potuti aspettare, a quello russo; si tratterebbe, infatti, di spiriti maligni capaci di moltiplicarsi durante la stagione delle piogge ‒ ossia subito prima del periodo del raccolto, ossia dell’abbondanza. Tali creature sarebbero anime inquiete, impossibilitate a raggiungere il riposo eterno e mosse da un unico obiettivo: vendicarsi di quei familiari e di quei conoscenti che, in vita, li perseguitarono e li maltrattarono. È interessante notare, inoltre, come nella traduzione cinese della Bibbia il termine greco diabolos (“diavolo”, “demone”), sia stato tradotto esattamente come “mo-gui” (“spirito-maligno”), segnalando la natura molteplice e ontologicamente indefinita di entrambe le entità. Benché la sovrapposizione tra gremlin e mogwai sia una componente essenziale della trama del film (tale background, di fatto, spiegherebbe perché il padre di Billy sia stato in grado di procurarsi Ghizmo proprio in un negozio di antiquariato cinese), nonché alle radici del suo stesso senso storico, niente di tutto ciò viene menzionato all’interno del film; gli stessi personaggi non sembrano farsi alcuna domanda sulle origini e sulla natura di questi esseri misteriosi, rimanendo totalmente passivi al cospetto del caos e dell’anarchia dei quali essi si fanno portatori.
Nonostante le numerose approssimazioni e lo spirito goliardico, l’opera di Dante e Columbus può essere riletta come un fulgido esempio di post-modernismo critico. Da una parte, il mogwai è un’entità esotica, avulsa dalla tradizione occidentale, che rivela la propria presenza nei periodi di post- scarsità ‒ pur esistendo, in forma sopita, anche nelle fasi economiche più difficoltose; esso, inoltre, è definito dal suo essere uno spirito familiare desideroso di vendetta, ricadendo nel novero del perturbante freudiano (il familiare che, inaspettatamente, si fa inquietante e minaccioso). Dall’altra, il gremlin del folklore europeo manifesta la propria presenza attraverso malfunzionamenti di macchine e dispositivi, palesandosi come l’enigmatica sorgente di tutta una serie di catastrofi e micro-catastrofi. A suggellare il matrimonio di queste due figure vi è, infine, il concetto di trickster: il burlone demoniaco, al di là del bene e del male, radicalmente esterno alla sfera antropica, alieno ai bisogni e ai desideri degli esseri umani. Questi accostamenti raddoppiano la carica perturbante, focalizzando l’attenzione sui rovesciamenti ontologici prodotti dal glitch e dal guasto. Senza alcun preavviso, la macchina ‒ ciò che allevia la fatica umana, l’oggetto utile per eccellenza ‒ si rivolta contro il proprio padrone, quasi fosse mossa da una misteriosa volontà ostile: un’intenzionalità magica e inumana, occultata tra le pieghe di una mirabile rete di ingranaggi, microchip e componenti elettroniche. Non è neppure da sottovalutare lo stridente contrasto tra tradizione e iper-modernità di fronte al quale ci pongono le origini folkloristiche e magiche dei mogwai. Come vedremo, Dante sembra voler alludere a un’alienazione dell’occidente rispetto a se stesso, o, meglio, all’estraniamento, al divenire-esotico generato dall’oggetto tecnico ‒ definito, nel corso del sistema di produzione capitalista, dal suo essere “nuovo”, “di nuova generazione”, o comunque sempre più “avanzato” rispetto a un’umanità perennemente arretrata, incapace di stare al passo con i mutamenti accelerati della società. Il gremlin (la perfida “ombra” del tenero mogwai) diviene così sinonimo del cuore oscuro dell’oggetto tecnico, della sua natura di feticcio o artefatto, posto al di là della comprensione dell’essere umano ‒ qualcosa di potenzialmente ostile, costantemente sull’orlo del collasso.
Il concatenamento tecnologia-esotismo-sovrannaturale- guerra fredda, dal quale si dipanano le vicende del primo capitolo di Gremlins, risulta oggi estremamente attuale e pregno di significato. Questo vecchio film, avvolto da una folle aura demenziale e perversa, sembra oggi rivelarsi allo spettatore come un’opera dal valore artistico e speculativo di gran lunga superiore a quello che possedeva nel 1984.
At Dawn they Sleep
Tutto quel che può disfunzionare lo farà
Leggi di Murphy
L’idea che in ciascuna delle cose del mondo alberghi un imperscrutabile e irraggiungibile nucleo è alla base dell’“ontologia orientata agli oggetti” (OOO), ideata dal filosofo statunitense Graham Harman. Alle radici questo si manifesta da se stesso, lo chiamiamo utilizzabilità […] il solo guardare alle cose nel loro rispettivo “aspetto”, anche se acutissimo, non può scoprire l’utilizzabile» (Ivi, 92). In questo senso, ciascun ente-oggetto confluisce in un mondo di mezzi, laddove il martello entra in relazione di reciproca utilizzabilità con il chiodo, il legno e l’appendiabiti: «A rigor di termini, un mezzo isolato non “c’è”; l’essere del mezzo appartiene sempre alla totalità dei mezzi, all’interno della quale un mezzo può essere ciò che è […] Prima del singolo mezzo, è già sempre scoperta una totalità dei mezzi» (Ivi, 91). Ci è così dato il mondo dei mezzi, ossia il mondo delle cose che non sono soggetti, bensì enti “pronti alla mano”.
Ma cosa accade quando l’oggetto tecnico si rompe o diviene obsoleto? «L’ente immediatamente utilizzabile […] può risultare inidoneo, non adatto a un determinato impiego», scrive Heidegger, «uno strumento è guasto, un materiale inadatto […] In questa scoperta dell’inidoneità il mezzo ci sorprende. La sorpresa conferisce al mezzo una certa inutilizzabilità. Dal che deriva: ora il non-adoperabile è solo lì, si manifesta come cosa-mezzo che ha questo o quell’aspetto, e che anche nella sua utilizzabilità era già costantemente presente come siffatta» (Ivi, 96). E ancora, più avanti:
Quando ci si accorge della non-utilizzabilità, l’utilizzabile assume il mondo dell’importunità: quanto più urgente è il bisogno di ciò che manca, quanto più esso è effettivamente sentito nella sua non-utilizzabilità, tanto più importuno diventa l’utilizzabile […]. Il non utilizzabile può venire incontro non solo nell’esperienza dell’inidoneità o del puro e semplice mancare, ma anche come non utilizzabile che non manca e non è idoneo, ma che […] è “fra i piedi” come un ostacolo (Ivi, 97).
