Le opere d’arte di Hermann Hesse ci insegnano che scrittura e pittura non sono così diverse. Anzi, possono essere complementari, espressioni di una stessa idea di arte, più alta e antica: la ricerca di armonia ed equilibrio nel mondo fuori e dentro di noi.
IN COPERTINA e nel testo: Hermann Hesse, Jedem Burger Freitags sein Unterwassertorpedo – Tempera e inchiostro – Asta Pananti in corso
di Redazione
Scrivere e dipingere, scrittori e pittori, libri e tele, possono sembrare universi distanti, arti fondate su presupposti diversi, addirittura opposti: le parole e le immagini. Ma non è così.
Un esempio? Franco Battiato, uno dei cantautori più famosi e celebrati d’Italia, disse una volta in un’intervista di essere sostenitore di quella corrente di pensiero secondo cui con la volontà e la dedizione si riesce in qualunque campo artistico. Lui stesso, per quanto celebre soprattutto per le sue musiche, è un pittore dal tratto riconoscibile, che sin dalla giovane età ha sentito il bisogno di accompagnare i suoni e le parole con le immagini. L’idea di Battiato è che nella vita, come nelle arti, non si “è”, ma si “diventa”.
Le biografie degli artisti sono spesso intrise di un certo senso del destino: si narra delle loro inclinazioni infantili e adolescenziali, come se, appunto, artisti si nasca e non si diventi. Come una predestinazione che si imporrebbe sul mondo, e non potrebbe che prendere forma. Certo, in un certo senso l’artista emerge molto prima della sua figura professionale, in ogni caso però è più giusto quello che sostiene Battiato: le arti e gli artisti sono in divenire.

Uno dei massimi esempi di questo discorso è Herman Hesse: chi non ha mai letto Siddharta? Il romanzo, scritto ormai un secolo fa, è un pilastro della scoperta del sé, della spiritualità e della ricerca filosofica di ispirazione orientale. Ma Hesse è stato anche un pittore: anzi, è stato sia un pittore che uno scrittore.
I dipinti di Hesse, come quelli di Battiato e di molti altri grandi artisti autodidatti, vengono dalla necessità di uscire dalla propria comfort zone, di osare, di provare la propria adattabilità innanzitutto a sé stessi. L’arte per Hesse fu anche un mestiere, ma non erano i guadagni a spingerlo verso i colori e le tele, semmai una ricerca filosofica e interiore che è la stessa che abbiamo imparato a conoscere attraverso i suoi scritti.
Herman Hesse, nella sua vita, creò oltre tremila acquerelli: erano paesaggi, oggetti, autoritratti, frammenti della natura che usava, molto spesso, per illustrare i suoi stessi libri. Ed è proprio questa la prova definitiva che pittura e scrittura non sono categorie separate, ma espressioni di una stessa necessità filosofica e artistica. Il premio Nobel, che fu tedesco ma poi naturalizzato svizzero, usava la pittura per scandire le immagini significanti del suo percorso: regalava i suoi quadri e i suoi disegni ad amici e colleghi, li accumulava in casa per categorie, facendoli dialogare tra loro come pezzi di un puzzle più profondo.

Dipingere, per lo scrittore, pittore (ma anche poeta e filosofo) era un’attività che aveva a che fare non tanto con la rappresentazione, quanto con la meraviglia, con l’interregno che si naviga quando si sogna, si immagina e si fa dialogare la fantasia con ciò che percepiamo attraverso i sensi. A proposito dei suoi paesaggi, anch’essi segnati da una forte impronta onirica, una volta disse: “Mi limito a semplici motivi di paesaggio, sembra che io non vada più avanti. Vedo sí come è bello tutto il resto, le arie e gli animali, la vita animata e il più bello, gli uomini, sono spesso commosso e quasi costernato, ma non riesco a dipingerlo.”
-->Osservando le opere di Hesse notiamo i colori iridescenti e uno sguardo sulla natura tipico della pittura naive e, in un certo senso, di quella modernista. Ma ciò che conta davvero non sono gli stili pittorici – anch’essi delle categorie, delle caselle in cui far rientrare la ricerca soggettiva e collettiva – semmai la volontà che soggiace a quel dipingere: Hesse mirava a trovare un’armonia, un equilibrio che sta nelle parole tanto quanto nei colori e nelle forme. E proprio in virtù di quell’armonia, che attraversa trasversalmente tutta la storia dell’arte, che Hermann Hesse non si definiva mai né pittore né scrittore, ma semplicemente “un artista”.

Quell’armonia era nelle opere prodotte sia con parole che con immagini, ma era innanzitutto un’armonia interiore, quella di cui le filosofie orientali, più vicine alla ricerca dell’equilibrio e alla sconfitta del dolore rispetto a quelle occidentali, parlano da millenni. Vanno viste così, oggi, le opere di Hesse: la rappresentazione di una visione moderna, quella di un uomo adulto che aveva insegnato a sé stesso a perdersi, vagare nell’irrazionalità dei colori primari, tornare alle impressioni infantili proprio come Matisse e Kandinsky, altri giganti dell’arte del novecento.
Una volta Hesse disse: “Nelle mie opere manca di frequente il normale rispetto della realtà e quando dipingo, le piante hanno un volto, e le case ridono o ballano o piangono, ma se l’albero sia un pero o un castagno per lo più non si può capire. Questo rimprovero devo accettarlo. Confesso che la mia stessa vita assai spesso mi sembra proprio come una favola, e sovente il mondo esterno mi appare con l’intimo mio in un rapporto unisono che devo chiamare magico”. Insomma, non solo Hesse mescolava le arti e le faceva dialogare per un proposito più alto, ma ne era addirittura cosciente. Come l’artista fu cosciente politicamente, opponendosi all’ascesa nazista in Germania, e fu cosciente della sua depressione, tenuta a bada proprio con la pittura, che diventava un luogo in cui rifuggire dalla tristezza: “Allora mi feci piccino piccino ed entrai nel mio quadro, salii sul trenino e penetrai con esso nel piccolo tunnel nero… poi il fumo si ritirò e svanì, e con esso tutto il quadro con me insieme”.
Dipende.
Dalla costituzione fisica, come diceva Mina, il mitico agopunturista. Lo diceva nel mio caso per esempio, fegato yang pittura, polmone yang, scrittura.
E infatti chi dipinge (e scrive) usa parole nei quadri, fatte di forme leggibili