I misteri del Trittico delle delizie

Un’esplorazione dei contorni artistici e sociologici del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, uno dei più misteriosi quadri del mondo


IN COPERTINA: Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500

Questo testo è tratto da “L’icona che delira” di Stefano Cristante. Ringraziamo Mimesis per la gentile concessione.


di Stefano Cristante

Di Hieronymus Bosch non è certo nemmeno l’anno di nascita. Pare si sia trattato del 1453, quando alla famiglia del pittore Anthonis Van Aken si aggiunse il neonato Jeroen. I Van Aken abitavano a s’Hertogenbosch, una florida cittadina del Brabante settentrionale, conosciuta anche come Den Bosch o Bois-Le-Duc o Bolduc: oggi è una ricca città olandese di circa 140 mila abitanti, facilmente raggiungibile da Amsterdam in auto in meno di un’ora e mezzo e da Bruxelles in meno di due ore. Lodovico Guicciardini, mercante con la passione della scrittura e discendente del più celebre Francesco, nel 1567 diede alle stampe Descrittione di Lodovico Guicciardini patritio fiorentino di tutti i Paesi Bassi altrimenti detti Germania inferiore. Questa la sua descrizione della città natale di Bosch.

Bolduc si chiamava già in franzese Bois-Le-Duc, tradotto il senso dal fiammingo, che vuol dire bosco del duca, perché quivi era prima un bellissimo bosco del Duca di Brabante: dipoi per addolcire e facilitare il vocabolo, si è ridotto corrottamente, sì come di molte parole avviene, a questa voce corrente di Bolduc. È situata quella città in sul fiumicello Deese, quattro leghe propinqua a Ravestein, e dista d’Anversa dodici leghe; è terra grande, bella e molto forte, popolosa e ricca con buoni e commodi edificii. La Chiesa principale e cathedrale si chiama San Giovanni, tempio magnifico e sontuoso con un grande horilogio d’eccellentissimo e ammirabile artificio. Il popolo di Bolduc è molto bellicoso, bravo a piedi e a cavallo, serva(n)do forse più dell’antica ferocia, che tutti questi altri popoli; e nondimeno è terra molto civile, e oggi di molto mercantile e piena d’arti e di mestieri. Favvisi tra le altre cose molti panni e tanta quantità di tele, che comprese quelle (che) si fanno per il paese circunstante, ascendono ordinariamente a più di venti mila pezze l’anno, le quali circa dugento mila scudi possono valere; e vi si fa somma inestimabile di coltelli d’ottima tempera e parimente somma incredibile di spilletti d’ogni sorte, talché dell’una e dell’altra merce si manda per tutto il mondo. Fu nativo di Bolduc M. Michele Enckevoirt Cardinale di Santa Chiesa, prelato prestantissimo: fu parimente di questa terra Giorgio Macropedio, huomo dottissimo e professore delle tre lingue. Ha al presente Theodorico Nopeno, Consigliere di Brabante, dottore nell’uno e nell’altro iure molto chiaro, il quale è stato più e più anni lettor publico nell’università d’Orliens con somma laude. (Guicciardini 1567, p. 127)

Dunque una cittadina difesa da ottimi cavalieri e fanti, ma soprattutto ricco borgo mercantile, artisticamente dotato. Tra i prodotti più richiesti di s’Hertogenbosch le stoffe, i coltelli e le spille preziose. Una breve visita nell’odierna cittadina del Brabante restituisce un’immagine di ricchezza e di tranquillità: oggi l’agricoltura è molto curata e profittevole, l’artigianato di qualità continua a sfornare prodotti molto richiesti e la vita in città sembra scorrere serenamente intorno alla monumentale bellezza della Cattedrale di San Giovanni, la testimonianza gotica maggiormente considerata nei Paesi Bassi. Il più celebre personaggio storico della città è Bosch, cui è dedicato un interessante Jheronimus Bosch Art Center, con riproduzioni in varia grandezza delle sue opere. Tuttavia è tra i personaggi celebri della città di Antwerpen (Anversa) che lo stesso Guicciardini nomina Bosch (“Girolamo Bosco di Bolduc, inventore nobilissimo e meraviglioso di cose fantastiche e bizzarre”, Guicciardini 1567 p. 98), annoverandolo tra i grandi artisti che ivi hanno dimorato: la notizia non è certa ma è assai probabile.

Jeroen Van Aken apparteneva a una famiglia di pittori molto considerati: il nonno, Jan, è il certo autore dell’affresco di una Crocifissione datato 1444 della cattedrale di s’Hertogenbosch, e alcuni critici gli attribuiscono altre opere affrescate. Il padre di Jeroen, Anthonis, gestiva una rinomata bottega pittorica, che alla sua morte (1478) passò al figlio Goessen, maggiore di Jeroen di dieci anni. L’apprendistato di Bosch si svolse probabilmente ad Antwerpen, da cui sarebbe tornato alla fine degli anni ’70 del 1400 per sposare la ricca borghese Aleyt de Meervenne. La famiglia della sposa gli spalancò le porte della società benestante di s’Hertogenbosch, eliminando le preoccupazioni economiche dalla vita del pittore (il quale, nel frattempo, aveva adottato lo pseudonimo Bosch per sancire il suo distacco dalla famiglia d’origine e per omaggiare la sua città).

Tra il 1468 e il 1516 Bosch figura ripetutamente nei registri della Confraternita di Nostra Diletta Signora (la Madonna) come un adepto d’importanza o “notabel”, titolo attribuito solo circa a un centinaio di persone dell’alta borghesia cittadina. La Confraternita si occupava prevalentemente di opere di carità e di pratiche devozionali, ed ebbe un ruolo importante nell’apertura di case d’insegnamento ispirate dalla “devotio moderna” della Congregazione dei Fratelli della Vita Comune. Questo gruppo sorse dalle predicazioni di Jan van Ruysbroeck e del suo discepolo Geert Groote, fortemente polemici con gli eretici (in particolare con la setta degli Adamiti, propugnatori di un ritorno al cristianesimo puro e primitivo) e con il clero corrotto (si tratta insomma di un gruppo di riformatori precedenti Martin Lutero). Nell’ambito della Confraternita si ritiene che sia stato scritto il volume De Imitatione Christi, l’opera religiosa della letteratura cristiana occidentale più diffusa dopo la Bibbia. Tra il 1480 e il 1485 Erasmus da Rotterdam passò tre anni nella casa d’insegnamento della Confraternita di s’Hertogenbosch.

Nel 1504, Bosch ricevette 36 “livres” per una tavola dipinta commissionata da Filippo il Bello, figlio dell’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo. In quel periodo Bosch figura ripetutamente nei documenti contabili della sua città come grande contribuente.

Nel 1516, in data 9 agosto, i registri della Confraternita di Nostra Diletta Signora riportarono la morte di “Hieronymus Aken, alias Bosch, insignis pictor”.

Questo è quanto sappiamo della vita di Jeroen Van Aken, detto Bosch. Salvo quelle menzionate – conosciute universalmente –, non esistono testimonianze certe su di lui, né sono state rinvenute lettere o altro tipo di documento autografo che possano consentire di risalire direttamente alla sua vita. In assenza di ritrovamenti documentali, tutto ciò che gli storici dell’arte hanno potuto ipotizzare si basa su indagini indiziarie, nessuna delle quali permette di dire una parola definitiva su questioni di volta in volta grandi e piccole. Ad esempio, nessuna prova esiste di viaggi compiuti da Bosch nel corso della sua esistenza. Ciononostante alcuni interpreti considerano probabile almeno un viaggio, in Italia. Gli indizi proverrebbero dalla presenza di elementi italici nei dipinti di Bosch successivi al 1500 e alla rapida comparsa nel Palazzo Ducale della Serenissima Repubblica di Venezia di grandi dipinti del pittore fiammingo (Slatkes 1975). Si tratta di indizi in ogni caso non risolutivi.

La potenza dell’opera complessiva di Bosch rappresenta un enorme caso per la storia iconografica dell’umanità. Vorrei in questo scritto riferirmi però unicamente a un suo dipinto, quel Trittico del Giardino delle delizie esposto al Prado di Madrid che, forse ancor più di altri capolavori di Bosch, si presta a lasciarsi osservare come un concentrato iconografico di misteri, bellezze e atrocità, in un’esplosione di complessità grafica talmente eclatante da porre il problema delle fonti d’ispirazione dell’autore.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, trittico aperto.

Il Trittico en soi-même

 

Dal punto di vista materiale, il Trittico è un dipinto su supporto ligneo: aperto, misura 220 centimetri di altezza per 389 di larghezza (Figura 2). Il primo pannello, quello di destra (97 centimetri di larghezza), è chiamato La creazione di Eva (o Il Giardino dell’Eden). Quello centrale (195 centimetri di larghezza) dà nome all’intera opera: si tratta del Giardino delle delizie. Il pannello di sinistra (97 centimetri) è conosciuto come L’Inferno musicale. Chiuso (Figura 3), il Trittico ha una larghezza di 194 centimetri e presenta sulle ante esterne un quarto dipinto, da cui prende le mosse la lettura dell’intera opera: si tratta, secondo tutti gli specialisti, del Terzo giorno della creazione del mondo, un’immagine affascinante dipinta con la tecnica della grisaglia, cioè con sfumature a monocromo di bianco e grigio.

La breve scheda dedicata al Trittico del Giardino delle delizie nel sito del Museo del Prado avvisa che “è un’opera moralistica e una delle creazioni più enigmatiche, complesse e belle di Bosch, realizzata nell’ultimo periodo della sua vita. Fu acquistata nell’asta dei beni del priore don Fernando, figlio naturale del granduca di Alba, e fu portata da Filippo II all’Escorial nel 1593. Fa parte del deposito del Patrimonio Nazionale presso il Museo del Prado dal 1939.”

Le notizie sull’acquisizione spagnola del dipinto sono certe. La questione della datazione è invece più problematica, perché l’analisi dendrocronologica del supporto ligneo ha rivelato che si tratta di un reperto databile intorno al 1465. L’usanza del tempo era di far asciugare il legno per molti anni, solitamente anche più di dieci e talvolta venti. Tuttavia un singolo particolare del dipinto – un ananas, evidentemente importato in Europa dopo i primi viaggi transoceanici – conforta l’opinione degli studiosi che, in seguito a osservazioni stilistiche sui diversi periodi dell’arte di Bosch, datano il Trittico tra gli ultimi anni del 1400 e i primissimi anni del 1500.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, trittico chiuso.

