I greci e la morte

Cosa insegna a noi contemporanei il rapporto degli antichi greci con la morte?


IN COPERTINA: Niña con Mascara de Muerte (Ella juega sola), di Frida Kahlo

Questo testo è un estratto da I greci in noi, di Angelo Tonelli. Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.


di Angelo Tonelli

La paura è sempre paura della morte.

E presso i Greci, come in tutte le civiltà, esistevano due modi fondamentali di guardare a essa.
C’era lo sguardo della religiosità popolare, olimpica, di cui troviamo testimonianza soprattutto in Omero, e quello delle vie iniziatiche e misteriche, orfiche ed eleusine, e sapienziali.
Nel primo modo di guardare alla morte, nel momento del trapasso la psyché, ovvero l’anima, è un soffio che abbandona il corpo con l’ultimo respiro, e lo lascia cadavere, freddo, disanimato.
Così muore Ettore per mano di Achille:
Aveva appena parlato e la morte lo avvolse,
l’anima abbandonò il corpo e volò verso l’Ade
lamentando il suo destino, la forza e la giovinezza perdute.

(Omero, Iliade, XXII, 361-363)

Sopravvive una sorta di doppio incorporeo, che si aggira nell’Ade come se fosse ancora cristallizzato nei tratti salienti dell’esistenza appena abbandonata, in un limbo triste e sospeso, dove si aggirano simulacri esangui, come quello di Achille, che Odisseo incontra nella sua nékyia, quando evoca i morti nel libro undicesimo dell’Odissea:

[…] e sopraggiunse l’anima del Pelide Achille,
e quella di Patroclo, del nobilissimo Antiloco,
e quella di Aiace, il più bello di sembiante e di corpo
tra tutti i Danai, dopo il figlio di Peleo, il perfetto.
E mi riconobbe l’anima dell’Eacide piede veloce,
e così diceva sospirando parole veridiche:
o divino figlio di Laerte, Odisseo ricco d’ingegno,
o folle! Quale altra più grande fatica mediterai nel tuo animo?
Come osasti scendere nell’Ade, dove dimorano
simulacri privi di mente, parvenze di umani defunti?

(Omero, Odissea, XI, 471-476)

Per Omero Ade (da alfa privativo + radice vid di “oîda”, “vedere”), è l’Invisibile, il luogo in cui si aggirano corpi immateriali, eídola smaterializzati dei vivi. Il dopo morte è molto simile a una continuazione della vita nella forma di un ego che mantiene tracce del suo assetto precedente la morte, e si aggira nell’oscurità assetato e nostalgico di vita; oppure nei Campi Elisi, pago della convivenza con gli eccellenti. Quel che sopravvive è, in una forma di materialismo energetico, solo una versione decorporificata dell’identità psicocorporea che il defunto aveva in vita.
La più grande consolazione della perdita della vita era affidata alla sopravvivenza nella memoria dei vivi, legati da vincoli di affetto, oppure nella gloria, che poteva riecheggiare tra le generazioni a venire.

Lasciapassare per l’Oltre

Nel secondo modo di guardare alla morte, iniziatico, misterico, sapienziale, sopravvive un principio interiore dotato di autonomia ontologica rispetto al corpo ed esposto a ulteriori peripezie reincarnazionali.
Nelle Lamine d’oro orfiche che, incastonate nel cadavere o nel sepolcro del defunto-iniziato valevano da lasciapassare per l’Ade, l’individuo sprofonda nella propria divisibilità infinita, si fonde nell’Uno (“Capretto caddi nel latte”).
Si tratta di laminette – di solito d’oro – che venivano poste nel sepolcro di iniziati all’Orfismo nel V-IV secolo a.C. e che contenevano istruzioni per il trapassato, in modo che potesse trovare orientamento nel mondo dell’Oltre.

Vengo dai puri, o pura Regina degli Inferi,
o Eucle ed Eubuleo e voi altri o dèi immortali:
perché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe beata.
Ma mi domò la Moira e Zeus che scaglia la folgore dagli astri.
Volai fuori dal cerchio che dà pesante dolore e affanno
e salii con piedi veloci alla bramata corona;
poi mi immersi nel grembo della Signora, regina di sotto terra,
e discesi dalla bramata corona con piedi veloci.
“O felice e beatissimo, sarai dio anzi che mortale”.
“Capretto caddi nel latte”.