«I modi della sorpresa, dell’importunità e dell’impertinenza», conclude Heidegger, «hanno la funzione di far emergere nell’utilizzabile il carattere della semplice- presenza […] il mezzo diviene “mezzo” nel senso di ciò che si vorrebbe “togliere di mezzo”» (Ibidem).
Nel “farsi sentire”, ossia nel manifestare la propria presenza ‒ oltrepassando l’uso distratto da parte dell’umano ‒ il mezzo deve erompere dall’interno della propria natura di mezzo, interrompendo la routine e sabotando la rete di processi tecnici nella quale è coinvolto. Pochi passi oltre la linea dell’interruzione e dello “sciopero”, vi è l’istante in cui l’oggetto tecnico raccoglie tutte le proprie forze, per insorgere “esplosivamente” contro l’utilizzatore. Nel guasto e nell’incidente, di fatto, l’oggetto tecnico sorprende l’utilizzatore, mancando alla propria idoneità e sottraendosi impertinentemente al rapporto di fiducia instaurato con il proprietario. Tale manifestazione violenta può, come sappiamo, sfociare nella catastrofe, sarebbe a dire nella morte dell’utilizzatore (motivo per cui l’oggetto guasto o rotto deve essere necessariamente e urgentemente “tolto di mezzo”). Si comprende, pertanto, come l’antico diritto greco avesse potuto ritenere degni di giudizio e di sentenza persino gli oggetti inanimati macchiatisi di omicidio.
Nell’ontologia orientata agli oggetti, tale “riserva” ontologica che l’oggetto mantiene, anche in seguito al raggiungimento di una condizione di “inutilizzabilità”, diviene il fulcro della speculazione filosofica. Come mostra Heidegger in Essere e Tempo, l’oggetto pronto-alla-mano ci è ignoto dal punto di vista teorico; esso esiste puramente per- noi, in virtù della propria utilizzabilità, come un dato acquisito. D’altra parte, l’oggetto-rotto o inadeguato, essendo divenutoci “presente”, è per certi versi inconoscibile da un punto di vista pratico: avendo perso ogni connotazione esistenziale, esso è totalmente fuori contesto ‒ non possediamo più alcuna informazione sulla sua attuale pertinenza, giacché non ne possiede più alcuna (ed è anche in tale senso che esso può essere definito “impertinente”). In breve, quando usiamo non conosciamo; ci è sufficiente estendere il nostro corpo-mente nell’oggetto. All’inverso, quando conosciamo non usiamo, distinguendo il nostro corpo-mente dall’oggetto ‒ secondo il tradizionale schema soggetto-oggetto. Il limite della prassi e della teoria sta proprio dell’OOO vi è il concetto di “utilizzabilità”, elaborato da Martin Heidegger nella sua più celebre opera, Essere e Tempo (1927), per descrivere il mondo di oggetti tecnici dei quali l’essere umano fa quotidianamente uso. Proprio il termine “quotidianamente”, declinato in modi differenti da Heidegger e Harman, rappresenterebbe la chiave per comprendere l’insurrezione dell’oggetto tecnico, di cui la saga di Gremlins è allegoria. L’uso degli enti-oggetto che popolano il “mondo- ambiente” che abitiamo, di fatto, è a sua volta fondato sul nostro affidamento a questi stessi enti ‒ ossia sulla nostra fiducia acritica nei confronti della loro utilizzabilità. Scrive Heidegger: «Per aprire una porta faccio uso della maniglia. Il raggiungimento dell’accesso fenomenologico all’ente che così si incontra consiste […] nella rimozione delle tendenze interpretative» (Heidegger 1971, 90). Nell’uso, il soggetto sospende, ossia “mette tra parentesi”, la struttura e la connotazione epistemica di ciascun oggetto; l’oggetto diviene così un mezzo o, meglio, un “mezzo per”, pragmaticamente connotato dal proprio utilizzo concreto. Più avanti, Heidegger precisa come sia «il martellare a scoprire la specifica “usabilità” del martello; il modo di essere del mezzo, in cui in questa incapacità di incontrarsi per restituire un oggetto completo: l’oggetto si ritrae da qualsiasi prensione percettiva umana e da ogni tentativo di totalizzazione. Per la filosofia orientata agli oggetti, questo rapporto parziale è causato da una irriducibilità propria all’oggetto, piuttosto che dalle nostre modalità di accesso (il pensiero, la percezione sensibile, il linguaggio, la strumentazione scientifica o i rapporti sociali). Riguardando solo alcuni aspetti o alcune qualità di ciascun oggetto, le nostre “prensioni parziali” si scontrano con il nucleo oscuro dell’oggetto: l’oggetto “in-sé” o, come afferma Graham Harman, la “black box” (“scatola nera”) dell’oggetto. Ciò che un soggetto (un soggetto qualsiasi: un animale, una pianta, un robot o un extratterestre) pensa e percepisce non sono altro che le qualità dell’oggetto che gli si para dinanzi: il colore, la forma, l’odore, i suoni che esso emette. Pensando l’oggetto, pertanto, l’umano pensa l’agglomerato di qualità che abitualmente lo compongono o, alternativamente, le passa a rassegna una per una, analiticamente. L’oggetto-in-sé, tuttavia, si sottrae a ogni percezione e a ogni pensiero, tanto che le percezioni da esso causate possono essere a buon diritto definite “vicarie”, ossia mediate, piuttosto che dirette3. Neppure le conoscenze che potremmo ricavare da un accuratissimo studio dell’oggetto sarebbero in grado di restituirci l’oggetto nella sua “totalità”. «Anche se lo studiassimo per mezzo secolo, spendendoci le forze di una vita intera – magari con l’aiuto di avanzati super-computer o tramite un’epifania diretta, conferitaci dagli stessi angeli del cielo – la situazione non cambierebbe» (Harman 2011, 43). In breve, nessuna conoscenza è in grado di materializzarsi e prendere concretamente il posto di un qualche oggetto del mondo, come una sorta di clone speculativo.