Il Trittico chiuso: la creazione del terzo giorno

 

Cominciamo a osservare il dipinto. Il suo principium è il Trittico “chiuso”, una struttura come abbiamo visto piuttosto imponente (cm. 220 x 194). L’ipotesi più accreditata tra gli studiosi è che il mondo che Bosch ci consegna come creato nel terzo giorno sia quello della Genesi (1, 9-13): “Poi Dio disse: ‘Le acque che sono sotto il cielo siano raccolte in un unico luogo e appaia l’asciutto.’ E così fu. […] Poi Dio disse: ‘Produca la terra della vegetazione, delle erbe che facciano seme e degli alberi fruttiferi […] Fu sera, poi fu mattino: terzo giorno”. Stefano Zuffi ricorda che non sempre l’esterno del Trittico è riprodotto, nemmeno in molti libri d’arte. Tuttavia – continua – non va affatto dimenticato, perché è parte integrante dell’opera. “Con la tecnica della grisaglia, Bosch dà vita a un’invenzione straordinaria: un globo trasparente sospeso nell’oscuro universo, che si anima di vita” (Zuffi 2012, p. 9). La vita è precedente alla creazione degli animali e dell’uomo: l’artefice è rappresentato nella parte superiore dell’anta sinistra, lontano, in una periferia del nulla scuro dell’universo, appena contornato da una luce biancastra. La terra è perfettamente sferica, come sigillata in un vetro che contiene anche scure nuvole da cui non piove nulla, e che però sovrastano questa specie di gioiello naturale, unica cosa vivente nel buio.

I tratti di Bosch, la cui magia è aumentata dall’uso della tecnica della grisaglia, ci appaiono quasi come il bozzetto di un’immagine senza tempo: la sfericità e il contorno vitreo del pianeta lo assimilano anzi a un disegno fantascientifico. A richiamare l’essenza biblica dell’intento pittorico campeggiano due versetti in latino, uno sovrastante l’anta sinistra (“Ipse dixit et facta sunt”), l’altro l’anta destra (“Ipse mandavit et facta sunt”, fig. 3).

La caratteristica più sorprendente del Trittico chiuso deriva comunque dal contrasto tra l’oscurità in cui campeggia fantasmatico il globo trasparente e il successivo sfolgorio policromatico del Trittico aperto. Possiamo spingerci a immaginare l’effetto teatrale dell’apertura del grande dipinto, l’emozione dello spettatore del passato di fronte all’esplosione dei colori del Trittico dispiegato dopo la meditazione indotta dalla rappresentazione della creazione divina.

La creazione di Eva

 

Nonostante il primo pannello del Trittico, quello di sinistra, sia meno denso di particolari e meno affollato di figure degli altri due, non si tratta di un dipinto semplice da analizzare (fig. 4). In primo piano Adamo ed Eva, al centro il Creatore: in questo caso, diversamente dal Trittico chiuso, Dio è rappresentato dalla figura del Cristo, tema e costume medievale.

La creazione di Eva è già avvenuta, perché l’artefice ne solleva delicatamente il corpo sostenendone il polso destro. In questo caso però il sostegno sarebbe più agevole se il palmo della mano del Creatore fosse rivolto verso l’alto: accade invece il contrario, come se la pressione esercitata sul polso di Eva la obbligasse invece ad abbassarsi, in vista di un omaggio deferente verso Adamo incoraggiato dal Creatore.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, primo pannello.

L’intera figura di Eva è nuda e bianchissima, caratterizzata dalla postura (ascendente o discendente) con le gambe piegate pur in assenza di sforzo. I capelli sono biondi e lunghissimi. Il personaggio, nel suo insieme, è avvolto nella pudicizia e nel silenzio mistico dell’azione divina. Guarda in basso, rispettosa e timorosa. Adamo, alla destra del Creatore, è seduto sull’erba a rimirare con un certo stupore il miracolo. Anche Adamo è bianchissimo: le sue lunghe gambe si allungano fino al Creatore, la cui veste è toccata dai piedi del primo uomo, come se questi cercasse un contatto e una protezione.

Eva ha gli occhi chini e semi-chiusi, Dio guarda direttamente in volto chi osserva il Trittico e Adamo sembra guardare Eva. Il suo sguardo è aperto, sorpreso e insieme positivo. Mentre il Cristo/Creatore alza tre dita della mano destra (atto di benedizione, simbolo della trinità e numero del superamento della coppia), in basso rispetto ai lembi delle sue vesti sbatte le ali un uccello con tre lunghi colli e tre teste.

Non è certo l’unica mostruosità del primo pannello. L’iniziale sensazione di pace del dipinto ambientato nell’Eden, dovuta alla centralità della composizione su descritta, si rompe di fronte al moltiplicarsi dei segnali di anomalia e di mostruosità, provenienti dal mondo animale. Alcune presenze sembrano uscire da una rivisitazione di repertori tardo-medievali (come la giraffa del registro centrale, assimilabile a un’illustrazione presente nei Commentaria di Ciriaco d’Ancona), altre sembrano scaturire dalla fantasia febbrile dello stesso Bosch.

Il significato generale della presenza di animali mostruosi sembra racchiuso in una convinzione: nemmeno l’Eden è alieno dallo strisciante protagonismo del male. Nell’Eden esotico della creazione di Eva trovano posto giraffe ed elefanti, unicorni, capricorni e una serie di animali non classificabili. Le possibili esplorazioni sugli inserimenti zoologici di Bosch riconducono a tre percorsi. Il primo riguarda una sorta di incanto estetico del pittore per il lato fantastico della vita animale, sollecitato dai bestiari medievali, ampiamente circolanti in Europa. Il secondo si riferisce a un passo della Genesi (2:19-20): “Formati che ebbe il Signore Dio dalla terra tutti i volatili del cielo, li condusse ad Adamo, acciò vedesse come chiamarli; il nome infatti col quale Adamo chiamò ogni essere vivente, è il suo vero nome. E Adamo chiamò coi loro nomi tutti gli animali, e tutti i volatili del cielo, e tutte le bestie della terra. […]”

Gli animali “fantastici” di Bosch non hanno nome e tuttavia “esistono” e rivestono un ruolo non marginale nell’economia del dipinto: ciò potrebbe stare a significare che Adamo non ha dato loro il nome perché inadatti a rappresentare l’Eden, ovvero che nell’Eden di Bosch si crea lo spazio per una sgradita presenza senza nome. Al comando di Dio vi sarebbe dunque da registrare una violazione primigenia, il cui esito è una silenziosa invasione di bestie fantastiche, ma in più di un caso (rospi neri ad esempio: una delle trasfigurazioni medievali del demonio) accostabili al male (Falkenburg 2011, p. 122-123).

Altri autori – suggerisce Falkenburg – hanno osservato che lo stato di pace dell’Eden è violato anche da animali “non-fantastici”, predatori a caccia di prede. In primo piano, infatti, un felino dalle fattezze di una pantera, alla destra di Adamo, passeggia lentamente tenendo in bocca un animale simile a un grosso topo: la pantera, nella tradizione dei bestiari, è apparentata a Cristo per via della dolce fragranza che sprigionerebbe la sua bocca, tanto da renderla attraente per tutti gli animali (nella similitudine, Cristo attira tutti gli uomini nel suo disegno di salvezza). Ma in questa raffigurazione di Bosch la pantera è predatrice, come a indicare una deviazione dal disegno divino primigenio.

Il registro centrale del Paradiso terrestre è occupato dalla Fontana della Vita: un riferimento piuttosto comune di nuovo alla Genesi (2:5-6): “[…] Perché il Signore Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra, né v’era uomo che la lavorasse; ma una fonte saliva dalla terra, e ne irrigava tutta la superficie”. La fonte nel dipinto diventa fontana, eppure la sua natura di costruzione artificiale è ardua da riconoscere: la fontana ha piuttosto il carattere di un ibrido eccezionale composto di forme insieme minerali e vegetali, in una fusione di architettura e botanica.

La fonte è poggiata su una base di rocce color petrolio da cui risplendono pietre preziose e cilindri di vetro, che fanno da appoggio ad alcuni uccelli esotici. Il risultato estetico della fontana è simile al gotico: tuttavia, quanto più lo sguardo dell’osservatore si fissa sui particolari, tanto più le sue guglie ardite (che sconfinano per altezza nel registro alto del quadro) appaiono composte di frutti, foglie e rami seghettati di un albero misterioso, il cui colore rosso-rosa richiama la veste del Cristo/Creatore (posto in basso, ma sullo stesso asse della fontana, che indubbiamente dialoga con la sua figura). La base della Fontana della Vita è rotonda, un disco internamente vuoto da cui fa capolino una civetta.

Alla destra della fontana prende forma una roccia che sembra raffigurare una testa antropomorfa di profilo, sulla cui sommità parte un albero con un serpente attorcigliato. Abbiamo di nuovo a che fare con la Genesi (2:8-9): “Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia: ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi; inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del male.” L’albero della vita è in primo piano alla sinistra di Adamo, quello della scienza del bene e del male, con il serpente attorcigliato, è sulla sommità della roccia antropomorfa nel registro centrale: i suoi frutti sono simili ad ananas, da poco giunti dalle Americhe.

La visione non è ancora completa: nel registro alto prendono forma montagne prevalentemente blu. Non sono montagne ordinarie: la materia di cui sono costituite sembra a tratti di origine minerale e a volte vegetale. Inoltre, sono presenti rocce zoomorfe e costruzioni che sembrano rassomigliare a macchine da guerra tardo medievali. La più occidentale tra le montagne è anche la più artificiale, pur essendo dipinta con colori più naturali: è una montagna-torre, dal cui interno sciamano stormi di rondini. Se si tratta di montagne, comunque, il loro carattere sembra quello di esseri viventi, e la loro forma è fortemente ibridata.

Ultimo sguardo: ai piedi del Cristo/Creatore e di Adamo ed Eva si apre un’oscura pozza d’acqua, brulicante di animali fantastici sia nei bordi sia all’interno. Sulla terraferma i protagonisti sono uccelli rapaci che divorano rane e altri animali di piccole dimensioni. Il loro aspetto è inquietante, ma non alieno da un certo umorismo macabro.

Dentro la pozza, un altro piccolo catalogo di mostri: un pesce che nuota a dorso servendosi di pinne che sembrano ali, un cavallo marino unicorno, un pesce con un becco d’uccello simile a una molla da caminetto.

La presenza maggiormente misteriosa è una sorta di tritone con un saio da frate, con il cappuccio che ne copre la testa e lascia scoperto il profilo di una specie di becco. Questo ennesimo monstrum è dotato di braccia e mani che reggono un libro. Le pagine del libro, osservate con una lente d’ingrandimento, appaiono bianche. Nell’anomalia complessiva del particolare, questo personaggio sembra nascondere un segreto ancor maggiore di quelli già presenti nel dipinto del Paradiso terrestre.

Fig. 5 – Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, pannello centrale.

Il giardino delle delizie

 

Il pannello centrale è il più grande e il più complesso del Trittico .

La prima osservazione prodotta dallo sguardo dello spettatore riguarda la compatibilità con il primo pannello: dal punto di vista cromatico e geografico, c’è un’ineludibile coerenza. La terra è dipinta seguendo il verde in sfumature che passano dal chiaro del terreno allo scuro delle macchie vegetali e delle chiome degli alberi, le acque sono ferme e grigie oppure ferme e tendenti al celeste. Vi è poi un andamento di prosecuzione dal pannello della Creazione di Eva al Giardino delle delizie che si conferma soprattutto nella congiunzione superiore delle colline e delle montagne. La sensazione di continuità è tuttavia interrotta da un diverso addensamento fisico: mentre nel primo pannello gli unici corpi sono quelli di Adamo, di Eva e di Cristo/Creatore, nel Giardino delle delizie i corpi umani affollano la rappresentazione. Come quelli di Adamo ed Eva, sono corpi nudi.