(Lamella Thuriis reperta, saec. IV-III a. Chr. n.?
mm. 51 x 36, Museo Nazionale di Napoli 111625
Dal Timpone Piccolo di Thurii)

Ora moristi ora rinascesti, o tre volte beato, in questo giorno.
Di’ a Persefone che fu proprio Bacco a liberarti.
Toro ti slanciasti verso il latte:
subito ti slanciasti verso il latte;
ariete cadesti nel latte.
Il vino hai in premio, o fortunato,
e sotto terra ti attendono le iniziazioni
che celebrano anche gli altri iniziati.

(Lamella Pelinnae reperta, saec. IV a. Chr. n.
mm. 40 x 31, Museo Nazionale di Napoli 111625
Dal Timpone Piccolo di Thurii)

Ora moristi ora rinascesti, o tre volte beato, in questo giorno.
Di’ a Persefone che fu proprio Bacco a liberarti.
Toro ti slanciasti nel latte;
ariete cadesti nel latte.
Il vino hai in premio, o fortunato.

(Lamella Pelinnae reperta, saec. IV a. Chr. n.
mm. 35 x 30, Museo Nazionale di Napoli 111625
Dal “Timpone Piccolo” di Thurii)

Molto significative sono altre tre lamine:

Parole consacrate a Mnemosyne. Quando dovrai morire
andrai alle solide dimore di Hades: a destra c’è una sorgente
e accanto un cipresso bianco, diritto:
là discendono le anime dei morti, e si rinfrescano.
A questa sorgente non andare neanche soltanto vicino.
Ma più avanti troverai acqua fredda che scorre
dal lago di Mnemosyne: sopra stanno i custodi
e ti domanderanno nel loro saldo intendimento
che cosa vai cercando nelle tenebre di Ade caliginoso.
Di’ loro: “Sono figlio della Greve e di Cielo stellato,
ardo di sete e mi struggo. Ma date, presto,
acqua fredda che scorre dal lago di Mnemosyne”
E davvero avranno compassione di te per volere del sovrano degli Inferi,
e davvero ti lasceranno bere dal lago di Mnemosyne;
e davvero, dopo avere bevuto, andrai per la via sacra, che percorrono gloriosi
anche gli altri iniziati e baccanti.

(Lamella Hyppone reperta, saec. V-IV a.Chr. n., largh. mm. 59 in alto, 49 in basso; alt. mm 32, Museo di Vibo Valentia)

E troverai a sinistra delle dimore di Hades una sorgente,
e accanto a essa un cipresso bianco, diritto;
a questa sorgente non andare neanche soltanto vicino.
Ma ne troverai un’altra, l’acqua fredda che scorre
dal lago di Mnemosyne. Di fronte stanno i custodi.
Di’ loro: “Sono figlia di Terra e di Cielo stellato
e la mia stirpe è celeste: lo sapete anche voi.
Ardo di sete e mi struggo. Ma date, presto,
acqua fredda che scorre dal lago di Mnemosyne.
E loro ti lasceranno bere dalla sorgente divina
e dopo di ciò regnerai con gli altri eroi.

(Lamella Peteliae reperta, 400-350 a. Chr. n., mm. 45 x 27, British Museum, Catalogue of Jewellery [1911], 380)

Troverai a destra delle dimore di Hades una sorgente,
e accanto a essa un cipresso bianco, diritto:
a questa sorgente non andare neanche soltanto vicino.
Più oltre troverai acqua fredda che scorre
dal lago di Mnemosyne. Sopra stanno i custodi,
e essi ti chiederanno perché sei venuto.
Racconta tutta la verità.
Di’ loro: sono figlio di Terra e di Cielo stellato
e Asterio è il mio nome. Ardo di sete,
lasciate che io beva alla sorgente.