Come alcuni critici hanno correttamente fatto notare, il concetto di black box, così come esso ci è presentato dall’ontologia orientata agli oggetti, non si presenterebbe tanto come un concetto ontologico (ossia riguardante l’esistenza delle cose del mondo), quanto come una dottrina epistemologica: essa, di fatto, sembrerebbe voler evidenziare i limiti dell’“accesso” umano nei confronti degli oggetti d’esperienza. Tale osservazione, d’altra parte, si fa più flebile laddove, nell’analisi dell’oggetto rotto, Harman ‒ facendo eco a Heidegger e rilanciandone la posta in gioco ‒ puntualizza che, nell’istante del guasto e del malfunzionamento, «l’utensile non è più configurabile come un lavoratore silenzioso; esso è emerso in quanto potere visibile» (Harman 2009, 8-9; corsivo mio). Il nucleo oscuro dell’oggetto tecnico appare sotto nuova luce dal momento in cui esso diviene sorgente di “agency” (agentività), ossia a sua volta soggetto agente o quasi-agente, trapelando dalle maglie della rappresentazione e dell’utilizzabilità umane. Tale manifestazione interruttiva è stata definita dalla teorica americana Jane Bennett “Thing-Power” (“potere-della- cosalità”): un atto performativo nel quale «gli oggetti appaiono più vividamente in quanto cose», ossia al di là della correlazione soggetto-oggetto, «sarebbe a dire, in quanto enti non interamente riducibili al contesto in cui i soggetti (umani) li hanno relegati» (Bennett 2004, 351). In tal senso, il potere- della-cosalità risiederebbe nella «curiosa abilità, propria alle cose inanimate, di animarsi, agire e produrre effetti tanto notevoli quanto minuti», nonché nel «potere della materialità non-umana di auto-organizzarsi» (Ivi, 352).
Nell’incidente ‒ che consente all’oggetto tecnico di erompere dall’ordine e dall’organizzazione, uscendo dal dominio umano ‒ le cose manifestano, a un grado superiore, la loro irriducibilità. Per dirla con Bruno Latour: «Come se una maledizione fosse stata lanciata sulle cose, esse dormono come i servitori di un castello incantato. Improvvisamente, liberate dall’incantesimo, le cose cominciano a tremare, stiracchiarsi e brontolare. Ben presto esse sciamano in tutte le direzioni, scuotendo gli altri attori umani, risvegliandoli dal loro sonno dogmatico» (Latour 2005, 73). Ciò che, tuttavia, Gremlins mostra allo spettatore, non è un panorama magico e pacificato (come il riferimento di Latour al classico La Bella e la Bestia sembrerebbe implicare), né un assemblaggio neo- vitalista (come nel caso del potere-della-cosalità di Bennett), ma un orizzonte tragico, in cui la “dromosfera” ‒ lo spazio planetario chiuso, dominato da una costante e vorticosa accelerazione ‒ diviene il luogo di una potenziale carneficina, senza alcuna possibilità di redenzione.
La chiave verso il cuore pulsante del primo capitolo di Gremlins è custodita nella presenza diffusa di oggetti tecnici “indisciplinati” all’interno del film: quando i due protagonisti incontrano Futterman, quest’ultimo è intento ad aggiustare (con scarso successo) il suo spazzaneve; il padre di Billy, Randy, ci viene presentato come un inventore di professione, benché tutti gli oggetti da lui creati siano ‒ per quanto visionari ‒ radicalmente sconclusionati e malfunzionanti; uno dei principali villain dei film, la perfida Mrs. Deagle, viene scagliata a tutta velocità da una finestra da un montascale sabotato dai gremlin. Lo scontro finale, inoltre, ha come scenario un supermercato, il luogo nel quale gli oggetti vengono tramutati in merci e introdotti nell’ambiente-mondo, nel quale si svolge quello che Heidegger denomina il “commercio” mondano. Questa scena sembrerebbe stridere contraddittoriamente con una delle scene precedenti: quella in cui i gremlin scoprono il cinema, rimanendo incantati dinanzi a Biancaneve e i sette nani, rinunciando temporaneamente al loro cieco flusso di devastazione. Tale bizzarro comportamento risuona nell’estrema affinità dei mogwai/gremlin con la musica e le immagini in movimento. In entrambe le loro forme, le creature parrebbero inclini a concentrare l’attenzione su film e cartoni animati, assorbendone rapidamente i topoi (o, meglio, i “tormentoni”), ma anche a manifestare il proprio stato d’animo attraverso il canto e la danza ‒ una tendenza che, in alcuni momenti della saga, sfocia nella messa in scena di veri e propri musical. Ciò che Dante e Columbus sembrerebbero voler suggerire è che solo l’arte sia in grado di redimere il nucleo oscuro dell’oggetto tecnico, rivelandone la natura infantilmente innocente e dispettosa ‒ un giudizio all’interno del quale potrebbe forse anche ricadere lo spassionato amore per l’errore, il tentativo e l’incompiutezza, di cui fa mostra l’artista-scienziato Randy. Si spiegherebbe così la chiosa finale di Mr. Wing, il proprietario del negozio di antiquariato che, come una sorta di deus ex machina, compare negli ultimi istanti del film per riprendersi Ghizmo, asserendo che: «L’occidente non è pronto per il dono dei Mogway». Come afferma Paul Virilio in La bomba informatica: «L’immaturità e l’infantilismo sono le categorie più efficaci per definire l’uomo moderno» (2000, 89-90); ed è proprio dalla miscela esplosiva di infantilismo umano e infantilismo tecnico che emerge la catastrofe, in quanto annullamento e cancellazione di ogni confine etico. La presa di responsabilità etica, d’altra parte, si concretizzerebbe nella costituzione di un nuovo rapporto di “cura”, nel quale l’oggetto tecnico non giocherebbe il ruolo di mero “delegato” di tutta una serie di processi di utilizzabilità, sempre più intensi e fluidi, tramutandosi al contrario in un ente dinamico, capace di convivere con (o, per dirla in termini heideggeriani, di “essere-con”) le proprie controparti umane. Da questo punto di vista, il mogwai si farebbe portatore di una prospettiva neo-animista, o forse panpsichista, dell’oggetto tecnico, ma al tempo stesso lucidamente razionale: il rapporto tra Billy e Ghizmo si è infranto nel momento in cui è venuta a mancare la cura, ossia l’attenzione e la dedizione che sole si attribuiscono a un soggetto proprio pari. Non a caso, la catastrofe ha inizio nel momento in cui, in un attimo di distrazione, un bicchiere d’acqua si rovescia sul povero Ghizmo, ormai divenuto non più fonte di meraviglia e curiosità ma semplice componente della struttura abitudinaria della vita quotidiana.