In primo piano – cioè nella parte inferiore del dipinto – le figure sono grandi quanto quelle del pannello precedente. Cosa vediamo? Figure snelle femminili e maschili prevalentemente bianche (ma sono presenti anche alcuni personaggi di pelle nera) suddivise in gruppi e gruppetti, ciascuno in contatto con frutti di misura abnorme, prevalentemente ciliegie, fragole e more. In alcuni casi i giganteschi frutti giacciono in equilibrio sulla testa degli umani (una grossa ciliegia ciascuno sul capo di due corpi africani, una coppia di ciliegie sul capo di una donna bionda più centrale), in altri sono mangiati direttamente da uomini e donne, in altri casi rappresentano nascondigli per i corpi.

L’associazione tra frutti di bosco e nudità spinge ad attribuire un significato sessuale alle scene dipinte da Bosch: alzando lo sguardo verso il registro centrale del Giardino si scorgono ancora more, fragole e ciliegie oggetto di giochi umani o di abbuffate momentanee, fino a una fragola grandissima in equilibrio su un gruppo di corpi accovacciati e alla presenza di ciliegie anche nel cielo, tenute in mano da esseri alati.

Una descrizione accurata ed esaustiva del Giardino delle delizie è improba. Il modo più semplice di procedere è la suddivisione tra registri geografici: inferiore, centrale e superiore. Proviamo a usare questo schema approssimativo. Registro inferiore: scene di comunanza sessuata tra esseri umani, con nutrita presenza di frutti deliziosi, di pesci fuor d’acqua e di uccelli.

Nel registro inferiore possiamo comprendere anche il primo specchio d’acqua, dove accadono cose impensabili: due amanti si sfiorano dentro una sfera di vetro che nasce dallo stelo di un fiore, un corpo rovesciato visibile solo dal torace in giù ha le gambe divaricate a Y e all’altezza dei genitali (coperti dalle mani) è sistemato un grosso frutto rosso dalla cui polpa emerge un uccello. Una consistente schiera di uccelli giganti affolla il settore di sinistra del registro centrale, mentre dal lato opposto un gruppo di umani coglie altri frutti dagli alberi (e uno di loro trasporta una fragola grande come una zucca).

Il registro centrale è occupato quasi interamente da una cavalcata di maschi che guidano nel percorso circolare ogni tipo di quadrupede all’epoca conosciuto e ritenuto esotico: riconosciamo, fra gli altri, dromedari, capricorni, cinghiali e felini giganteschi.

Non sono mai semplicemente corse a cavallo: decine di piccoli e stupefacenti particolari collocano nella scena ancora frutti, pesci, civette, ibis, uova; a volte appoggiati alle cavalcature, a volte tenuti dalle mani e dalle braccia dei cavalieri nudi. Al centro della scena una pozza d’acqua dove si bagnano donne dai lunghi capelli biondi. Senza entrare nel merito dell’interpretazione, va notato che nel terreno dove ha luogo la cavalcata circolare attorno allo stagno i maschi e le femmine sono separati e non hanno luogo accoppiamenti.

Nel registro superiore una fontana a base sferica, immersa per circa un quinto in acque chiare, ha una sporgenza centrale dove sembrano giocare alcuni personaggi, uno dei quali si esibisce in una pericolosa verticale.

La fontana a base sferica è collocata al centro di un quadrilatero, dei cui angoli sono custodi quattro torri ibride, minerali e vegetali insieme. Nel cielo alcune figure mitiche e angeliche spiegano le ali con in mano una grande ciliegia o cavalcano pesci volanti (è il caso di un tritone, dalla cui lancia – o canna – pende l’ennesima ciliegia).

La mia sommaria descrizione lascia fuori molti elementi certamente importanti, alcuni dei quali vorrei almeno nominare: un gigantesco corallo, tra la zona inferiore e mediana del dipinto, offre rifugio ad alcuni uomini; una civetta, un po’ più a destra, è appollaiata su un piatto che nasconde la testa di due danzatori, l’uno di spalle all’altro; vicino alla civetta un maschio con un mirtillo (o un acino d’uva) al posto della testa sembra dialogare con una donna distesa a poca distanza da lui; alla destra della scena della cavalcata del registro centrale alcuni uomini trovano rifugio nella carcassa di un gambero (o forse di uno scorpione).

Ultima notazione: nell’angolo in basso a destra del Giardino delle delizie un personaggio diverso da tutti gli altri fuoriesce da una piccola grotta: è un personaggio dai tratti marcati, e appare vestito senza fronzoli. Il suo indice destro è puntato su una figura di donna bionda stranamente pelosa o forse impellicciata che tiene nella destra un frutto. Nell’apertura della grotta sono collocati due cilindri, uno di pietra e uno di vetro, quest’ultimo disposto davanti alla donna trasversalmente. Il vetro ne consente comunque la visione per via della propria trasparenza. Anche in questo caso, come nel pannello della Creazione di Eva, l’angolo in basso a destra sembrerebbe contenere una dose aumentata di mistero.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, pannello centrale

L’Inferno musicale

 

Le dimensioni del pannello destro del Trittico sono identiche a quelle del pannello di sinistra (cm. 97 di larghezza per cm. 220 di altezza), ma non potrebbero esistere atmosfere pittoriche più lontane tra le due parti. Le tinte tenui e riposanti della Creazione di Eva lasciano posto al nero, al marrone, allo scuro (fig. 6). Dopo la complicata fantasmagoria del Giardino delle delizie, l’Inferno musicale piomba addosso allo spettatore con la violenza di un’esplosione.

Ed esplosione in effetti è, dipinta nel registro superiore del pannello: fuochi sprigionati da costruzioni che trovano spazio laddove negli altri due pannelli erano torri e monti ibridi, edificatisi in assenza di mano umana. Le costruzioni che vanno in fiamme tra baluginii resistenti all’oscuro notturno rivelano assedi e folle in fuga, e sovrastano l’intero pannello, che si rivela progressivamente – calando dall’alto verso il basso – una straordinaria galleria di torture per peccatori.

Prima di addentrarci nella descrizione dei supplizi, che occupano l’intero registro inferiore dell’Inferno musicale, occorre riconoscere che sono soprattutto due le raffigurazioni che catturano lo sguardo a una prima visione: la prima è un gigantesco paio d’orecchie che campeggiano nel dipinto a un livello sottostante l’incendio, tenute insieme da una freccia. Dallo spazio tra le orecchie, dritte come alberi, fuoriesce la lunga lama di un coltello. La punta della lama è assai vicina a una singolare zampogna poggiata su un disco circolare dove uomini nudi sono presi per mano da creature ibride (in primo piano un uccello antropomorfo che regge una torcia).

Sotto il disco prende forma un volto umano di dimensioni macroscopiche rispetto a tutte le altre figure umane del dipinto. Gli occhi dell’uomo guardano sia l’osservatore sia le proprie spalle, che in realtà spalle non sono. Siamo di fronte alla figura definita dell’Uomo-Albero, un essere letteralmente inimmaginabile, il cui corpo è costituito da un guscio d’uovo rotto in parte e i cui arti (due in tutto) sono alberi che affondano all’interno di imbarcazioni poggiate su acque ghiacciate. Alcuni rami appuntiti nati dall’albero di destra trafiggono il guscio, al cui interno un’improbabile compagnia di avventori è seduta a un tavolo mentre una figura femminile (cameriera od ostessa) riempie una bottiglia spillandola da una botte.

Nell’assurda taverna sta salendo grazie a una scala un individuo nudo con una freccia conficcata nell’ano, con addosso solo un mezzo saio. Un altro individuo è invece poggiato con fare pensoso sull’orlo dell’uovo, rimirando le scene in basso. La figura dell’Uomo-Albero giganteggia nel registro centrale dell’Inferno musicale, attirando l’attenzione dello spettatore e ritardando la visione di vari particolari terrifici, come un guerriero armato (alla destra del mostro principale) che serra nella mano sinistra una coppa d’oro mentre sei cani ne dilaniano il corpo.

La parte sottostante (registro inferiore) è dominata da scene di tortura che vedono protagonisti strumenti musicali di grandezza inusitata (mandolino, cetra, ghironda e fagotto) che diventano macchine di supplizio dietro cui si raduna un popolo di dannati.

Alla destra di questa scena un essere enorme e spaventoso con testa di rapace e un paiolo rovesciato a mo’ di corona divora e defeca dannati assiso su un trono dalle lunghissime gambe. L’espulsione dei malcapitati avviene in una bolla che li consegna ai liquami contenuti in una pozza sottostante, dove altri dannati stanno vomitando o defecando monete d’oro. Un lungo drappo chiaro parte dalla cintola del mostruoso sovrano, coprendo il corpo di un essere difficilmente definibile, sul cui posteriore si trova uno specchio che riflette il volto di una donna e di un demone dall’aspetto di canide. La donna giace inerte ai piedi del trono: ha un grosso rospo disegnato sopra il seno.

La visione sommaria dell’Inferno musicale si conclude con una movimentatissima scena di supplizio collegata al gioco, il cui tavolo – rovesciato – mostra un dannato con la mano destra trafitta da un pugnale mentre un demone con il muso da topo gli conficca una spada nel petto. Questo demone porta sulle terga uno scudo, al cui centro vi è una mano sinistra mozzata, con tre dita aperte come in una benedizione. Sull’indice e sul medio tiene in equilibrio un dado da gioco, e la mano stessa è assicurata allo scudo con un pugnale che ne trapassa il palmo.

Non è finita: dietro al tavolo rovesciato spicca tra le figure di demoni e dannati un essere con braccia lunghe e secche, protese in alto a tenere un tavolino da backgammon che sembra sul punto di essere scagliato; l’essere ha un muso da rettile ed esibisce una pancia gonfia che sembra un seno, e dove al posto del capezzolo vi è un frutto simile a una mora.

Appartengono a questo settore del dipinto numerose altre figure inquietanti, tra cui spicca una lepre grande come un uomo che inverte la consueta visione del cacciatore e della preda. È infatti la lepre a esibire il corpo di un uomo appeso a un’asta, come fosse un trofeo di caccia.

Nell’angolo in basso a destra un uomo riceve le attenzioni di una scrofa con il velo di suora, mentre un foglio di carta è steso sulla gamba sinistra dell’uomo e la scrofa intinge nell’inchiostro offerto da un mostro in armatura una penna d’oca, come a invitare l’uomo a firmare.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, pannello di destra, dettaglio.

Forme simboliche

 

Prima di affrontare le ipotesi interpretative del Trittico, vorrei introdurre alcuni elementi ricorrenti nel dipinto, che possono avvicinarci a una prima lettura simbolica di sfondo.

