I fratelli Michelangelo



Pubblichiamo un estratto dell’ultimo romanzo di Vanni Santoni, “I fratelli Michelangelo” (Mondadori).


In copertina: un’opera di gerhard richter

Questo testo è tratto da  “I fratelli Michelangelo” di Vanni Santoni. Ringraziamo Mondadori per la gentile concessione


di Vanni Santoni

Che tormento, poi, essere donna. Fossero solo le meno chance nelle arti, nel lavoro… Un ragazzo che si mette a un tavolino con un quaderno, mica attira subito qualche rompipalle. Ma io, con la fortuna che c’ho addosso, posso fare peggio: posso attirarlo pure italiano.
What are you writing? – dice con accento italianissimo, romanissimo, mettendosi a sedere di lato, sporgendo quella faccia nasuta, quella sfumatura alta ai lati del capo, quegli occhi cilestrini e come troppo fissi.
Sto compilando un progetto, – rispondo in italiano, fredda, senza neanche lasciare uno spiraglio allo sketch dell’Ah ma sei italiana pure tu. Sai che coincidenza poi, a Londra.
– Per cosa?
Per un’opera.
Pe’ n’opera d’arte?
Hm hm.
– Quindi sei n’artista.
– Ancora per un paio di settimane.
Perché, vòi smette’?
Al contrario, vorrei continuare.
Ah. Bene, bene. E invece, come hai cominciato?
Eh, come ho cominciato…
(Dove era cominciato tutto? Troppo facile, e anche un po’ ingiusto nei confronti di me stessa, dire con le incisioni del babbo. Né c’entra quell’incisione della Suite Vollard che ricopiai da piccola da un suo libro – o la ricalcai, a pensarci bene? – facendo scoppiare un caso non per quanto era fatta bene ma perché c’erano delle tette e pure il pelo. E certo non c’entrano nulla i tableaux vivants che realizzammo come progetto di fine liceo, mi buttai in quello solo perché mi piaceva di più la gente… Probabilmente tutto era cominciato con Kit Williams e Il segreto di Masquerade, quel libro illustrato che conteneva una caccia al tesoro… E con Bosch. E con Velázquez. Due riproduzioni. In realtà di quadri, anche veri, in casa ce n’erano molti, ma nulla di buono, forse il babbo non voleva che ci fosse troppa concorrenza alle sue incisioni: erano in effetti tutti quadri ereditati dalla mamma e di cui lui si premurava sempre di sottolineare la scarsa qualità. Quel che conta, quel che contò per me, è che nei fondi, giacché non gli si poteva riconoscere dignità di piano nobile, giù nella stanza-deposito da cui si accedeva al cortile e al laboratorio del babbo, c’era una riproduzione del Giardino delle delizie su legno che la “zia Aurelia” – così la mamma chiamava con noi figli quella strana donna simile a una statua romana –, una delle poche volte che venne a trovarci, aveva portato dal Prado, e che compiuti i dodici anni volli in camera mia. Portò quella, e una delle Meninas. C’era del banale, forse addirittura del puerile nel comprare proprio le riproduzioni delle opere più celebri del museo; e tuttavia non c’era niente di banale in quelle folli processioni di gente nuda e frutta e pesci e uccelli colossali, e men che meno in quel senso fortissimo di enigma che si formava in quel gioco di specchi, in quella triangolazione di sguardi e posizioni e rappresentazioni, e trascendeva la messa in scena di infanta, nani e damigelle… Quante ore ho passato, bambina, davanti a quei quadri?)
– Sì, come hai iniziato?
Mah. Ho sempre pensato di aver iniziato tardi. In realtà ho imparato a fare le acqueforti a nove anni.
– Precoce.
(Do anche relazione a questo scemo. Perché lo faccio? Questo bisogno di esistere in qualche modo agli occhi, almeno, di qualcuno… O forse è solo che sono alticcia…)
– No, non ero precoce. Ho imparato come avrebbe imparato una qualunque bambina, aiutando mio padre che le faceva. Sapevo fare le acqueforti, e anche le litografie: non vuol dire che facessi delle belle acqueforti o delle belle litografie.
Xilografie?
– Pure le xilografie, certo. Incidevo e stampavo quello che sapevo fare. Gli stessi disegni che può fare una bimba, ma con tecniche più complesse dei pastelli o delle cere.
– Quindi da lì ti è entrato il fuoco.
(Senti questo…)
– Nessun fuoco. Quindici anni dopo, però…