(Lamella Pharsali reperta, 350-320 a. Chr. n., mm. 42 x 16, Museo di Volos, Tessaglia)

Mnemosyne è divinità orfica: la Memoria. È proprio confidando nella Memoria dell’iniziazione all’immortalità ricevuta in vita che l’iniziato ai Misteri orfici può orientarsi nel labirinto di Ade, ed è proprio l’acqua attinta alla fonte del Ricordo che gli consentirà di procedere per la via che conduce alla glorificazione nell’Aldilà.
Il viaggio dell’iniziato attraverso la morte si differenzia da quello del non iniziato perché il primo mantiene desta la consapevolezza durante e dopo il trapasso, mentre il secondo, non avendo ricevuto istruzioni sulla morte quando ancora era in vita, rischia di smarrirsi nelle plaghe dell’Oblio.
Nella seconda laminetta l’iniziata proclama la propria purezza e la propria appartenenza alla schiera degli dèi immortali, derivante dall’iniziazione ai misteri dionisiaci (Eubuleo va identificato con Dioniso) che consisteva nel recupero della originaria scintilla divina racchiusa nel profondo dell’essere umano, e rappresenta la morte come allontanamento dal “cerchio che dà affanno e pesante dolore”, cioè dalla vita come luogo di sofferenza (conforme al pessimismo orfico e al motto di Sileno: “meglio non essere mai nati oppure, una volta nati, tornare al più presto da dove si è venuti”).
La vita vissuta nell’iniziazione misterica orfico-dionisiaca conduce all’immortalità e al ricongiungimento con il Tutto: “Agnello caddi nel latte” significa che l’iniziato, identificato con Dioniso (l’agnello), torna al nutrimento primordiale, alla fonte di vita (il latte), il Grande Uno.

Il libro platonico dei morti

Vale la pena confrontare la visione del Libro dei morti tibetano con il “Libro platonico dei morti”, ovvero il Fedone di Platone, in cui Socrate, condannato a morte, dialoga con i discepoli intorno all’esperienza del trapasso come culmine conoscitivo.
Iniziamo dal Fedone:
Socrate: E con quale altro senso del corpo (aísthesis) sei riuscito mai a percepirle (scil: le idee, la verità)? Bada, io intendo dire tutte le cose, per esempio, la grandezza la sanità la forza e, in una parola, tutte quante nella loro realtà ultima (ousía), cioè che cosa sia realmente ciascuna di esse; e domando: si scopre in esse con i sensi del corpo la verità assoluta, o invece è così, che solo chi di noi più intensamente e più acutamente si appresti a penetrare col pensiero ogni oggetto di cui faccia ricerca nella sua intima realtà, solo costui andrà più vicino di ogni altro alla conoscenza di codesto oggetto?
Simmia: Precisamente.
Socrate: Potrà dunque far questo con purità perfetta (katharótata) chi massimamente si adoperi di avvicinarsi a ciascun oggetto con il suo solo pensiero, senza aiutarsi, nel suo meditare, con la vista, né trarsi dietro alcun altro senso insieme con il suo raziocinio (loghismós); bensì cerchi, avvalendosi esclusivamente del suo pensiero in sé stesso (tê diánoia chrómenos autò kat’autó), mondo da ogni impurità, di rintracciare esclusivamente in sé stesso, mondo da ogni impurità, ogni oggetto, astraendo, per quanto può, e da occhi e da orecchi, e insomma da tutto il corpo, come quello che perturba l’anima e non le permette di acquistare verità e intelligenza quando abbia comunanza con esso. Non è questi, o Simmia, più di ogni altro, colui che potrà cogliere la verità?
Simmia: Mirabilmente vero, o Socrate, è cotesto che dici.
Socrate: Dunque, da tutto ciò deve necessariamente formarsi nei filosofi veri una credenza di questo genere; onde essi ragioneranno tra loro pressapoco così: “Pare ci sia come un sentiero (atrapós) a guidarci con il lógos nella ricerca; perché, fino a quando abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata e confusa con un male di tal natura, noi non saremo mai capaci di conquistare compiutamente quello che desideriamo e che diciamo essere la verità.
Infinite sono le inquietudini che il corpo ci procura per le necessità del nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci capitano addosso, ci impediscono la ricerca della verità; e poi esso ci riempie di amori e passioni e paure e immaginazioni di ogni genere, e insomma di tante vacuità e frivolezze che veramente, finché siamo sotto il suo dominio, neppure ci riesce, come si dice, di fermare la mente su alcuna cosa (hyp’autoû oudè phronésai hemîn egghígnetai oudépote oudèn). Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è cagione se non il corpo e le passioni del corpo? Tutte le guerre scoppiano per acquisto di ricchezze; e le ricchezze siamo costretti a procurarcele per il corpo e per servire ai bisogni del corpo. E così non abbiamo modo di occuparci di filosofia, appunto per tutto questo. E il peggio di tutto è che se anche qualche momento di quiete ci venga dal corpo e noi cerchiamo di rivolgerci a qualche meditazione, ecco che, d’un tratto, in mezzo alle nostre ricerche e dovunque, quello viene ancora a tagliarci la strada, e ci rintrona e conturba e disanimisce, sicché insomma non è possibile per la influenza sua vedere la verità; e ci apparisce chiaro e manifesto che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua nettezza (katharôs), ci bisognerà spogliarci del corpo e guardare con sola la nostra anima pura la pura realtà delle cose (autà tà prágmata). E solamente allora, come pare e come il ragionamento significa, riusciremo a possedere ciò che desideriamo e di cui ci professiamo amanti, la sapienza (phrónesis), quando saremo morti, che vivi non è possibile. Perché se non è possibile mediante il corpo venire a conoscenza di alcuna cosa nella sua purità (medèn katharôs gnônai), delle due l’una, o non è possibile in nessun caso conquistare il sapere, o solo è possibile quando si è morti; perché allora soltanto l’anima sarà tutta sola in sé stessa (kath’autèn), quando sia sciolta dal corpo, prima no.