Frutti (ciliegie, fragole, more, mirtilli): sono presenti copiosamente nel grande pannello del Giardino delle delizie. Sono accostati in generale al desiderio e al godimento, con la doppia valenza – valida soprattutto per la ciliegia – di rappresentare anche l’innocenza associata a Cristo e al suo martirio (specie per il colore rosso acceso che comporta la spremitura). Il succo implica però anche l’associazione alla perdita della verginità (come nell’espressione inglese “popping your cherry”). Il nocciolo della ciliegia porta con sé un significato connesso alla rigenerazione e alla vita nuova.

Nel Giardino delle delizie sono presenti tutti questi aspetti simbolici. Innegabile è soprattutto la frequenza dei frutti come ispiratori e protagonisti psicologici della sensualità (desiderio sessuale-libidine del gusto), quasi si trattasse di un farmakon o di una droga (che scivola dal becco di un uccello alle labbra di un umano).

Gufo/Civetta: l’animale notturno è presente nel primo e nel secondo pannello. Nella Creazione di Eva è addirittura al centro del dipinto, all’interno del disco della Fontana della Vita. Nel Giardino delle delizie una civetta compare al lato destro del registro inferiore: troneggia sulla figura dei due danzatori “opposti”. Ha l’iride giallo che rende lo sguardo vigile e inquietante. Una prima associazione simbologica generale deriva dal vegliare della civetta e del gufo durante la notte, che li rende simili a guardiani e custodi. Una seconda, che ne ricorda l’associazione con la dea Minerva, fa riferimento al gufo e alla civetta come simboli del sapere e della scienza. Non va però dimenticato che la simbologia delle credenze popolari li collega all’asocialità e al distacco dalla luce spirituale.

Uovo: è presente in tutti e tre i pannelli. Nel primo costituisce il carapace bianco e punteggiato di piccole escrescenze madreperlacee di una sorta di tartaruga, all’altezza della base della Fontana della Vita e in fuoriuscita laterale destra (come uscendo dal pannello, in compagnia di rettili tricefali difficilmente collegabili a un’influenza positiva).

Un guscio vuoto di colore giallo è invece dipinto nel registro superiore sinistro, alla base della roccia ibrida dello stesso colore. In questo caso nel guscio sta entrando un gruppo di uccelli, mentre uno di loro è posato sopra il guscio e sembra vigilare.

Nel Giardino delle delizie un uovo è tenuto in equilibrio sulla testa da un cavaliere nella scena della cavalcata circolare. Siamo al centro esatto del dipinto.

Nello stesso pannello un gruppo di uomini e donne, a pochi passi dalla Fontana della Giovinezza, sta rientrando in un uovo screziato e in parte sgusciato.

Nell’Inferno musicale, invece, un guscio d’uovo, cui manca una parte consistente, costituisce il corpo centrale dell’Uomo-Albero.

Poco sotto l’Uomo-Albero un peccatore ricurvo tiene sulla schiena un uovo in difficilissimo equilibrio: la scena si svolge sulla sommità della gigantesca ghironda del registro inferiore. Il dannato tiene nella mano sinistra un bastone che sembra dover colpire il candido uovo.

La storia simbologica dell’uovo è molto antica e appartiene a una quantità di miti d’origine di diverse culture: rappresenta il simbolo di un seme primordiale capace di generare. Per la cultura cristiana, il colore bianco dell’uovo simboleggia perfezione e purezza, per l’alchimia l’uovo è simbolo di materia primordiale che evolve e genera trasformazione (tuorlo-oro). Tuttavia l’uovo è anche simbolo di fragilità e di estrema delicatezza: in questo caso il guscio vuoto rappresenta svuotamento e degenerazione.

Cristallo/vetro: sotto forma di tubicini splendenti, il cristallo è presente nella base minerale della Fontana della Vita, nel primo pannello.

Sotto forma di bolla soffiata, contiene gli amanti in effusione nel registro inferiore del Giardino delle delizie.

Cilindri di cristallo sono inseriti nelle basi della Torre rosa, nel settore di sinistra dello stesso pannello (registro superiore), e sono presenti sotto forma di condotti d’acqua anche in altre torri.

Elemento che sembra indurre alla concentrazione e alla meditazione, il cristallo nella tradizione alchemica è tenuto in mano dall’Androgino, simbolo della trasformazione evolutiva dell’umano. Incorporeità del corpo, il cristallo con la sua trasparenza simboleggia prospettiva futura. L’Inferno musicale ne è in effetti privo.

Fontana: abbiamo già segnalato che due straordinarie fontane si trovano nel Trittico, l’una nel primo pannello (“Fontana della Vita”) e l’altra nel secondo (“Fontana della Giovinezza”).

Nel primo caso ci troviamo di fronte a un classico tema biblico ripreso dalla tradizione medievale (già presente nell’arte paleocristiana): la fontana dove si abbeverano animali come cervi, colombe, pavoni rappresenta una sintesi dello stesso Paradiso terrestre. La simbologia della Fontana della Giovinezza rappresenterebbe, in ambito tardo-medievale e rinascimentale, una variante profana della Fontana della Vita. Mentre quest’ultima è certamente il soggetto dipinto consapevolmente da Bosch, il fatto che la fontana del Giardino delle delizie possa rappresentare l’eterna giovinezza è solo un’ipotesi, considerato che mancano nella scena il dettaglio – ricorrente nell’iconografia medievale – dei personaggi anziani usciti ringiovaniti dal contatto con le acque (nel pannello centrale è comunque visibile che nessun soggetto dipinto si discosta da una situazione di giovane adulto: mancano sia i bambini sia i vecchi).

Rondini: le rondini compaiono nel primo pannello (registro superiore sinistro: un ampio stormo disegna il proprio arzigogolato volo intorno agli anfratti di una grande roccia ibrida), nel secondo (registro superiore: cielo) e anche nel terzo (registro inferiore: alcune rondini escono dall’ano del peccatore che viene ingoiato da Satana con la testa di rapace).

Nel Medioevo la rondine era considerata simbolo di resurrezione e di primavera. Nei bestiari medievali si fa riferimento alla rondine per simboleggiare l’anima pentita e contrita. Forse anche nella truculenta rappresentazione del pasto satanico questo elemento continua a esercitare la sua influenza.

Uccelli: un gruppo di uccelli fuori scala è presente nel Giardino delle delizie, lato sinistro e registro semi-centrale. Sono stati identificati un cardellino, un picchio verde, un’upupa, un’anatra, un martin pescatore, un allocco.

Il loro significato è generalmente positivo, e deriva da un pensiero che ne riconosce una purezza maggiore rispetto agli animali terrestri (scriveva Ildegarda di Bingen nel Liber de subtilitatum diversarum naturarum creaturarum – composto tra il 1158 e il 1170 – che gli uccelli non vengono procreati con il calore della concupiscenza e che essi simboleggiano la forza che ispira agli uomini discorsi saggi. Essi possono essere associati all’anima). La simbologia degli uccelli è però talvolta ambivalente, come nel caso dell’upupa: nel Fisiologo paleocristiano si racconta che i giovani dell’upupa leccano gli occhi spenti dei genitori, fino a che questi non ridiventano giovani. Nel Bestiario medievale, invece, questo uccello è considerato impuro perché rovista nello sterco, diventando simbolo dei peccatori, associando il peccato alla sporcizia.

Pesci: sono presenti nel Giardino delle delizie due pesci di grandissime dimensioni nel registro inferiore. Il primo, al centro, disteso nell’erba del giardino, poco sotto un’aggregazione di nudi mangiatori di frutti. Il secondo, poco più sopra, è tenuto da un uomo che sta sostando davanti a un gazebo dorato nel cui interno si riconoscono altre due figure. Un altro pesce compare – portato come una lancia – da uno dei cavalieri del registro centrale.

Vi sono però altri due pesci degni di nota nel cielo del registro superiore: uno è tenuto dalle mani di un essere alato (lato destro), un altro è un pesce volante cavalcato da un tritone che piega la coda nell’atteggiamento iconografico dell’uroboro, mentre con l’altra mano tiene una canna con una ciliegia al posto dell’esca.

Difficile, dopo queste visioni, ricongiungersi alla “normale” simbologia dei pesci di ambito cristiano, dove i essi rappresentano Cristo e i suoi fedeli. Nel dipinto di Bosch i pesci sembrano piuttosto partecipare al clima sensuale della composizione, in funzione itifallica.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, pannello di sinistra, dettaglio

Dalla simbologia agli eventi: il clima storico-culturale del Trittico

 

Questa rassegna essenziale non ha il potere di definire con precisione gli intenti simbolici di Bosch, ma solo di varcare la prima soglia interpretativa del suo capolavoro. Collegando i significati simbolici di alcuni particolari del Trittico emerge infatti un’idea solo molto generale di come l’artista avrebbe potuto connotare alcune delle sue creazioni.

Per fare un altro piccolo passo avanti (e sempre a scopo propedeutico) occorre ora evocare due avvenimenti storici della massima importanza, che possono aver esercitato un’influenza sull’opera di Bosch. Forse sarebbe più corretto scrivere che non possono non aver esercitato un’influenza su Bosch, giacché si tratta di eventi d’importanza epocale.

Sappiamo che gli studiosi contemporanei concordano nell’attribuire al Trittico una datazione collocabile tra gli ultimi anni del XV secolo e i primi anni del XVI. Ciò significa che in Europa si era abbondantemente diffusa la notizia che il navigatore italiano Cristoforo Colombo, alla ricerca di una nuova rotta per le Indie, aveva intercettato una terra mai calcata da europei. Su questa terra, che si rivelerà presto tanto vasta da assumere la consistenza di un continente, si concentreranno le speranze, le proiezioni e le fantasie dell’immaginario europeo. Un immaginario imbevuto di elementi cristiani, che ora vengono ridiscussi e ripensati rispetto alle testimonianze dei viaggiatori e ai prodotti che dal nuovo continente cominciavano a giungere nella vecchia Europa. Anche se nel Trittico l’unico elemento certo di origine sudamericana è l’albero di ananas che sovrasta la roccia antropomorfa nel registro centrale della Creazione di Eva (e che abbiamo riconosciuto come “albero della scienza del bene e del male” per via del serpente attorcigliato sul fusto), il dispiegamento di ricchezze naturali e di invenzioni del Giardino delle delizie spinge a ritenere le nuove scoperte geografiche un fatto capace di agitare le menti più creative dell’epoca, come quella di Bosch.