Symphony of Destruction
Il mondo pullula di persone (di gente, se si preferisce), ma ben poche di loro sono umane
Graham Harvey, Animist manifesto PROGREDIRE corrisponderebbe ad ACCELERARE!
Paul Virilio, L’incidente del futuro
L’ipotesi che quello dell’accelerazione tecno-economica sia uno dei temi cardine dell’opera di Dante ‒ nonché lo snodo concettuale tra quest’ultima e la filosofia dell’oggetto tecnico ‒ sembra farsi più concreta nel momento in cui ci si volge al secondo capitolo della saga, Gremlins 2 – The new batch (in italiano Gremlins 2 – La nuova stirpe). In questo sequel del 1990 ritroviamo Billy, Kate e Ghizmo a New York ‒ con un significativo spostamento dalla banale placidità della provincia, all’iper-complessità della metropoli. Scopriamo che Billy è divenuto un designer, mentre Kate ha trovato occupazione come guida turistica. Quel che più importa, tuttavia, è che sia Billy che Kate lavorano nel più grande e importante edificio della città, la Clamp Tower, di proprietà dell’imprenditore miliardario Daniel Clamp ‒ parodia di Donald Trump. Ancora una volta Dante ‒ stavolta affiancato da Chares Haas in qualità di sceneggiatore ‒ sembra aver intuito lo Zeitgeist prodotto dalla cultura del benessere, del divertimento e dell’imprenditoria del sé prodotta dal decennio precedente e che, di lì a poco, avrebbe dominato gli anni ‘90. La Clamp Tower, di fatto, sembra contenere in sé tutta l’America di quegli anni: un’intera società raccolta in un grattacielo-piramide ‒ con i negozi e i consumatori alla base e il CEO in cima.
In qualità di parodia, Clamp non corrisponde punto per punto a Trump, ma ne rappresenta una caricatura, una sorta di miscela tra persona e personaggio. Come affermato dallo stesso Dante: «In quegli anni, a New York City, c’era un solo personaggio importante che poteva essere, a buon diritto, definito Mr. Miliardi […] [Trump] era l’emblema di tutto quel che era accaduto negli anni ‘80, e di quello che stava accadendo nei ‘90, dell’avidità, del denaro, della maleducazione, [dell’idea che] l’intero pianeta fosse in vendita. E tuttavia, a quei tempi, sembrava ancora innocuo» (Dante 2016). Del proprio alter-ego, tuttavia, Clamp conserva la sfrenata ambizione e l’infantilismo cronico ‒ essendo, per il resto, contraddistinto da un’aura di innocenza e positività che finiscono per mascherarne l’effettiva pericolosità. «Era così gradevole, fanciullesco e naiv», dice Dante, «che cominciava a starci simpatico […] tuttavia, in Clamp, quella vena di sfrenata ambizione rimaneva intatta […] Era difficile non pensare che la politica, prima o poi, avrebbe fatto il suo ingresso nel futuro di un personaggio del genere» (Ibidem).
La vera differenza tra Trump e Clamp, in fondo, sta nel fatto che quest’ultimo viene ritratto da Dante e Haas come l’imprenditore ideale, ossia come un’“immagine simulacrale” del businnessman americano: un uomo privo di freni morali, un eterno fanciullo la cui magnanimità si propaga a cascata sull’intera società, un “vincente” a tutti gli effetti. Tale setting di pura astrazione teoretica consente a Dante di sbirciare nel futuro del capitalismo. In virtù delle sue doti imprenditoriali e della sua spietatezza, Clamp ha di fatto infranto il pluralismo di mercato, nonché quello politico, finendo per monopolizzare l’intera economia americana: non vi è settore che non sia di sua proprietà e la Clamp Corporation è arrivata a possedere addirittura ogni canale televisivo, dando vita alla più grande rete di programmazione via cavo del mondo. Ciascuna di queste attività è sorprendentemente contenuta all’interno della Clamp Tower: qui vengono girati tutte le trasmissioni televisive e tutti i film; qui i tecnici e i lavoratori cognitivi si occupano della manutenzione di un impero sul quale non sorge mai il sole; qui gli scienziati studiano le tecnologie del futuro. La Clamp Tower racchiude in sé l’intera società statunitense o, meglio, la sua rappresentazione ideologica ‒ una versione fantasmatica degli USA, per come appaiono nella maggior parte dei film dell’epoca e nelle opere della recente retrowave (si considerino, ad esempio, Flashdance e Stranger Things). Tale rappresentazione, tuttavia, è attraversata da crepe e fratture di ogni sorta: inservienti che si lamentano dei turni di lavoro massacranti, passanti incapaci di distinguere tra realtà e fantasia, abusi di potere, anziani attori depressi, celebrità alcolizzate ma, soprattutto, una impressionante panoplia di malfunzionamenti. Giungiamo infine all’elemento più rilevante della trama di Gremlins 2, esemplificato da tutta una serie di allusioni, disseminate all’interno del film: la Clamp Tower è così avanzata da essere totalmente gestita da un’intelligenza artificiale, la quale ha condotto alla piena automazione delle funzioni interne. Essa, tuttavia, sembra essere funestata da un gran numero di glitch e guasti: le porte scorrevoli si abbattono sugli sfortunati utenti ogni tre per due; gli ascensori si bloccano; le comunicazioni si interrompono; i sistemi di sicurezza non si attivano in tempo. L’habitat ideale per un’orda di gremlin scatenati.