– L’epifania!
(Chissà se sa quanto è irritante. Se ha già avuto qualcuno che ha smesso di sopportarlo, che gli ha fatto capire che, guarda, non solo posso fare a meno di te, ma sto meglio senza di te.)
– Se la vuoi chiamare così.
– Orsù, racconta.
(Orsù! Avrà imparato a essere proattivo con qualche corso, su qualche manualetto di psicologia applicata?)
– Mi invitarono a una mostra.
(– Vieni domani alla mostra della Serenella, mi fa Sylvie una sera. All’inaugurazione.
– Perché, adesso la Serenella fa cose? Che fa, cosa espone?
Penso dei disegni, sai ha lavorato con quel regista, come si chiama… Ma vieni domani! Dai che passa pure Melusine, è una vita che non la becchiamo, si dice facciamo una cena, facciamo una cena, e poi non la facciamo mai, così almeno beviamo due bicchieri a scrocco!
E andai, alla Fondazione Studio Baluganti, e c’erano già Sylvie e Melusine, e un po’ di gente di quel giro, quel misto di liceali di buona famiglia – di michelangiolini!e squatter che costituiva, nei primi anni zero, l’ultimo lampo di vita che Firenze avrebbe visto, più ovviamente la Serenella, quasi acchittata – non in tiro, non sarebbe stato nel personaggio, ma con una maglietta a righe aderente, quello sì, e la gonna che di solito non metteva, e anche la faccia meno scazzata e più truccata del solito e molti parenti e amici intorno e un fidanzato chiaramente nuovo, uno spagnolo lungo e un poco svampito ma adeguatamente orgoglioso e quasi presentabile, e mentre sua madre col collo di volpe diceva: Del resto la scorsa estate ha lavorato con Milos Forman, il top, che ci vuoi fare, il top del top, iniziavo a sollevare la coscienza dalla gente, dai saluti e dai convenevoli, dai Chi si rivede! e dai bacini con questo e quello, e mi rendevo conto che alle pareti della Fondazione Studio Baluganti erano appesi dei quadretti di cartoncino, una ventina, rettangolari, in effetti si trattava di coperchi di scatole di scarpe appesi a mo’ di nicchie, e in mezzo a ciascuno, incorniciato dunque a mo’ di cassetta – chissà dove l’aveva visto fare – erano appiccicati dei fogli a quadretti e in ogni foglio stava un disegno a biro di una bruttezza abbacinante, abbacinante… E abbacinante era il modo in cui tutti reggevano la commedia: tutti, giunti a casa o già dietro l’angolo, avrebbero certamente detto quel che non si poteva non dire rispetto a quei disegnetti puerili di un pitbull, di un uovo al tegamino su cui è stata spenta una sigaretta, di una cassa da rave, di una ragazzina con le calze a righe e il trucco da clown, eppure nessuno lì scoppiava a ridere o azzardava una battuta, l’aderenza sociale era piena, si chiacchierava, si lasciava tutto il campo all’artista, ricorrevano a volte le parole Milos Forman, solo Melusine a un certo punto, mentre assieme, ben riempiti per la quarta volta i bicchieri di vino, guardavamo il disegno male abbozzato di una bottiglia di Ricard, sussurrò: Boia che cacate, e dovetti trattenermi dall’abbracciarla.)
– Andasti a una mostra e…?
Scusa, pensavo. Niente, andai a questa mostra di una ragazza che conoscevo, una che si dava mille arie, e i quadri, cioè, ora, quadri… i disegni, ecco, erano orribili. Presente quelli che vanno al museo di arte contemporanea, vedono un Twombly…
Un che?
C’hai pure ragione… Pollock lo conosci, sì? Un Pollock, allora, vedono un Pollock e dicono Lo potevo fare anch’io, ecco io una cosa del genere non l’ho mai pensata, anche perché, oh, se potevi farlo perché non l’hai fatto? Ma se il livello era quello, se c’era chi dava spago a una così…
Potevi fa’ bene pure tu.
Esatto. Ma non era un senso di sfida. Non sarebbe bastato: chiunque, con qualche settimana di applicazione, avrebbe potuto fare meglio. Cioè, le acqueforti che facevo da piccola erano meglio (ecco un altro cliché: ‘‘lo poteva fare anche una bambina di nove anni…’’). Non mi bastava lo stimolo negativo, no. Ci fu anche…
… lo zampino di un ragazzo?
(Lo zampino! Di un ragazzo! Ma senti questo… Vergüenza ajena, Spagna: imbarazzo per qualcun altro.)