La notizia che quel nuovo spazio oltreoceano fosse abitato da un’umanità sconosciuta e sulla quale – fino ai primi anni del ’500 – erano giunte le testimonianze di navigatori non ancora appartenenti al filone dei conquistadores restituiva un racconto imperniato sull’esistenza di società caraibiche (là dove giunse inizialmente Colombo) che sembravano associabili a basse tecnologie e a forme di intensa simbiosi con la natura. Ciò che veniva notato era dunque il carattere di “innocenza” degli autoctoni, che la successiva ondata di conquiste militari trasformò in carattere “selvaggio” (quasi un tertium tra la natura propriamente umana e quella animale). La presupposta innocenza dei nativi sudamericani costituì motivo d’interesse e di discussione intellettuale in Europa, inaugurando un nuovo esotismo e aprendo le porte a nuovi filoni narrativi e speculativi. Già agli inizi del XVI secolo prenderà piede una letteratura utopistica (a cominciare dall’Utopia di Tommaso Moro, 1516), collegabile – nella nostra chiave – all’esotico fermento immaginativo dovuto alla scoperta delle nuove terre e dei loro abitanti.

Prima della scoperta dell’America, tuttavia, un altro formidabile evento si era verificato nel mondo in cui viveva Bosch: si tratta dell’invenzione della stampa a caratteri mobili. La nascita di Bosch (probabilmente 1453) e la presentazione a Magonza della macchina di Gutenberg (1451) sono anzi eventi quasi contemporanei. Mentre il giovane Jeroen cresceva e intraprendeva la propria carriera artistica, la stampa gutenberghiana si diffondeva in Europa a grandissima velocità. Già nel 1462, al momento del saccheggio della città di Magonza (luogo di apparizione della stampa), molti degli artigiani specializzati nei procedimenti della stampa si sparsero per l’Europa, contribuendo enormemente allo sviluppo e alla diffusione della nuova tecnologia, il cui work in progress fu strabiliante:

Nel 1500 esistevano tipografie in più di 250 città europee: 80 in Italia, 52 in Germania e 43 in Francia. Gli stampatori avevano raggiunto Basilea nel 1466, Roma nel 1467, Parigi e Pilsen nel 1468, Venezia nel 1469, Lovanio, Valencia, Cracovia e Buda nel 1473, Westminster (distinta dalla City di Londra) nel 1476 e Praga nel 1477. Tutte queste stamperie produssero entro il 1500 circa 27.000 edizioni: in altri termini – considerando una tiratura media di 500 copie per edizione – a quella data, in un’Europa con circa cento milioni di abitanti, circolavano tredici milioni di libri. Circa due milioni di questi furono stampati nella sola Venezia, mentre Parigi era un altro importante centro di stampa, con 181 tipografie nel 1500. (Briggs- Burke 2000, pp. 25-26)

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, pannello centrale, dettaglio

L’Olanda e il Belgio (il Brabante, dove si trovava s’Hertogenbosch, era zona culturalmente mista) non erano certo estranei alle nuove produzioni: in Olanda tredici città ospitarono torchi entro pochi anni dalla ufficializzazione della macchina di Gutenberg, fra i più attivi quelli di Utrecht, Delf, Gouda, Deventer, Zwolle, Leida, Haarlem, s’Hertogenbosch. In Belgio la prima città tipografica fu Alost, seguita da Lovanio, Bruges, Bruxelles, Audenaarde, Anversa e Gand (Pampaloni et alii 1937).

Ci sono due motivi per cui l’invenzione della stampa può aver avuto un ruolo importante nella creatività di Bosch: il primo deriva dall’aumento innegabile della circolazione libraria, che mise gli strati colti della popolazione europea (di cui Bosch certamente era parte) in contatto con una quantità nuova di informazioni e di fonti. Il secondo proviene dalla natura tecnologica della stampa, che non solo rendeva possibile ad infinitum la riproducibilità della pagina composta, ma incarnava anche il modello di un intero nuovo modo di produzione, quello industriale, che era destinato a sconvolgere la cultura medievale. Anche il tardo Medioevo aveva conosciuto un principio di serialità: nei laboratori di varie città universitarie gestiti da commercianti specializzati (stationarii), giovani lavoranti ricopiavano testi che sarebbero stati ceduti o affittati agli studenti (sistema detto della pecia, cfr. Cristante 2011, pp. 69-70). L’organizzazione del lavoro era di tipo industriale, ma la tecnica di lavorazione era artigianale.

La stampa, nella seconda metà del XV secolo, ruppe gli equilibri concettuali e produttivi, perché consisteva di una macchina complessa che necessitava, per essere usata, di un particolare addestramento; dava inoltre vita a un prodotto sempre identico e costruito sulla linearità della scrittura, ora riprodotta in corpi standardizzati che rendevano obsoleta la ricerca di abbreviazioni. Si diffuse presto una tecnica di lettura silenziosa che privilegiava l’acquisizione unicamente visiva dello scritto rispetto alla lettura a voce alta, procedimento che era stato dominante per secoli. Il lettore, a cavallo tra XV e XVI secolo, ha già la possibilità di espandere il proprio solitario universo mentale a contatto diretto e personale con le scritture, sia manoscritte sia stampate.

Ma che tipo di lettore era – o poteva essere – Hieronymus Bosch?

Bosch lettore

 

Secondo la letteratura specializzata, due sono considerati i possibili committenti del Trittico delle delizie: Engelbert II di Nassau (1451-1504) e il nipote Enrico III di Nassau (1483-1538). Alla morte di Engelbert, Enrico III gli succedette come conte di Nassau e duca del Brabante, la regione in cui sorgeva s’Hertogenbosch. Entrambi avrebbero potuto aprire a Bosch le porte delle biblioteche di corte asburgico-borgognone. L’ipotesi è rafforzata dalla certezza che Filippo il Bello ordinò al pittore un trittico (forse quello del Giudizio) nel 1504 e che la suocera, Isabella di Castiglia, possedeva diversi dipinti di Bosch. Entrature per l’artista non mancavano, specie per l’accesso a un luogo di semplice documentazione.

La prima cosa da valutare è l’interesse di Bosch per ciò che avrebbe potuto fornirgli materiale per le sue creazioni. In questo senso i libri miniati (books illuminated) hanno esercitato una grande influenza sul pittore (Pokorny 2010, p. 283 e sgg.). Tra questi uno dei più diffusi all’epoca era la Visio Tnugdali (Visione di Tundalo), composto nel XII secolo dal monaco irlandese Marcus, che narra le tormentate visioni di un cavaliere dissoluto sospeso tra la vita e la morte per tre giorni. In questo lasso di tempo gli è concesso di visitare i luoghi ultraterreni: attraverso il viaggio iniziatico, Tundalo troverà la propria redenzione. Alla fine del ‘400, della Visione esisteva una quindicina di traduzioni nelle più varie lingue (tra cui l’islandese, cfr. Easting 1997, p. 70), e due edizioni olandesi a stampa: di queste la prima venne pubblicata ad Anversa nel 1482, la seconda proprio a s’Hertogenbosch due anni dopo (Bussagli 1988, p. 18). Se già la composizione del testo delle Visioni sembra in più punti richiamare la cupa e sorprendente atmosfera dell’Inferno musicale, la possibilità che Bosch abbia potuto tenere tra le proprie mani un’edizione miniata del libro del monaco Marcus sembra assecondata dalla somiglianza tra certe miniature dell’artista Simon Marmion (1425-1489, illustratore della Visione) e alcuni particolari dell’opera di Bosch. Molti studiosi prendono in considerazione la cosiddetta “bocca dell’Inferno” di Marmion, e la collegano sia all’Inferno musicale sia al tema caratteristico degli acrobati up and down presenti in più luoghi del Giardino delle delizie.

Secondo alcuni specialisti (cfr. Silver, 2006, p. 94) è anche possibile paragonare la delicatezza fisica e cromatica di Adamo ed Eva nel primo pannello del Trittico con le miniature di Marmion per il manoscritto Les sept âges du monde (Biblioteca reale di Bruxelles).

Un altro artista probabilmente giunto a Bosch attraverso la mediazione del libro miniato fu Hans Memling (ca.1435/1440–1494); le attribuzioni certe di sue miniature sono rare, ed è quindi possibile che Memling fosse conosciuto da Bosch anche per i suoi trittici e i suoi dipinti.

Riconosciuto straordinario miniaturista fu invece Jean Fouquet (1420-1481) cui sono state attribuite 51 miniature delle Grandes Chroniques de France (attualmente conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia), un libro che ebbe una certa eco anche nelle Fiandre, essendo dedicato a Filippo il Buono di Borgogna (Pokorny 2010, p. 285).

Anche i cosiddetti Libri delle ore fanno parte di un più che probabile consumo da parte di Bosch: sono libri che invitano il fedele a raccogliersi in preghiera secondo il canone cattolico, e rappresentano una esaustiva sinossi del tipo di orazioni raccomandate. Anche i libri delle ore erano miniati, tanto più riccamente quando appartenevano a personaggi di rango. Il Libro delle ore di Maria di Borgogna, per esempio, presenta una straordinaria continuità stilistica con ampie parti del lavoro di Bosch e in particolare con il Trittico: la scelta del “fuori-scala” (frutti e animali giganteschi), l’attenzione al gioco e alla facezia (con l’utilizzo spinto di trompe-l’oeil) e l’iterata mescolanza in alcuni oggetti costruiti con nature animali e vegetali (per esempio torri) sono questioni comuni a Bosch e all’artista anonimo chiamato Maestro di Maria di Borgogna, autore anche del successivo Libro d’ore di Engelbert di Nassau (le due opere furono complessivamente composte tra il 1477 e il 1490), in cui si riscontrano caratteristiche simili (Pokorny 2010, p. 286).

Per restare a libri le cui tracce sembrano fare da ispirazione a Bosch, occorre menzionare i libri di caccia, anch’essi in genere finemente miniati. È il caso del Livre de la chasse di Gaston Phebus (conte di Foix, dettò il testo a un copista tra il 1387 e il 1389), dedicato al duca borgognone Filippo l’Ardito e a suo figlio Giovanni l’Impavido (sono attualmente conosciute 44 copie dell’opera).

Due miniature anonime del libro di Phebus sembrano ragionevolmente essere state riprese da Bosch e inserite nel Trittico, entrambe nel pannello della Creazione di Eva: si tratta di un orso arrampicatore (nel Trittico è all’altezza del collo della giraffa) e di un felino (ne abbiamo precedentemente parlato come di una pantera con in bocca un topo).

Fino a qui abbiamo considerato Bosch come lettore interessato a cogliere materiali illustrati da poter rielaborare nei suoi dipinti. La questione delle miniature è, da questo punto di vista, assolutamente strategica: Bosch opera una sorta di traslazione creativa della miniatura dalla pagina del libro al legno del Trittico, senza rinunciare alla precisione di dettaglio. Considerato l’alto grado di densità figurale nel dipinto, occorreva un alto grado di perfezione per l’ingrandimento degli oggetti realizzato nella versione pittorica. Nello stesso tempo, Bosch ricava dalla miniatura anche caratteristiche di provocazione culturale, come l’uso sistematico del fuori scala e del gioco pittorico fondato su un’assonanza grafica con il gioco di parole, come era tipico dei piccolissimi dettagli illustrati. La miniatura viene dal passato, dal profondo Medioevo: Bosch la ripesca con sapienza e la carica di significati enigmatici e paradossali, al ritmo di una produzione seriale. Prende una forma esperta e localizzata nello spazio del manoscritto e dell’incunabolo e la attualizza attraverso l’esasperazione dei suoi caratteri originari, gettandola in una composizione nuova e moderna.