La Torre si presenta come un sistema chiuso, mereologicamente composto da un insieme di oggetti tecnici; essa è, pertanto, compatibile con la definizione di “ambiente- mondo” data da Heidegger ‒ apparendo, anche sotto questo aspetto, come una sorta di microcosmo. I piccoli malfunzionamenti che la attraversano, tuttavia, sembrano presagire e sottolineare l’illusorietà di tale totalità ordinata, annunciandosi come gemiti, lamenti, scatti d’ira e convulsioni dell’intero apparato tecno-governamentale della torre. Nel suo Guerrilla Metaphysics, Graham Harman fa riferimento a questa miriade di piccoli tic e sommesse emissioni come a un oceano di “rumore nero” (black noise) ‒ in contrasto alla sovrapposizione indifferenziata del rumore bianco: «Non si tratta – scrive Harman – di un rumore bianco, pervaso da qualità caotiche e contraddittorie che chiedono di essere plasmate dalla mente umana ma, piuttosto, di un ovattato rumore nero, proveniente da quegli oggetti che orbitano agli estremi confini della nostra attenzione» (Harman 2005, 183). In Gremlins 2, tali manifestazioni ‒ alle volte innocue, alle volte violente ‒ si tramutano, a posteriori, in un presagio di sventura, che segnala la perturbante presenza trascendentale dei gremlin nel nucleo oscuro dell’apparato tecnico: l’orda preesiste all’incidente, essendo contenuta in stadio larvale all’interno del sistema di dispositivi ‒ nel medesimo senso in cui, già in fase di progettazione, l’invenzione di un oggetto tecnico corrisponde all’invenzione del suo corrispettivo incidente.
La proliferazione di interruzioni e disturbi all’interno della Torre sembrerebbe rimandare anche a tutta una serie di fenomeni “demoniaci” o di “infestazione”, rinominati nel corso dell’ultimo secolo come fenomeni “poltergeist”. Questo genere di disturbo sovrannaturale si verificherebbe, infatti, attraverso la distruzione improvvisa e insensata degli oggetti presenti all’interno di una stanza o di un edificio, ma anche tramite rumori, scricchioli, nonché anomalie negli elettrodomestici ‒ nel celebre film horror dell’82, Poltergeist, di fatto, uno dei veicoli spiritici è rappresentato proprio dalla televisione. Nel libro Sesto Senso (1972), di Hans Bender, (uno dei pilastri della parapsicologia), al capitolo eloquentemente intitolato “Un’infestazione dell’era tecnologica”, vengono descritti i “sintomi” e le evidenze di un fenomeno poltergeist:
Nel novembre del 1967, i giornali riferirono che nell’ufficio dell’avvocato Adam, a Rosenheim, si verificavano strani fenomeni: i tubi fluorescenti, fissati a un soffitto alto due metri e mezzo, si spegnevano continuamente. Gli elettricisti constatarono che si erano ruotati di 90 gradi nella loro montatura. Numerosi testimoni avevano udito dei violenti rumori di carattere esplosivo, le valvole di sicurezza si disinserivano da sole, senza alcuna ragione evidente; il liquido di sviluppo di un apparecchio fotocopiatore veniva ripetutamente versato; disturbi telefonici minacciavano di paralizzare l’attività dello studio (Bender 1974, 125-128).
Il poltergeist sembra aver raccolto, nel corso di un graduale processo mitopoietico, parte del retaggio del gremlin. In entrambi i casi, tuttavia, è evidente l’origine demoniaca, esemplificata dal “nascondimento” di un’entità ‒ al tempo stesso una e molteplice ‒ all’interno di un sistema ordinato, il quale viene disorganizzato e sventrato letteralmente dall’interno. Pur non essendo immediatamente visibili, tanto il gremlin quanto il poltergeist, sono dotati della capacità di farsi sentire e di manifestarsi, con crescente intensità, all’interno di un ambiente-mondo. Questa caratteristica fa sì che sia i gremlin che i poltergeist abbiano, a loro volta, alcuni punti di convergenza con quelle entità collettive denominate “sciami”. Scrive il filosofo Eugene Thacker: «[Il termine “sciame”] deriva dal sanscrito svárti, “emettere suoni” o, meglio, “risuonare”. Quest’ultimo significato ‒ “risuonare” ‒ significa qualcosa di più che emettere un suono, o causarne l’emissione. Piuttosto, risuonare significa innanzitutto produrre un effetto in grado di permeare. Nello specifico, questa capacità di permeazione è centrale nella descrizione degli sciami demoniaci […]. Gli sciami vengono avvertiti acusticamente ancor prima di essere visti»5 (Thaker 2007). Tale “permeazione sonica” di un ambiente-mondo ‒ precedente alla violenta irruzione sul piano visivo ‒ è indice di una serie di fratture che attraversano le nozioni umane di “natura” e “ordine naturale”: una serie di crepe e discrepanze che, come il rumore nero descritto da Harman, si effettuano ai confini estremi della nostra attenzione, finendo tuttavia, nell’istante supremo della catastrofe, per occupare e saturare tutto il campo visivo.
L’origine demoniaca dei gremlin e dei poltergeist mostra come la fiduciosa delega, che l’umano effettua nei confronti dell’apparato tecnico, sia fondata, in ultima battuta, sull’ancora più basilare fiducia nell’esistenza di un ordine naturale o di un ordine cosmico. Tale “benevolenza cosmica”, tuttavia, è confermata e ribadita dal funzionamento ininterrotto degli apparati tecnici che ci circondano, scrive Heidegger: «Nel mezzo usato è con-scoperta, attraverso l’uso, la “natura”: la “natura” alla luce dei prodotti naturali […] Di pari passo con la scoperta del “mondo ambiente” si ha anche la scoperta della “natura” […] Nel mondo pubblico […] è scoperta e resa accessibile a tutti la natura come mondo- ambiente» (Heidegger 1971, 93- 94). Il sovvertimento di tale equazione (natura = mondo-ambiente) avrebbe, dunque, un duplice portato onto-politico: da un lato, la trasformazione del mondo-ambiente in ambiente ostile avrebbe, come proprio risultato, l’indebolimento o il totale annichilimento del mondo pubblico (e, per certi versi, della “realtà consensuale” o “mondo condiviso”); dall’altro, la destabilizzazione del confine, normalmente fisso ‒ o quantomeno scarsamente elastico ‒ tra “naturale” e “innaturale”, “probabile” e “impossibile”, sfocerebbe in un’irruzione sulla scena del sovrannaturale (l’impossibile non naturale, per l’appunto), di cui sia il gremlin che il poltergeist sono rappresentanti eccellenti. L’esotismo radicale del gremlin, nonché il duro rimprovero all’occidente mosso, nel primo episodio, dal bizzarro Mr. Wing ‒ personaggio che sembra provenire da un tempo e da uno spazio remotissimi ‒ sembrerebbero radicati non tanto in una tradizione di ispirazione reazionaria o conservatrice, quanto in una tradizione esoterica, occulta, legata al disvelamento di un compito storico: l’Occidente non è ancora pronto per i mogwai ma, forse, un giorno, lo sarà.