Proprio per niente, – dico, e quello si raffredda, gli passa la voglia di starmi a sentire, e di certo è passata a me la voglia di dire quello che volevo dire, di parlare della questione del segno, di quella forza profonda – magica, potremmo dire, in senso antropologico – che da chissà quanti anni mi portava a marcare qualunque luogo con scritte o disegnini, a realizzare adesivi e appiccicarli in giro, ma che dico anni, da sempre, se è vero che col trincetto incidevo i banchi già alle elementari e poi coloravo i solchi con la china… Io non voglio parlare, lui non vuole sentire, e però è troppo sfigato e allo stesso tempo pieno di sé per mollare ora. Sta lì, aspetta che gli dica qualcosa. – L’unica volta che è successa una cosa che rassomiglia a quel che dici, aggiungo, è stato quando un ragazzo con cui stavo anni fa scambiò per opere d’arte le mappe che avevo fatto da piccola per un gioco di ruolo.
Ah, ma dici quei giochi in cui ti vesti da elfo e…
Cumpa’!
Nooo Alfre’! Ma che ci fai qua a Londra!
Scusate vi ho interrotto. Piacere, Alfredo.
Cristiana. Non preoccuparti, stavamo parlando così…
Lei è un’artista, sai.
Uh, fantastico. Ma che fai qua senza bere, cumpa’? Prendiamoci un 7&7, – dice l’amico: più saggio, ha capito che prima lo porta via, meglio è per tutti. E tuttavia lui non ce la fa:
Che te bevi?
Io? (Visto che me lo chiedi…) Un Vodka Greyhound.
Lo va a prendere, il barman glielo prepara abbastanza veloce, me lo porta, sorrido, me lo scolo. Grazie, dico. Lui ci rimane un po’ male, forse è Song quello che prova – nell’atollo di Ifaluk, il senso di rabbia quando qualcuno viola i mores non condividendo qualcosa –, ma sotto sotto sa che i mores, almeno quelli che vivaddio stanno cominciando a emergere, li ha già violati lui venendo a disturbarmi, e allora se ne torna al banco dall’amico, bravo… Le mappe! Dedicavo più tempo a disegnarle di quanto ne passassi a scrivere le avventure. Il bello di quei giochi per me era anzitutto quello, il senso profondo, l’altro mondo che si nasconde frattale sotto il segno, disegni una montagna ma rappresenta venti chilometri di catena montuosa, erte perigliose in cui può accadere di tutto, un banale quadratino sulla mappa può essere Lankhmar o Minas Tirith… L’evoluzione su computer, pure, soddisfaceva quest’attesa: in Ultima V incontravi il segno di un piccolo edificio merlato, un pugno di pixel, digitavi la “E” del comando Enter ed ecco che ti si distendevano davanti Trinsic, città dell’Onore, Yew, città della Giustizia, Skara Brae, consacrata all’Umiltà, e così faceva anche il mio segno incerto, a matita, poi colorato a pastello, infine reso più perentorio ripassando tutti i confini con la penna a china… era arte? No, perché quelle mappe servivano a giocare. La questione del segno, anche lì… Ogni segno un portale, ogni tipo di segno un portale con una diversa destinazione, un diverso effetto. Potrei mettermi a fare mappe… Nah, lo hanno già fatto in tanti. Boetti, ovvio, ma ce ne sono proprio troppi: Nina Katchadourian, Joyce Kozloff, Jed Martin con le carte Michelin, sicuro anche Emily Talasso ha fatto qualcosa con le mappe… Anche quel ragazzo che ho visto esposto una volta a Berlino, come si chiamava, Rodriguez? Avrei dovuto pensarci prima. Come un po’ a tutto… Questo ricordo che adesso fa capolino, in cui i compagni delle elementari mi chiedono labirinti, molto tempo prima della stagione delle mappe, sarà vero? Penso di sì, perché ricordo pure che qualcuno, pensando che si dicesse “l’abirinto” mi chiedeva di fargli un abirinto, e non lo correggevo, mi piaceva anzi assecondarlo, non interferire col suo entusiasmo per gli abirinti. Una teoria dell’abirinto. Chi diceva che gli abirinti sono angoscianti perché impongono continuamente di fare scelte? Per non parlare del pericolo inotauri… Angoscianti non so: certo sono potenti. In realtà il labirinto di Cnosso classico, che secondo un libro degli enigmi che avevo da bambina, e che mi piaceva quasi quanto Il segreto di Masquerade, si creava a partire da una croce e