Ci resta da capire quali altri testi potrebbero aver raggiunto Bosch a cavallo tra XV e XVI secolo.

Un testo come lo Speculum humanae salvationis è tra quelli che con maggiori probabilità possono essere stati esaminati dal lettore-artista: si tratta di un breve (circa cinquanta pagine) diffuso manoscritto anonimo, illustrato, di teologia popolare, composto nei primi decenni del XIV secolo. Nello Speculum gli eventi narrati nel Vecchio Testamento sono esibiti come annunciazioni del Nuovo Testamento: ogni episodio evangelico era introdotto da tre prefigurazioni antiche. A tutt’oggi si sono conservate più di 350 copie dell’originale (scritto in latino), cui vanno aggiunte traduzioni in olandese, francese, tedesco, inglese e ceco. Lo Speculum fu tra le letture più diffuse anche nel XV e XVI secolo, potendo contare su una diversa composizione “a blocco” attraverso realizzazione xilografica, la cui matrice lignea includeva sia testi che illustrazioni (woodcut). Le versioni in blockbook furono quattro (due in latino e due in olandese), seguite da sedici edizioni più classicamente tipografiche (stampa a caratteri mobili).

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, pannello centrale, dettaglio

Un altro repertorio ad ampia circolazione europea era La mer des hystories (Parigi 1488, poi Lione 491), un compendio in francese della storia del mondo ripreso da una prima edizione in latino stampata a Lubecca nel 1475. La precisione della stampa e la ricchezza delle illustrazioni fecero del libro uno degli incunaboli più preziosi dell’epoca.

Il Brabante era anche la terra di Jan van Ruysbroeck, mistico fiammingo dalla lunghissima vita (1293-1381), che dedicò in larga parte alla devozione spirituale. Di lui si sono conservati undici trattati, in alcuni dei quali attacca i “falsi mistici” a lui contemporanei, in particolare gli aderenti alla setta cosiddetta del “Libero Spirito” (un gruppo adamitico considerato in odore di eresia, le cui convinzioni abbracciavano un cristianesimo recuperato alla naturalità dei sensi). La prima edizione stampata delle opere complete di Ruysbroeck è successiva alla morte di Bosch, ma per tutto il ‘400 circolarono nelle Fiandre copie dei suoi manoscritti, che influenzarono il predicatore olandese Geerte Groote (1340-1384), fondatore della comunità dei “Fratelli della vita comune” approvata dalla Chiesa di Roma. Sia Ruysbroeck che Groote annunciavano una religiosità ascetica ma non ritirata dal mondo: soprattutto i “Fratelli della vita comune” mettevano in atto un’esistenza fondata sul raccoglimento spirituale e sul lavoro, di cui apprendimento e insegnamento delle Scritture erano parte fondamentale. Da qui la necessità di avvicinare la Bibbia al popolo, fornendo le traduzioni per una lettura nel volgare dell’epoca. Molte delle esigenze della comunità, come si nota, concorsero a creare un clima culturale favorevole alla successiva Riforma protestante.

Attraverso Groote, anche Tommaso da Kempis (1380-1471) giunse nelle comunità del Brabante: come accennato in precedenza, Tommaso era un monaco agostiniano considerato il probabile autore di un libro devozionale, De Imitatione Christi, che conobbe un successo straordinario nel corso degli anni e dei secoli, ed è stimato come il libro cristiano più diffuso di sempre dopo la Bibbia. Imitare Cristo, per i protagonisti del filone mistico-mondano inaugurato da Ruysbroeck e rafforzato dall’intensa predicazione di Groote, significava immergersi in un cristianesimo capace di spingere all’auto-riflessione e alla comunione con Cristo rispettando una grande semplicità di costumi e una grande umiltà esistenziale. Sullo sfondo retorico di questo genere di predicazioni si agitavano i tempi della condanna dei comportamenti esistenziali non conformi con il messaggio evangelico, comprese le visioni della dannazione infernale, evocate con toni assai vividi nei sermoni. La combinazione di testi come il De Imitatione Christi e di prediche appassionate produceva probabilmente nello spettatore un fermento psicologico: nel silenzio della lettura individuale si accendevano grammatiche della dannazione influenzate dalle icone medievali della miniatura. Questo tuttavia avveniva in un nuovo spazio mentale, finemente iperrealista grazie al perfezionistico pennello di Bosch. Il nuovo spazio della mente consentiva di dare vita a una moltiplicazione di immagini, saturando il quadro in un insieme di sequenze che non hanno soluzione di continuità.

Non ci spingiamo oltre: considerare Bosch a conoscenza dei repertori miniati (dalla Visione di Tundalo ai Libri delle ore) non solo non è azzardato ma è ampiamente giustificato dalle tracce pittoriche conservate del Trittico. Per quanto riguarda invece le ultime opere citate, le probabilità che esse siano state tra le letture di Bosch aumentano, soprattutto se si pensa agli stretti rapporti tra i Fratelli della vita comune e la Congregazione di nostra diletta Signora cui apparteneva Bosch, e le cui attività caritatevoli ebbero pieno sviluppo grazie all’influenza spirituale e religiosa di Ruysbroeck e Groote.

Prima del duello: “che cosa vuol dire” il Trittico?

 

La biografia lacunosamente documentabile di un artista misterioso, il clima cittadino in cui fu immerso per tutta la vita, la descrizione visiva di uno dei suoi capolavori, l’elencazione ragionata del significato dominante di alcuni simboli ricorrenti nel Trittico delle delizie, la presentazione di due avvenimenti storici influenti su ogni biografia artistica (e non solo) dell’epoca di Bosch (la scoperta del Nuovo Continente e l’invenzione della stampa), alcune congetture sulle sue fonti iconografiche e di lettura. Tutti questi elementi non sono che il preludio a una domanda: qual è il significato del Trittico delle delizie?

Forse vale la pena ponderare ancora una volta la corporeità del dipinto. Oltre alle dimensioni, c’è da valutare la struttura scenica del Trittico.

Se richiuso, l’oggetto è un parallelepipedo di legno a base semi-quadrata (cm. 220 per 195). Se aperto, il Trittico è alto 220 centimetri e largo 389. La scena della creazione del mondo (Trittico chiuso) è suddivisa in due pannelli perfettamente complementari.

Il Trittico chiuso nasconde i dipinti interni. Non esiste un modo per riuscire a vedere la scena della creazione del mondo e contemporaneamente i tre pannelli del Trittico aperto. Quando il dipinto è chiuso diventa simile a una grande scatola (o a un grande libro) dal contenuto sconosciuto, annunciato dal magnifico bianco e nero della Creazione del mondo. Quando è aperto, non consente di vedere la bellissima scena in bianco e nero dipinta da Bosch sulla “copertina”. Anche qualora un osservatore si portasse alle spalle del dipinto aperto, l’unità della creazione del mondo verrebbe meno, e non resterebbe che osservare un pianeta diviso in due metà assai distanti tra loro.

Ne possiamo dedurre che la visione prescelta da Bosch per accostarsi al dipinto era organizzata necessariamente in tre momenti: 1) visione del Trittico chiuso; 2) apertura del Trittico; 3) visione del Trittico aperto. Questa sequenza fa pensare a un incipit teatrale: il palcoscenico si presenta con una scena allestita per accogliere uno spettacolo. Anche “La creazione del mondo” è parte dello spettacolo, ma – per quanto potente – è destinata a una funzione introduttiva: una volta aperto il dipinto, essa è dimenticata e scomposta in due metà tra loro distanti nel retro del dipinto aperto.

La presenza di cardini e cerniere nei pannelli del Trittico fa ritenere che, una volta aperto, il grande dipinto assumesse una posizione non lineare (come invece mostrato in tutte le riproduzioni fotografiche e nella stessa esposizione del Trittico al Prado di Madrid). Dunque il trittico non era esibito necessariamente in

questo modo (a)

ma forse in questo (b)

o più probabilmente in questo (c)

Dei tre pannelli dell’opera – una volta “aperta” – quello centrale è destinato alla visione immediata sia in (b) sia in (c): in entrambi i casi lo spettatore (la freccia) si troverebbe collocato di fronte al Giardino delle delizie. Girandosi a sinistra incontrerebbe La creazione di Eva, mentre a destra avrebbe l’Inferno musicale. Diciamo che la posizione tradizionalmente assunta dallo spettatore premierebbe la visione del pannello maggiore. È quindi sul Giardino delle delizie che si addensano le maggiori attenzioni dell’artista, perché la sua visione precederebbe l’osservazione degli altri due pannelli. Solo in un secondo momento lo spettatore potrebbe cogliere la luce del Giardino delle delizie come prosecuzione della luce vivida proveniente dalla Creazione di Eva e come contrasto al buio dell’Inferno musicale.

Infatti il Giardino rappresenta il vero scoglio di senso dell’opera di Bosch. Abbiamo un Paradiso terrestre (o Creazione di Eva) iconograficamente comprensibile, e un Inferno dove vari tipi di peccatori sono tormentati in sofisticati supplizi ad hoc. Per quanto visivamente sorprendenti, il Paradiso terrestre e l’Inferno musicale sono ciò che rappresentano, cioè visioni della Creazione di Eva e visioni infernali, in particolare imperniate sugli strumenti musicali. Ma che cos’è il pannello centrale, il cui nome, pur del tutto indipendente dalla volontà di Bosch, è trasferito all’intero dipinto?