(Platone, Fedone, 65d-66e)

Non è possibile percepire attraverso i sensi del corpo (aísthesis) le idee nella loro realtà ultima (ousía), perché non sono fatte di corpo: soltanto con il pensiero puro è possibile attingere le verità invisibili ai sensi corporei, e ciò avviene massimamente quando si è morti, perché allora, “sciolta dal corpo”, l’anima, “tutta sola in sé stessa (kath’autèn), può attingere la Sapienza (phrónesis) e noi possiamo “guardare con sola la nostra anima pura la pura realtà delle cose (autà tà prágmata)”.
[…] intervenne Cebete e disse: O Socrate, quanto al resto pare a me che si dica bene, ma quanto all’anima c’è negli uomini molta incredulità: perché temono che, quando essa si sia distaccata dal corpo, non esista più in alcun luogo e si guasti e perisca il giorno stesso in cui l’uomo muore; temono cioè che, nell’atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, subito si dissipi e voli via come soffio o fumo, e così cessi dall’esistere del tutto. Che se invece l’anima rimanesse in qualche parte tutta raccolta in sé stessa e libera da codesti mali dei quali discorrevi or ora, grande speranza sarebbe, o Socrate, e bella, che sia vero quello che tu dici. Ma questo appunto, mi sembra, è ciò che bisogna di non piccola conferma e dimostrazione: e cioè, primo, che l’anima séguita a esistere anche quando l’uomo è morto, secondo, che essa conserva potere e intelligenza.

(Ivi, 69e-70b)

Seguono gli argomenti a sostegno della immortalità dell’anima:
– l’argomento dei contrari, che deduce l’immortalità dopo la fine della vita dal fatto che ogni cosa implica il suo contrario, e così dal morto nasce il vivo: “[…] è una realtà il rivivere, e che i vivi si generano dai morti, e che le anime dei morti non cessano mai di esistere” (Ivi, 72d);
– l’argomento della reminiscenza:
Se dunque è vero che noi, acquistata codesta conoscenza prima di nascere, la portammo con noi nascendo, vorrà dire che prima di nascere e subito nati conoscevamo già, non solo l’eguale e quindi il maggiore e il minore, ma anche tutte insieme le altre idee, perché non tanto dell’uguale stiamo ora ragionando quanto anche del bello in sé e del buono in sé e del giusto e del santo, e insomma, come dicevo, di tutto ciò a cui, nel nostro disputare, sia interrogando che rispondendo, poniamo questo sigillo, che è in sé. Onde risulta necessariamente che di tutte codeste idee noi dobbiamo aver avuto conoscenza prima di nascere.

(Ivi, 75c-d)

Per il Socrate del Fedone l’anima è immortale e serba ricordo delle verità a cui ha attinto prima di reincarnarsi, per ricongiungersi a esse dopo la morte; chi si dedichi alla filosofia ha la possibilità di vivere la morte come occasione di massima conoscenza, di contatto con la verità, acquisendo livelli sempre più alti di assimilazione al Divino. I valori fondamentali a cui consacrare la vita, come in ogni tradizione iniziatica che si rispetti, sono consapevolezza ed eticità, unica garanzia di propizie reincarnazioni e illuminazioni post mortem.