quattro puntini, non impone scelte, è solo un budello. I miei, che li dessi o meno ai compagni, avevano innumerevoli bivi, e in certe versioni successive anche trappole o piattaforme di teletrasporto, ma lì siamo già alla prima media, all’influenza dei giochi di ruolo, dei videogame, già al periodo in cui, non contenta delle mappe che realizzavo per il gioco, ne incidevo di ulteriori, col trincetto, sulla fòrmica dei banchi. Bello, ancora bello pensare che qualche bambino, oggi, possa usare un banco che reca i segni del mio passaggio, che può ancora fare da portale… Ma tra l’infanzia e oggi, o meglio tra l’infanzia e la mostra della Serenella, è come se il passato fosse altro da me, qualcosa di alieno e fermo, debolmente pietrificato come una schiuma sabbiosa, una reazione di tiocianato di mercurio come quella che usò Mosè per generare i serpenti della legittimità e che usai io per fare Legittimità II, sta lì, morto ormai, lo posso guardare, toccare, è il passato di qualcun altro; la mia storia, quella vera, comincia a ventisei anni: comincia troppo tardi. Ci si può attivare a ventisei anni in un campo difficile come l’arte? È vero che c’è chi sale sul carrozzone della street art a cinquanta… Per lo meno sono andata subito in un’altra direzione. Ricordo bene, però, quando feci il primo stencil. Chiaro che se ti metti a farne, poi devi tappezzare la città, piazzarli strategici… Eccomi, il primo giorno, nel cesso di Scienze Politiche, io che per fare uno stencil a spray nero sulla finestrella (non una posizione da fama immediata, diciamo) mi impiastriccio in modo clamoroso con quella vernice presa dal garage e del tutto inadatta, vernice a smalto che non secca mai, figurarsi sulla mascherina per lo stencil dove ce ne metti cinque, sei, dieci layer uno dopo l’altro, e non contenta mi reimpiastriccio all’Accademia, fondamentale, penso, tappezzare l’Accademia, dare da subito per scontato che vi sia già del buono in quel che si fa, qualcosa che possa smuovere, magari addirittura provocare, la gente che passa di lì – come se non ci avessero pensato tutti, a parte qualche purista della scultura, a tentare quella strada, il graffito, l’appiccicare roba in giro, il farsi notare a quel modo, e tuttavia di spazi vuoti da impiastrare all’Accademia ce n’erano quanti ne volevi, tant’è che dopo tre giorni ci torno, e mentre me ne sto in una classe a pulirmi le mani dal colore, lì a un banco in fondo, con una bottiglietta d’acqua e delle salviette pescate nei cessi, ecco che entrano gli studenti, si mettono a sedere, un secco col dilatatore mi si piazza accanto e mi fa pure ciao, e rimango lì mentre entra il professore, Allora ragazzi l’altra volta la prima lezione con la storia dell’allagamento praticamente l’abbiamo buttata, vediamo di recuperare stavolta, e nessuno prende le presenze, fa l’appello, niente, così non solo seguo, ma il giorno dopo oltre a Scultura eccomi a seguire anche Disegno II e Elementi di morfologia e Dinamiche della forma, tra gente che già cova portfoli… Organico, devo rendere il mio portfolio più organico, biascicava un giorno, un giorno contenuto in quegli anni, una cicciottella coi capelli rosa, seduta vicino alla centralina elettrica del cortile, tra statue di gesso mutile, sbeccate, annerite e smussate sugli angoli e sugli alluci da mille e mille tocchi. Davvero mi rimase impressa quella frase, o esce fuori ora dai fondi dei ricordi, tipo monito? E tanto poco è organico il mio portfolio, se ha mai dell’organicità, se il problema poi fosse l’organicità… Questo non sapere mai, fino al trionfo o alla rinuncia, e in realtà neanche allora, se tutto illumini col tuo genio o se fai schifo e pena: esisterà una parola per la sindrome dell’impostore?


Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune(Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega). È fondatore del progetto SIC (In territorio nemico, minimum fax 2013). Dirige la narrativa di Tunué e scrive sul Corriere della Sera.

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