Madhouse
Cinema is the ultimate pervert art. It doesn’t give you what you desire – it tells you how to desire Slavoj Zižek, The pervert’s guide to cinema, 2006
Come nel primo capitolo, anche in The New Batch il contrasto tra tradizione e modernità si pone all’origine delle vicende mostrate nel film ‒ un tema affrontato, stavolta, alla piena luce del sole. Dopo la morte di Mr. Wing ‒ fiero oppositore della modernità iper-tecnologica di Clamp ‒ è proprio la Clamp Corporation ad acquisire lo stabile, nonché il terreno sul quale esso sorge. Durante lo sgombero dell’edificio, destinato alla demolizione, gli scagnozzi di Clamp trovano Ghizmo, che verrà spedito nei laboratorio di biotecnologie della Clamp Tower ‒ diretto dal diabolico dottor Cushing Catheter (Christopher Lee), una sorta di novello Mengele, e dai suoi assistenti (due gemelli, per l’appunto). Con l’aiuto di Billy, Ghizmo ritrova la libertà, fino al fatidico momento in cui una fontanella automatica fuori controllo finirà col bagnarlo, dando vita a una nuova nidiata di gremlin ottusi e combina guai. Il gruppetto di gremlin, neanche a dirlo, si fionderà sulle tonnellate di junk food che la torre offre ai suoi visitatori, seminando il panico e trasformandosi nell’orda mostruosa che avevamo potuto ammirare nel primo episodio. Prima di avventarsi sul cibo, tuttavia, i nuovi nati avranno cura di imprigionare Ghizmo nei condotti di areazione del palazzo, quasi conservassero una sorta di memoria sovrannaturale, o di tipo genetico, degli eventi passati. È a questo punto che la trama subisce una brusca svolta rispetto a Gremlins: benché, in un primo momento, l’orda sembri essere guidata da Mohawk, una sorta di reincarnazione del brutale e sadico Stripe (il leader della prima banda), sarà proprio nel laboratorio del dottor Catheter che la ripetizione darà inaspettatamente origine alla differenza. Nel corso di una caotica irruzione tra alambicchi e provette, i gremlin si imbattono in quelli che paiono essere delle rappresentazioni demenziali e ingenue di una serie di prodotti farmaceutici, che, ovviamente, finiranno con il trangugiare senza alcun ritegno: “protezione solare genetica”, “estratto di genoma di pipistrello”, pozioni per far crescere rapidamente gli ortaggi (con tanto di esilarante citazione di Arcimboldo) ma, soprattutto, l’“ormone cerebrale”. Quest’ultimo sarà assunto da un anonimo gremlin, privo di qualsiasi caratterizzazione, che si tramuterà nel nuovo capo dell’orda, il “Brain gremlin” ‒ elegante e istrionico intellettuale, con tanto di occhiali in tartaruga e maglione dolcevita.
Forzando un poco l’interpretazione, si direbbe che Dante stia alludendo alla natura contingente dell’auto-coscienza ‒ alla sua inattesa, provvidenziale e quasi miracolosa apparizione ‒ un’ipotesi che sembrerebbe essere avvalorata dall’espediente narrativo della Clamp Tower, gestita da un’intelligenza artificiale fin da subito presentataci come “difettosa”. Guidati dal Brain, i gremlin occuperanno la torre, chiedendo nel corso di un’intervista ‒ o perlomeno nelle parole del loro raffinato rappresentante ‒ di essere integrati nella civiltà newyorkese; alla domanda «cosa intendi per civilizzazione?», il Brain risponde: «Tutte le sottigliezze, Fred, e le gradevolezze: la diplomazia, la compassione, gli standard di vita, le buone maniere, la tradizione…Ecco quel che vogliamo. Potremmo, forse…inciampare lungo la strada ma, sì, è proprio questo che intendiamo per “civilizzazione”: la Convenzione di Ginevra, la musica da camera, Susan Sontag…Tutto ciò per cui la vostra società ha lavorato duro attraverso i secoli; ecco a cosa aspiriamo. Vogliamo diventare civilizzati». Più plausibilmente, tuttavia, quello che il Brain gremlin sta annunciando è il desiderio condiviso da un’intera specie di rimpiazzare la civiltà umana con una civiltà gremlin.
Proviamo pertanto a mantenerci saldamente ancorati all’equazione storicamente e concettualmente stabilita tra il gremlin e il “cuore di tenebra” dell’oggetto tecnico. Come abbiamo visto, nel primo episodio l’oggetto tecnico si limitava a far erompere il proprio nucleo oscuro ed enigmatico, manifestandolo attraverso l’incidente. In Gremlins 2, invece, gli oggetti, le cose, danno luogo a una sorta di alleanza, a una “nuova stirpe” ‒ sfruttando quella che oggi conosciamo come “internet delle cose” ‒ palesando la loro reale natura ‒ perpetuamente “più avanzata” di quella umana. Se pertanto, nel primo episodio, abbiamo assistito a una rappresentazione simbolica del collasso tecnologico, in questo sequel, Dante e Haas ci mettono di fronte a una sorta di convergenza speculativa: allo stesso modo in cui, nel corso di millenni, le bande selvagge di homo sapiens si sono gerarchizzate e organizzate in società, sulla scia di atti di sopraffazione e sottomissione, allo stesso modo il Brain gremlin si è fatto rappresentante non richiesto della propria specie, unificandola sotto lo stendardo del progresso. Quel che è più interessante è come tale nozione di progresso sia derivata, a grandissime linee, dai frammenti di conoscenza pop che i gremlin sono stati in grado di cogliere qua e là per la Clamp Tower. In questo senso, è esemplare il caso del “gremlin-con-il-cappello- a-elica” (propeller-hat-gremlin), un personaggio buffonesco (ispirato ai Looney Toons), che finisce con l’essere ucciso dal Brain proprio durante l’intervista: «Osserva, ad esempio, questo soggetto [il Brain spara al gremlin-con-cappello-a- elica]. Potrebbe dirsi forse “civilizzato”? No, chiaramente. Divertente, ma in nessun senso “civilizzato”». In questa battuta, Dante e Haas sembrano voler condensare tutta l’etica contrattualista: come può, di fatto, una creatura “illuminata”, che si suppone essersi eretta al di sopra del proprio passato primitivo, far ricorso ai mezzi della violenza con tale leggerezza? Appare evidente come il Brain stia interpretando una vera e propria messinscena del potere, consistente nella dissimulazione e nella forclusione della “guerra di tutti contro tutti” alla base della società umana. È proprio per questo motivo che esso rappresenta l’apice comico del film, al punto che risulta estremamente difficoltoso valutarne il grado di affidabilità: il Brain fa sul serio, o si tratta forse dell’ennesimo gioco distruttivo, dell’ennesima parodia di una parodia? Quel che è certo è che, nonostante ogni apparenza di ordine e concordia, i gremlin siano rimasti la medesima orda selvaggia del primo episodio. E probabilmente, è proprio in virtù di questa inquietante permanenza del primitivo che essi sono in grado di rappresentare così meravigliosamente la società umana, facendosene beffa.