Prendo in prestito da un autore che ha a lungo studiato Bosch una rapida sintesi critica sul Trittico. Con queste parole Mario Bussagli passa in rassegna la principale letteratura sul dipinto sedimentatasi nel corso del tempo:

Nell’inventario inviato a Filippo II perché scegliesse e acquistasse dalle collezioni del precedente proprietario (don Fernando, priore dell’Ordine di San Giovanni e duca d’Alba), la composizione figura come “una peintura de la variedad del mundo”, mentre José de Sigùenca, che per primo la descrive, la chiama il quadro “delle fragole”. Gli antichi scrittori spagnoli la chiamano “la lujuria” (la lussuria) e in un catalogo figura come Le delizie terrene. Se arriviamo ai moderni, W. Friedlander vi scorge “l’apoteosi del peccato” (1941); H. Daniel una “satira delle vanità” a opera di una specie di Savonarola nordico (1947); Fraenger (1947) l’Ars amandi degli Adamiti (e infatti il motivo sodomitico vi è ben chiaro e ricorrente); R. H. Wilemski “la vita nell’Eden” (1958); E. H. Gombrich “il mondo prima del Diluvio” (1967), mentre Huebner la definisce “Comoedia Satanica” (1965). Baldass, Combe, Bax e Puyvelde vi scorgono un elemento moralistico di fondo e un intento didascalico. Tolnay la vede come una visione onirica di un’umanità tormentata dall’ansia di dar sfogo agli impulsi repressi dell’inconscio, con riferimento sia al profeta Baruch, sia alle teorie sui sogni di Macrobio; e come sogno a occhi aperti lo interpreta il Linfert, che vi scorge anche un riflesso di appagamento o di esorcizzazione. (Bussagli 1988, p. 21-22)

Tra tutti i riferimenti citati da Bussagli vorrei isolarne due: Wilhelm Fraenger e Dirk Bax. Quest’ultimo, filologo olandese, affrontò il Trittico e altri dipinti di Bosch con un’attenzione specifica alla relazione tra immagini simboliche e motti (dai proverbi alle frasi di uso comune) presenti nel Middle Dutch, cioè nella lingua materna dell’artista fiammingo. Con questa chiave il dipinto si scompone in una serie di crittogrammi, ciascuno pertinente rispetto a un “modo di dire”. Ad esempio in una scena piccolissima ma centrale del Giardino delle delizie, alla base della cosiddetta Fontana della Giovinezza, si apre un pertugio circolare che lascia intravvedere una scena erotica, dove un uomo tocca una donna sul pube. Alle spalle della donna un’altra figura. La donna allunga il braccio verso una figura curva, di cui sono visibili solo le natiche. Nella lingua dell’epoca di Bosch “curvarsi” si diceva “bugen”. L’omosessualità veniva chiamata “bugerie”. Ecco quindi che il particolare diviene l’illustrazione di una potenziale piccola orgia, in cui sono presenti sia concupiscenze eterosessuali sia desideri omosessuali, entrambi evidentemente peccaminosi. Secondo Bax (1956, passim) l’associazione – come alcune altre, anche se meno esplicite – richiama la concezione di un’estrema sessualizzazione del mondo presente nel Giardino delle delizie, portatrice di peccato da moralizzare.

Tuttavia la spiegazione del dettaglio potrebbe essere diversa. Rivediamo l’immagine.

Il gesto della donna, il braccio steso verso la figura curvata, potrebbe anche rappresentare un allontanamento dalla figura di cui si vedono solo le natiche. In questo caso la scena potrebbe anche significare il rifiuto dell’accoppiamento, sia in un senso di negazione del rapporto plurimo eterosessuale od omosessuale (visto che il posteriore non ha una chiara identificazione maschile o femminile), sia nel senso che la donna potrebbe indicare al maschio che la sta toccando di rifiutare la tentazione sodomita. C’è poi un ultimo particolare che potrebbe modificare in un’altra direzione il significato della scena: il riflesso del posteriore nell’acqua non sembra replicarne l’immagine, prendendo le fattezze di una specie di volto, forse di mostro marino. Non mi azzardo a fornire un’interpretazione di quanto osservato. Formulo piuttosto una considerazione di carattere più generale: scegliendo di affrontare il Trittico come un insieme di crittogrammi separati, accoppiando a ciascuno un significato tratto da un dizionario delle espressioni popolari, religiose e specialistiche, ci si espone al rischio di un’invasione da parte dei simboli che Bosch impone al dettaglio, moltiplicandone la direzione. È un gioco appassionante che mette a dura prova un’erudizione per quanto interdisciplinare, ma non è mai un gioco risolutivo.

Una diversa impostazione ermeneutica del Trittico proviene da Wilhelm Fraenger, uno studioso d’arte tedesco dotato di un’ottima penna. Fraenger si impegnò in ricerche storiche aventi come focus la cosiddetta comunità dei Fratelli e delle Sorelle del Libero Spirito, una setta eretica il cui appellativo (“adamiti”) fa immediatamente pensare a un ritorno alle origini naturali. Fraenger escogitò l’uscita dal panico interpretativo sul Trittico proponendo un maestro spirituale per Bosch. Si sarebbe trattato di Jacob de Almaengien, capo degli adamiti, ricco ebreo convertitosi al cristianesimo e che più tardi rientrò nell’alveo dell’ebraismo. Il giardino delle delizie sarebbe un dipinto commissionato e suggerito dal Maestro stesso, in cui il messaggio del gruppo iniziatico avrebbe dovuto trovare espressione criptata ma comprensibile ai membri della comunità adamitica.

Il pannello del Giardino delle delizie, secondo Fraenger, rappresenterebbe il mondo come sarebbe stato se Adamo ed Eva non avessero ceduto alla tentazione. Si tratterebbe quindi di un’utopia, il cui scopo consisterebbe nell’anticipare l’epoca in cui l’umanità avrà espiato il peccato originale. Così scrive l’autore a proposito dell’intero dipinto (Fraenger 1947, pp. 24-28):

Le ante esterne del Trittico lo indicano chiaramente, confermando peraltro l’infondatezza dell’interpretazione tradizionale: l’esaltazione dello stato d’innocenza dell’uomo è il tema conduttore dell’intero dipinto. Queste ante rappresentano infatti, in una forma solenne e ispirata, l’universo come poté presentarsi il terzo giorno della creazione, quando emerse dal caos originario e si ricoprì della prima vegetazione. In quella misteriosa sfera di cristallo si trova celata una concezione del cosmo troppo profonda, un pensiero religioso troppo universale perché, nel pannello centrale, il mondo possa degenerare assurdamente in un semplice labirinto di sensi smarriti. (…) Per quale culto di tipo cristiano è stato concepito questo dipinto? Giacché l’anta che introduce la trilogia rappresenta il Paradiso in cui il Creatore unisce Adamo ed Eva, e giacché il pannello centrale presenta una moltitudine di giovani visibilmente generati da Adamo ed Eva, non può che trattarsi di culto adamitico. (…) I figli di Adamo ed Eva che popolano il pannello centrale del nostro dipinto devono essere intesi nel senso di un tale ritorno allo stato di purezza originaria dell’uomo. Essi sono “rinati” attraverso la mediazione esoterica di Adamo, hanno ritrovato grazie a lui la condizione originaria del Paradiso. (…) In questa prospettiva, l’anta dell’Inferno appare come un supplemento estraneo rispetto ai due Paradisi. (…) Per spaventoso che sia, l’Inferno dell’anta laterale è là come un semplice avvertimento destinato alle anime cieche, chiuse alla Buona Novella. (…) Quelli che non possono sfuggire al castigo infernale sono i membri della vecchia chiesa con i suoi monaci e le sue badesse; sono i figli di questo mondo: i musici, i saltimbanchi, i giocatori o i cavalieri.

Ecco quindi la dotazione di senso che Fraenger attribuisce al Trittico. Il metodo che lo storico d’arte tedesco utilizza per rendere convincente la sua tesi è deduttivo: una volta scoperta la via d’accesso generale al dipinto, Fraenger ne riscontra l’inveramento attraverso la decifrazione della “crittografia del simbolo” (ivi, p. 47), riesaminando una gran quantità di scene e di dettagli alla luce di letture insieme colte e nascoste che Bosch incardinerebbe al proprio dipinto, facendo tesoro delle suggestioni gnostiche, alchemiche e mistiche radunate dai Fratelli del Libero Spirito e trasmessegli dal Maestro de Almaengien. Questi sarebbe anzi stato raffigurato dal pittore nel particolare della caverna che chiude l’angolo inferiore destro del pannello del Giardino delle delizie.

Novello Adamo (nel senso del recupero integrale di umanità angelica così come si manifesta in alcuni scritti dell’umanista italiano Pico della Mirandola), il Maestro si manifesta come sorta di demiurgo dell’Ars amandi racchiusa nel pannello centrale del Trittico, confliggendo con il proprio doppio degenerato, proprio quell’Uomo-Albero che giganteggia nell’Inferno, e che non a caso, secondo Fraenger, guarda negli occhi – con malinconia – lo spettatore, come a rivolgergli un monito: il disseccamento della vita spirituale conduce alle contrade infernali.

Il lavoro di Fraengen procede fascinoso ricostruendo simbolo dopo simbolo una lettura interpretativa piacevole come quella di un libro giallo (e non a caso il nome del Maestro e i dettagli del suo insegnamento giungono solo nella parte finale del saggio). Tuttavia abbiamo già notato a proposito della lettura di Dirk Bax il problema connesso al microscopio dei particolari: è sufficiente incontrare segnali non conformi alla lettura generale anche in un solo crittogramma per veder vacillare la costruzione sistemica. Inoltre, le informazioni storiche su Bosch non ci forniscono aperture – se non puramente indiziarie – di una sua appartenenza ad alcuna setta, mentre sappiamo per certo che egli fu “notabel” della cattolicissima Congregazione di Nostra Diletta Signora, gruppo religioso che aveva tra i suoi riferimenti sapienziali nemici giurati della setta degli adamiti. Ciò che Fraenger dà per certo è un’interpretazione non solo indiziaria, ma discutibile ab initio, perché le poche indicazioni che possediamo sulla vita di Bosch vanno in direzione contraria a quella prospettata.

Il Trittico continua dunque a sfuggire a una comprensione ermeneutica per chiavi ultimative, frutto di un unico disegno intellettuale/sapienziale o viceversa dello spezzettamento del dipinto in tanti tasselli aggrediti da un’indagine simbologica. Restano allora le considerazioni di un esperto come Roger-Henri Marijnissen (1995, p. 14):

Tante scene di questo dipinto sono state decifrate attraverso ricerche laboriose in una gran quantità di campi: filologia, storia del diritto, folklore, letteratura, alchimia, astrologia e via dicendo. Quelle che rimangono enigmatiche e oscure sono ancora le più numerose. Ma credo che l’essenziale del messaggio destinato ai contemporanei di Bosch non lasci dubbi: Dio ha creato il mondo e poi Adamo ed Eva, ma l’umanità, trascinata dai desideri e dai vizi seducenti ma futili, dimentica il passaggio all’al di là; e così si incammina verso la dannazione eterna.

Può sembrare una soluzione sensata. Ma ci soddisfa?

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, olio su tavola, trittico con cornice 384,9×205,5 cm, Madrid, Museo del Prado, pannello di destra, dettaglio

Lo scarto di De Certeau

 

Nel 1982, Michel De Certeau pubblica Fabula mistica, un insieme di saggi che ha come protagonista la “parola mistica” nei secoli XVI e XVII. Il secondo saggio dell’opera si intitola “Il Giardino: deliri e delizie di Hieronymus Bosch”. In poco più di venti pagine, De Certeau, fin dalle prime righe del saggio, racconta del suo perdersi e vagabondare nel dipinto “per mesi”. Ed enuncia presto una tesi:

Percorrendolo si moltiplicano gli incontri, squisiti piaceri dell’occhio che viaggia: il rosa di un megalite, il profilo di un raccoglitore di arance, gli innamorati in una storta a forma di fiore, ma queste delizie punteggiano cammini privati di senso. Godimenti ciechi. Che luogo è questo, locus voluptatis, come altri giardini amorosi o mistici? Cosa vi accade? Il quadro si fa opaco quanto più si dettaglia la prolifica epifania di forme e colori. Si nasconde mostrandoli. Organizza esteticamente una perdita di senso. (De Certeau 1982, p. 53)

Un quadro chiuso e una folla di commenti disseminati: di alcuni De Certeau si libera subito. Di Fraenger per esempio:

(…) da osservatore acuto che fa la posta a tutto ciò che potrebbe “far segno” vuole costringere l’“oracolo muto” a parlare in ogni caso: la sua macchina-dizionario (questo “vuol dire” quello) obbliga ogni significante a confessare un significato, e trasforma così il quadro nella trascrizione di un sistema testuale. (Ivi, p. 54)

E poi di Bax:

(…) il segreto del Giardino suscita un’esorbitante attenzione ai suoi dettagli. Lavoro di Sisifo. Curiosità prigioniera del rebus-crittogramma”. Il quadro gioca sul nostro bisogno di decifrare. Rende schiava la pulsione occidentale di leggere. (…) Racconti letterari sembrano generati all’infinito dal Giardino delle delizie. Di fatto questi colti racconti (le mille e una notte dell’erudizione) seguono, o ritardano, o denegano il momento in cui il piacere di vedere è la morte del senso (ibidem).