Il Libro tibetano dei morti

Uno sguardo consapevole sul processo di dissolvimento dell’aggregato corporeo è sigillato negli insegnamenti del Libro tibetano dei morti, il Bar do t’os sgrol (pron. Bardo Tödöl), noto al pubblico europeo a partire dal 1927, quando Evans Wents ne pubblicò la traduzione fatta dal suo maestro Kazi Dava Samdup. Dobbiamo a Evans Wents la scelta del titolo con cui è universalmente noto in Occidente: Il libro tibetano dei morti, che tradotto letteralmente suonerebbe Il Libro che conduce alla salvazione dall’esistenza intermedia per il solo sentirlo recitare.
Il trattato, nell’ambito della tradizione buddhista, viene considerato come un Terma (gTerma), cioè come una delle scritture sacre e segrete che il taumaturgo Padmasambhava, invitato nel Tibet al tempo del re K’ri sron Ide btsan (755-797), avrebbe nascosto sotto terra e che poi, dopo la sua scomparsa, sarebbero state riportate alla luce da lontani seguaci della dottrina, i quali appunto per queste scoperte sono designati dalla tradizione con il nome di terton (g Ter ston): “indicatori del Terma”. Lo scopritore del Bardo Tödöl fu Carmalingpa (Karma glin pa).
Il Bardo Tödöl è un libro di salvazione, uno strumento di liberazione dalla catena di reincarnazioni: “continuare a esistere in una qualunque forma di esistenza, anche come dio, è dolore… La pace è nel dissolversi inconsapevole in quella luce incolore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne siamo consapevoli, brilla in noi stessi” (Il libro tibetano dei morti, a cura di G. Tucci, p. 4); “[…] Quando si muore, sono due le vie che a noi si aprono: o un definitivo spegnimento della creatura singola che è la sorte degli Eletti; oppure la rinascita, che attende chi non seppe comprendere che tutto è sogno” (Ibidem.).
Il Bardo Tödöl contiene insegnamenti che guidano il viaggio del principio cosciente disincarnato del defunto nell’Aldilà, indirizzandolo verso forme propizie di rinascita, per esempio come essere umano, creatura in grado di intraprendere e perfezionare il sentiero iniziatico che conduce alla liberazione.
Secondo gli insegnamenti in esso contenuti, al momento della morte si entra in un bardo della rinascita, cioè in uno stato intermedio che è un
temporaneo sopravvivere alla morte, una proiezione karmica che ha una doppia uscita: o il nirvana o il samara, la pace eterna o le tribolazioni del continuo nascere e morire. Le immagini che in questo stato appaiono con celere vicenda sono proiezioni del karma: le quali fatalmente albeggiano nel principio cosciente del defunto, quando questi non sia stato capace di riconoscere, nella luce abbagliante che gli folgora per brevi istanti dianzi, le vibrazioni della coscienza essenziale. In tal caso, il processo cosmico non è annullato e si svolge implacabile per gradi successivi, ai quali solo si contrappone la consapevolezza, sorta al richiamo di questo trattato, che quelle immagini non sono aspetti di entità reali, ma simbolici balenii del karma. Neppure gli dèi naturalmente esistono al di fuori del nostro pensiero, ed essi sono vari e di diverso aspetto a seconda della purità del nostro pensiero: placati o terrifici, sorridenti o minacciosi, a seconda della nostra maturità spirituale. Ma anche in questo caso si tratta di una diversità soltanto apparente; persino le deità paurose sono in realtà le medesime che le beatifiche, tramutate in nuovo aspetto consono al prevalere in noi del male; e le une e le altre sempre ombre di noi stessi, sorte dall’interno della nostra individualità e della nostra coscienza.
Questo processo si sviluppa per un periodo massimo di 49 giorni; dopo di che, se non sei riuscito a liberarti, fatalmente torni a essere irretito negli artifici sottili dell’esistenza fenomenica, che ricomincia con una nuova vita. E la catena karmica così continua e nuovamente fruttifica e si svolge.