L’interrogativo posto da Gremlins 2 – La nuova stirpe è, in definitiva: cosa accadrebbe se le “cose”, ossia gli oggetti creati dall’essere umano, anziché rivoltarsi catastroficamente, si organizzassero per dar vita a una società alternativa a quella umana? Non sarebbero forse costrette a far ricorso (come di fatto già accade con gli odierni algoritmi) alla conoscenza empirica e teorica che gli stessi esseri umani hanno fornito loro? Non assisteremmo, forse, alla creazione di una gigantesca parodia dell’ideologia dominante, sotto forma di un ammasso informe di pop culture, esibizionismo, ambizione, razzismo, sessismo, violenza, superficialità e trolling? La superiorità delle cose sull’umano ‒ il loro “privilegio ontologico” ‒ in questo senso, non sarebbe individuabile in una generica “superiorità computazionale”, nella loro immortalità o nel loro essere sempre “nuove” e “aggiornate”, bensì nel dono che, involontariamente, l’essere umano ha fatto loro sin dal momento della loro ideazione: quello dell’incidente, ossia nella capacità di sovvertire ontologicamente i rapporti di potere e di uso, facendo emergere le contraddizioni e i paradossi “comici” sui quali si basano questi stessi rapporti.
Quest’ultima sovversione raccorda ed estende la catastrofe ontologica a quella sociopolitica, mettendo a nudo l’oscenità del Capitale. In Gremlins 2, nel momento in cui la situazione sembra divenire incontrollabile, Clamp fa scorrere sulla sua principale rete televisiva (la CCN) un video che, mostrando uccellini cinguettanti e placidi ruscelli, annuncia la “fine del mondo”: «a causa della fine della civiltà», proclama il video, «il Clamp Cable Network non andrà più in onda. Ci auguriamo che abbiate gradito la nostra programmazione ma, soprattutto, speriamo vi siate goduti la vita». Le immagini “naturali” sembrano voler rappresentare un malinconico vuoto, il “deserto del Reale” prodotto dalla scomparsa dell’essere umano. Ciò che esso ottiene, tuttavia, è il risultato opposto: quello di mettere in scena una parodia del reale, mostrato come luogo ameno e totalmente pacificato; tale parodia risulta ancor più demenziale (e ancor più profonda) qualora ci si accorge che la catastrofe non riguarda l’intero pianeta, ma la sola Clamp Tower, ossia il nostro piccolo microcosmo americano ‒ dominato da una pura ingiunzione al godimento, “goditi la vita!”, della quale, tuttavia, i gremlin sono la massima espressione.
Per certi versi, la mancata catastrofe della Clamp Tower riecheggia nella catastrofe compiuta delle Twin Towers: una devastazione tanto materiale quanto simbolica che, a discapito della sua località, si estende a macchia d’olio sull’intero globo. Ciò che viene disvelato, tanto nel caso della Clamp Tower, quanto in quest’ultimo caso, è la morbosa egemonia della rappresentazione capitalista, la quale si presenta illusoriamente come “il Mondo”: l’attacco alle Torri Gemelle si tramuta automaticamente in un attacco barbarico, diretto all’intera civiltà (ossia all’Occidente industrializzato, bianco e capitalista), suscitando, a sua volta, reazioni altrettanto “barbariche” (bombardamenti a tappeto, assedi, brutali esecuzioni pubbliche e lo sfacciato ricorso ad arsenali “sporchi”). In Gremlins 2, il crollo del microcosmo ‒ nel quale lo spettatore è a sua volta intrappolato ‒ palesa il vero potenziale politico dell’incidente: quando la catastrofe si manifesta, per l’appunto, come l’inversione di un’inversione ‒ ossia come una rappresentazione esagerata e parodistica del fenomeno sul quale essa stessa si abbatte ‒ essa è, al contempo, capace di frantumare la sfera a chiusura ermetica dell’ideologia.
Non è un caso che, in The New Batch, tutto l’apparato di produzione cinematografica ‒ e non solo la telecamera, come accade nel realismo o nel cinema d’autore ‒ faccia avvertire tangibilmente la propria presenza. Tale rivelazione, tuttavia, avviene per vie traverse, attraverso tutta una serie di mascheramenti: l’assurdità (per l’epoca) di un canale via cavo totalmente dedicato alla cucina (ennesimo elemento profetico o predittivo dell’opera di Dante); la presenza, all’interno di una scena del film, del critico cinematografico che, qualche anno prima, aveva stroncato il primo capitolo (in questo secondo episodio, il critico viene preso in ostaggio dai gremlin e costretto con la forza a cambiare opinione); la presenza del celebre wrestler Hulk Hogan che, per zittire i gremlin all’interno di un cinema, arriva addirittura a infrangere la quarta parete; il cameraman giapponese, intrappolato e costretto, in una situazione di massimo pericolo, all’interno dello stereotipo che vuole i giapponesi costantemente intenti a fotografare e riprendere ogni cosa; e, infine, la scena in cui il Brain gremlin interpreta uno dei più noti momenti del musical New York, New York, celebrando, prima dell’inevitabile epurazione di tutti i gremlin, la totale “spettacolarizzazione” della società ‒ preannunciando un brusco ritorno alla normalità, ossia alla sfera allucinatoria dell’ideologia.