(Ivi, pp. 6-7)

La durata del bardo varia a seconda delle tradizioni, per alcune è indefinita, per altre si protrae per sette giorni o più. Alcuni dubitano della sua esistenza. In tale stato di bardo il lama, con le parole tratte dal libro e sussurrate all’orecchio del morto, può evocare nel suo principio cosciente la consapevolezza e la capacità di orientarsi nel viaggio verso l’illuminazione e la reincarnazione privilegiata.
Sogyal Rinpoche, maestro di Dzong-Chen, nel suo Il libro tibetano del vivere e del morire, ampio commento al Bar do t’os sgrol, a proposito del morire ci dice che:
Il processo del morire è spiegato dettagliatamente in tutti gli insegnamenti tibetani. Consiste essenzialmente in due fasi di dissoluzione: una esterna, con la dissoluzione dei sensi e degli elementi; e una interna, con la dissoluzione degli stati grossolani e sottili del pensiero e delle emozioni. Ma prima occorre conoscere le componenti del corpo e della mente che si disgregano alla morte. Tutta la nostra esistenza è prodotta dagli elementi: terra, acqua, fuoco, aria e spazio. Essi formano il corpo e lo mantengono in vita. Quando si dissolvono, moriamo. Abbiamo familiarità con gli elementi esterni, che condizionano il nostro modo di vita, ma la cosa più interessante è che gli elementi esterni interagiscono con gli elementi interni del corpo fisico. Le potenzialità e le caratteristiche dei cinque elementi sono presenti anche nella mente. La capacità della mente di fare da base per tutte le esperienze è la qualità della terra; la sua continuità e la sua adattabilità è l’acqua; la chiarezza e la capacità di percepire è il fuoco; il suo movimento continuo è l’aria, la sua vacuità illimitata è lo spazio.
Con la morte, in sostanza, si ritorna allo stato originario, nel quale tutto si dissolve.
La mente e il corpo si disgregano, insieme con i “tre veleni” (ira, desiderio e ignoranza), sospendendo le emozioni negative e creando un momentaneo intervallo in cui si rivela la “Chiara luce”, la luminosità della base primordiale della natura della mente di cui si può fare esperienza nella meditazione.
Nel Bar do t’os sgrol questo momento è così descritto: “La natura di tutte le cose è aperta, vuota e nuda come il cielo, luminosa vacuità senza centro né circonferenza: il puro, nudo Rigpa sorge”.
Nella tradizione Dzong-chen, il Rigpa è la base primordiale della mente, luminosità non condizionata, a differenza dell’aspetto Sem della mente, che è la mente ordinaria, in cui si agitano i “tre veleni” e le costruzioni nevrotiche dell’Io.
Padmasambhava ne parla in questi termini:

La chiara luce, autoprodotta e fin dall’inizio priva di nascita è figlia del Rigpa, anch’esso non generato: che meraviglia!
Questa saggezza auto originata non è stata creata da nessuno: che meraviglia!
Mai ha conosciuto la nascita e non ha in sé le cause della morte: che meraviglia!
Benché chiaramente visibile, nessuno la vede: che meraviglia!
Benché vaghi nel samsara, non ne subisce alcun danno:
che meraviglia!
Benché veda la buddhità non ne riceve alcun beneficio:
che meraviglia!
Benché esista in tutti i luoghi, non è riconosciuta:
che meraviglia!
Eppure tu continui a sperare di ottenere altrove un frutto diverso da questo: che meraviglia!
Benché sia la cosa più essenzialmente tua, la cerchi fuori di te: che meraviglia!

Subito dopo il doloroso passaggio dell’agonia, rispetto al quale – a prescindere dalle generalizzazioni cui troppo sovente inclina la tradizione tibetana – è mirabile la posizione spirituale del meditante, centrato in un testimone metsomatopsichico che viene attraversato da un páthos che implica peripezie devastanti per l’ego psicocorporeo, ma che al tempo stesso è stabile, si manifesta una Luce: la stessa Luce che si è mostrata nella morte naturale di Ivan Il’ic, in Tolstoj, la stessa esperienza dell’Assoluto “esso stesso per sé stesso” di cui ci dice il Fedone platonico, ma accompagnata da una profonda consapevolezza, da un perpetuo testimoniare; dove il testimone, ciò che è presenza, rivela la sua natura transmentale e transcorporea e, esso stesso pura Luce, si coniuga con la Luce.
Nella tradizione tibetana (Tantra e Dzong-chen) si crede fermamente che i meditanti di altissimo livello al momento della morte siano in grado di riassorbire nella base luminosa della natura primordiale della mente anche la materia che costituisce il corpo (la mente è base del corpo, che è costituito dall’elemento spazio, che è appunto la quinta base mentale generativa degli aggregati materiali), cioè i quattro elementi, cosicché il corpo fisico si dissolve in Luce o in arcobaleno.
Questo riassorbimento si attua in maniera inconsapevole: o meglio, in esso, per gli illuminati, si dà tout court coincidenza di Rigpa – che è la luminosa vacuità senza centro né circonferenza, base primordiale della mente liberata dai condizionamenti dei sensi e dell’ego, ben distinta dalla mente Sem, che è la mente ordinaria dominata dai summenzionati “tre veleni” – con la “luce incolore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne siamo consapevoli, brilla in noi stessi”: Luce di base della mente e del cosmo coincidono.

Reincarnazione

Condivisa con l’Oriente, in Grecia la teoria della reincarnazione/metempsicosi/metensomatosi compare nel Pitagorismo e nell’Orfismo. Fondandosi sull’intuizione di fondo comune alla tradizione sapienziale orientale-occidentale, Platone elabora in maniera originale il mito, attraverso la figura orfica di Adrastea. La visione mistica e misterica, la contemplazione della Verità oltremondana, nel Fedro di Platone è fonte di salvezza, perché l’anima che permane salda nella visione si sottrae al ciclo delle rinascite e resta “senza danno”. Tutto ciò rimanda al mito dell’Auriga, ovvero del Sapiente che riesce a governare il carro della propria interiorità, evitando che la parte più greve dell’anima, il cavallo nero, la trascini in basso impedendole di raggiungere il “campo della verità”.
Nell’Orfismo, come è evidente nelle Lamine d’oro orfiche, la salvezza dipende dalla facoltà di ricordare la propria origine e la propria natura divina e di ricongiungersi con essa, mentre l’oblio di questa radice sacra condanna a reincarnazioni più o meno propizie. Soltanto la filosofia, la sapienza e una profonda eticità consentono di anticipare il ritorno alla dimensione divina originaria.

[…] è questa la legge di Adrastea: l’anima che al seguito di un dio abbia avuto visione di qualcuna delle cose vere, non abbia esperienza di dolore fino all’altro ciclo, e se è capace di fare sempre questo, resti senza danno per sempre; ma se le sia stato impossibile seguire il dio e non abbia avuto la visione, e per qualche eventualità si sia colmata di oblio e di cattiveria, e sia stata appesantita e così appesantita abbia perso le proprie ali e sia caduta sulla terra, allora è legge che questa anima nella prima generazione non venga innestata in nessuna natura ferina, ma quella che ha visto di più dia nascita a un uomo che diventerà amante della sapienza o della bellezza o un ispirato dalle Muse e da Eros; la seconda a un re giusto o a un guerriero o a un uomo di governo; la terza a un politico, a un amministratore o a un produttore di ricchezze; la quarta a un amante delle fatiche o un ginnasta o a un medico del corpo; la quinta a una vita da indovino o da officiante di Misteri; alla sesta sarà adatto un poeta o qualcuno che si occupi della mimesi; alla settima un artiere o un agricoltore; all’ottava un sofista o un demagogo; alla nona un tiranno. E tra tutti costoro chi avrà vissuto nella giustizia otterrà una sorte migliore, chi contro giustizia una peggiore. E nessuna anima fa ritorno al luogo da cui è venuta prima di diecimila anni – non mette le ali prima di tutto questo tempo – fuorché quella di chi abbia filosofato senza frode o abbia amato secondo filosofia: queste anime, una volta compiuto il terzo giro di mille anni, nel caso che abbiano scelto la stessa vita per tre volte di seguito, riprendono le ali al tremillesimo anno e risalgono. Le altre, una volta conclusa la prima vita, vanno a giudizio, e dopo essere state giudicate, le une vanno nelle carceri di sotto terra e scontano la pena, le altre, librate da Dike in qualche regione del cielo, vi trascorrono una vita degna di quella che hanno vissuto in forma umana. Quando giunge il millesimo anno, le une e le altre ritornano all’assegnazione e alla scelta della seconda vita e scelgono ciascuna quella che desidera: e chi sia stato umano può reincarnarsi in animale, e da animale chi sia stato umano può ritornare umano; perché non giungerà mai a tale forma l’anima che non abbia mai avuto visione della verità.

(Platone, Fedro, 248c-249b)


Angelo Tonelli è un poeta, storico della filosofia, traduttore e regista teatrale italiano.

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