«Il reale non cede a vantaggio dell’immaginario», scrive Baudrillard in Le strategie fatali, «cede a vantaggio del più reale del reale: l’iperreale; più vero del vero: tale è la simulazione»6 (Baudrillard 2007, 13). Non il mondo virtuale di Matrix ‒ come molti hanno asserito negli ultimi decenni ‒ ma la demenziale messa in scena di Gremlins 2 è la chiave per comprendere questo concetto. I gremlin, specie nata proprio dalla violazione di una regola (“non mangiare dopo mezzanotte”), curiosa, esplorativa, trasgressiva, amante del rischio e dell’azzardo, sono l’entità che più di ogni altra può simulare il “gioco serio” della società umana, mettendone a nudo tutte le contraddizioni ‒ persino le più brutali e insensate.
Come scrive il critico letterario e filosofo Mark Fisher:
Non esiste alcuna tendenza progressiva allo “svelamento” del capitalismo, nessuna graduale messa a nudo di quello che il capitalismo davvero è: rapace, indifferente, inumano. Al contrario: il ruolo essenziale che nel capitalismo giocano […] [le] campagne di public relations [il marketing e la pubblicità], suggerisce che, per funzionare efficacemente, la brama del capitalismo si affida a varie forme di copertura […] da una parte una cultura ufficiale, in cui imprese e aziende vengono presentate come premurose e socialmente responsabili; dall’altra, la diffusa consapevolezza che queste stesse compagnie siano in realtà corrotte e spietate (Fisher 2017, 198).
Solo la sovversione, ossia l’estremizzazione delirante e demenziale di tali rapporti di “copertura” (ciò che Fisher, riecheggiando lo psicanalista e filosofo sloveno Slavoj Žižek, definisce il “Grande Altro”), sarebbe capace di rivelare la struttura psicotica della società, che da tali rapporti emerge. In questo senso, inevitabilmente, Ghizmo ‒ il gremlin che persevera nel voler prendere le parti degli umani ‒ interpreta il ruolo, per certi versi “mitico” o “archetipale”, del traditore della specie; egli, di fatto, è anche uno degli esecutori materiali, nel finale, dello sterminio dei propri consanguinei.
Questo aspetto, spesso sottovalutato, è un indizio di come l’essere umano sia sempre costretto a far ricorso alla tecnica per fronteggiare gli abomini prodotti dalla tecnica stessa. Tale eterna posticipazione del problema, d’altra parte, è proprio ciò che, a rigor di logica, ha consentito la produzione di questo secondo episodio della saga: ogniqualvolta la si pospone, la questione della tecnica, nonché quella del rapporto di “cura” che a essa ci lega, sembra riaffacciarsi, sempre più minacciosamente, su di noi. Ciò che viene portato alla luce da Gremlins 2 non è solo la natura ideologica dei rapporti sociali, ma l’illusorietà (altrettanto ideologica) della sicurezza derivante dall’aver fondato questi stessi rapporti sulle tecnoscienze. Se, come sostiene Fisher poco più avanti, il capitalismo funziona proprio in virtù dei suoi malfunzionamenti (burocrazia, corruzione e sfruttamento), non si può ignorare la componente “negazionista” di tale comportamento patologico ‒ un negazionismo di volta in volta storico, politico ed ecologico. Il microcosmo capitalista sembra poter funzionare solo attraverso l’estenuante ripetizione di un ritornello: “Tutto si sistemerà!”. È proprio quando tale ritornello diviene insostenibile, e le sirene del progresso cessano di incantare, che la situazione giunge al punto di non ritorno.
Il lieto fine, in questo caso, coincide con l’ingresso in un incubo ben peggiore ‒ un incubo concretizzatosi appieno negli ultimi anni. Dopo lo sterminio purificatore dei gremlin all’interno della Torre, il rientro nella sfera ideologica è, di fatto, segnalato con forza dallo stesso Dante: Clamp, pur essendo estasiato dall’avventura e dalle nuove possibilità speculative dischiuse dall’evento, si mostra turbato; come egli stesso afferma: «Quando si costruisce un luogo per le cose, non ci si deve sorprendere che delle “cose” arrivino, prima o poi». A tale dichiarazione fa seguito una vera e propria svolta: Clamp mostra a tutti i presenti uno dei progetti di Billy, l’abbozzo di un lussuoso quartiere residenziale immerso nel verde. La decisione è presa: gli Stati Uniti devono tornare indietro, rifiutando il progresso e la modernità stessa ‒ la “cosa” tecnologica. Il film si chiude, proprio così7, affacciandosi su questo orizzonte neo-reazionario, mostrando, con estrema lucidità, la genesi materiale del fascismo (e la sua complicità con i grandi capitali).
Con tale nota amara si conclude, per ora, l’epopea dei gremlin. Quello che, all’inizio, ci appariva come un guazzabuglio grand guignol, si è rivelato, a conti fatti, un’esortazione a non lasciarsi travolgere dalle catastrofi di un mondo in costante accelerazione; a non farsi trascinare nel vortice spettacolista della pubblicità, della televisione e del cinema; a non farsi imbonire dalle false promesse dell’ideologia ‒ divise tra i sogni a occhi aperti del progresso e le ingiunzioni localiste della “decrescita felice”. La grande lezione etica di Dante, sepolta sotto tonnellate di kitch e trash, consiste oggi in nuova prospettiva sulla cura, capace di volgersi all’oggetto tecnico e agli apparati che producono e sostengono il nostro mondo con rinnovata attenzione: non più attraverso un uso distratto, o tramite la stupidità di una fiducia incondizionata, ma con la medesima disposizione d’animo che si riserverebbe a un amico, ossia preparandosi a ricevere i suoi scherzi, a bisticciare, a litigare e persino, in taluni casi, a salutarsi per sempre, a ereditare o a lasciar ereditare.
Riferimenti bibliografici
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