De Certeau ci dice che la perfetta coincidenza di significante e significato ricercata dalla pittura medievale in Bosch si frattura: il significante assorbe un’autonomia all’epoca non consentita, e si prepara ad agire nell’occhio dello spettatore come la promessa di una ricollocazione coerente in un disegno maggiore, che non viene rivelato; ogni singolo frammento chiede alla curiosità umana e alla logica “museale” e “collezionistica” del moderno una sequenza più ampia, dove correttamente incasellarlo. La promessa non è però mantenuta, perché il simbolo rifiuta una generazione completa di discorso, e non si muta in un’allegoria (scrittura attraverso pittura). La tracimante pienezza dei dettagli, colmando ogni particola di spazio, tuttavia determina un vuoto, e non un pieno, di significato. Occorre spostarsi sulle norme di produzione dell’opera:

Se non è possibile spiegare “cosa vuol dire” il quadro di Bosch (…), è però possibile analizzare come, secondo quali regole si produce. Anche tale sostituzione è tipica: alla ratio del significato succede una ratio della fabbricazione. A questo proposito, i Bosch-drollen, le “buffonerie” di Bosch (i “racconti buffoneschi”) non raccontano una “storia”, passata o immaginaria, bensì la storia della loro produzione. Mettono in scena una combinatoria che moltiplica le possibilità di rapporto fra elementi e, con ciò, decostruisce e ricostruisce forme. Questa pittura è un’arte di fare (e non un’arte di dire) nella quale artista e artigiano sono tutt’uno. (Ivi, p. 66)

De Certeau si mette alla caccia dei “procedimenti” usati da Bosch per “produrre fantastico”, e si imbatte nei due movimenti ossessivi di “chiusura nel globo” e nel suo contrario, “l’effrazione”.

La forma “perfetta” si scorna o si scava, per far posto al suo altro. Forse, uovo spezzato o bolla cristallina, la coincidenza dei due “momenti” – chiusura e la schiusura – riguarda parimenti il globo terrestre, il giardino del delirio-delizia, l’abbraccio androgino e il narcisismo dell’immagine stessa. (Ivi, p. 67)

Ciò che De Certeau vede nel Trittico è un insieme di strategie di composizione formale, angoli d’arresto, globi chiusi e trasparenti e globi dischiusi e opachi, triangoli formati da animali della stessa specie, la presenza di frutti rossi nei quattro angoli del Giardino. Quasi un racconto di viaggio condotto con una mappa dettagliatissima ma irreale, che si rivelerebbe come un’arte della memoria (macchina rinascimentale per richiamare alla mente informazioni e saperi) resa più stupefacente da una nuova irruzione di elementi formali, come la coppia “miniaturizzazione-ipertrofia”, o lo scivolamento del simile nel dissimile fino al trionfo delle forme ibride e metamorfiche.

Anche i corpi umani partecipano di questa rivoluzione geometrica con limitato numero di angolazioni, tuttavia variando la posizione, e anzi ponendo in corrispondenza elementi riferiti a un’unità primigenia (come nell’Androgino primitivo del Simposio di Platone), spezzata dal trasferimento da una parte all’altra del Trittico e da una parte all’altra del pannello del Giardino.

I corpi formano aste di lettere alfabetiche e maiuscole ornamentali da titolo, un concatenamento di forme e di tratti, insomma, una scrittura bella ma illeggibile. Scrivono senza “parlare”. Al contrario degli uomini-simboli di ieri, non sono né parole né sensi, bensì grafi silenziosi, dritti, inclinati, rovesciabili e mutabili, che si scrivono senza che si sappia ciò che scrivono. Perdute a se stesse, disegnano piuttosto una musicalità di forme – glossografia e calligrafia. (Ivi, p. 76)

È una conclusione simile a quella cui arriva anche Massimo Cacciari (1981), pur lavorando sull’approfondimento della dimensione simbolica, già in grado di spiegare l’inutilità della ricerca di un codice di disvelamento dell’opera di Bosch:

Ma la dimensione simbolica è irriducibile a questa dialettica significato-segno, ragione-scrittura; non si può catturare-comprehendere il simbolo in un fisso che cosa. Il fatto stesso che sia necessario, di fronte a un’opera come il Giardino, riferirsi a fonti diverse e spesso lontane, combinare tradizioni filosofiche, religiose, iconologiche di provenienza disparata, non è sintomo di superficiale eclettismo, ma attiene alla natura del simbolo, ai modi in cui il simbolo opera. La sua spiegazione appare perciò, sotto certi aspetti, interminabile: essa non darà mai capo a una solida sostanza, a un contenuto univocamente determinato. (Cacciari 1981, p. 25)

Lo scarto operato da De Certeau sposta su un altro piano l’interpretazione del Trittico, abbandonando la necessità di una spiegazione definitiva e abbracciando la suggestione che sia il grande quadro a guardare lo spettatore, e non solo il contrario. Sguardi si alzano dal Trittico su chi guarda, da quello melanconico dell’Uomo-Albero dell’ultimo pannello a quello fermo di Cristo del primo. Ma sguardi diretti a chi guarda partono anche dalla civetta “dei danzatori” e dall’unica figura maschile vestita nel pannello del Giardino delle delizie. Avvertimenti, coinvolgimenti, segnali? Non lo sappiamo. Lanciare un richiamo al visitatore sembra l’intento di questi importanti particolari del quadro: quasi un modo per avvertire ciascuno che è possibile organizzare un proprio singolare viaggio intorno e dentro al quadro.

L’umanità nell’opera-mondo

Diamo un ultimo sguardo al Trittico, depurandoci dall’ossessione della “vera” chiave di lettura del dipinto. I tre quarti del Trittico aperto sono avvolti in una luce naturale beneaugurante: questa luce parte dalla Creazione di Eva e rende placido e sereno lo spirito dell’osservatore, per poi agitarlo nel pannello del Giardino, non a causa del cambiamento dello spettro visivo ma del passaggio dalla stasi del primo pannello al vorticoso movimento del secondo. L’Inferno parte buio e incendiato nel registro superiore e assume in quello inferiore l’illuminazione artificiale di una taverna. L’Inferno musicale è in realtà un interruttore, un tasto che spegne il dipinto. Non è un’ipotesi differente da quanto prospettato nel primo e nel secondo pannello, paventandone i rischi: è la scelta di chiudere, di dire che cosa diventa l’umanità quando gioco, guerra, lascivia, superbia, frastuono, avarizia, gola e menzogna prendono il sopravvento.

Il primo interruttore – cioè il primo accesso al dipinto – è in realtà il mondo visionario delle ante richiuse. Ecco la porta. Una soglia che ha potentemente a che fare con l’oggetto/dipinto (l’esterno è la cassa che protegge il Trittico) e soprattutto con la sua messinscena: distratti dalle mille versioni splendidamente fotografate nei repertori d’arte, dimentichiamo che il Trittico fu realizzato per essere visto dal vivo e per destare stupore e meraviglia. Funzionò con i reali di Spagna, committenti e acquirenti di opere d’arte esigenti e preparati. Lo stesso Filippo II voleva i quadri di Bosch nei suoi domini privati, come spettacolo per sé e per stupire gli ospiti che avevano accesso alle sue stanze.

Il mondo lattiginoso e affascinante creato da Dio si apre agli abitatori dell’interno del quadro: qui l’estasi calma della Creazione di Eva convive con segnali inquietanti di anomalia e mostruosità, per tracimare nell’antropologia fantasy del pannello centrale. Poi, lo spegnimento infernale.

Trovo molto importante quello che ho chiamato lo “scarto” di De Certeau: una lettura che consente di rispondere alla criptografia del Trittico con una visione ritmica, derivata dalle assonanze tra le forme disegnate da Bosch e il loro precipitarsi in una zona evidentemente sensibile e recettiva della nostra mente. Che non è, ricorda Cacciari, la stessa mente del visitatore del XVI secolo.

Che cosa dice a noi uomini e donne di 500 anni dopo quel dipinto? Ancora stupore e ancora “teatro” rimbalzano in una visione emotiva del Trittico: anche lo spettatore più distratto sente di essere davanti a un’avventura inaspettata e unica. Senza che ci sia lo spazio per avvedersene, l’interpretazione e la visione coincidono: gli occhi si spostano da una figura in esercizio ginnico a un insieme di pertugi dove si infilano o fuoriescono uomini e donne con la pelle candida. Come ciascuno di noi organizza la propria osservazione così ciascuno di noi insegue una propria ermeneutica sul Trittico, senza che essa possa mai essere risolutiva. Eppure interrogando spettatori diversi si otterranno elenchi difformi delle figure “notabili”, una differente riemersione di dettagli microscopici, insistenze narrative e persino opinioni diverse sugli oggetti rappresentati da Bosch (carcassa di gambero o di scorpione nel registro centrale destro del Giardino delle delizie?).

La maniacale precisione di Bosch nel riprodurre ogni tratto del Trittico ha spinto per secoli l’interpretazione verso l’idea della “chiave perduta”. Invece la ricorsività dei simboli e la riproduzione tecnica delle icone appartenenti a più universi (l’uovo per quello alchemico, l’atteggiamento e la postura di Cristo per quello religioso, il tritone per quello mitologico, eccetera) richiamano una stratigrafia simbolica che si risolve in un elevamento a potenza della complessità.

Del pannello centrale di un’opera che altri – e non Bosch – ha chiamato Giardino delle delizie resta visibile l’atmosfera solare e priva di violenza, immaginifica e movimentata. Questo è un punto molto importante: la postura dei corpi produce – sia nella cavalcata del registro centrale sia nell’aggregarsi di figure di amanti e di mangiatori di frutti sia nelle figure volanti – la magia del movimento. È una “magia” che la somiglianza dei corpi e dei volti avvicina a fotogrammi cinematografici aventi come protagonisti gli stessi soggetti, che si spostano e si producono in atteggiamenti che vanno letti ricorsivamente.

Il Trittico è un libro, anzi, un repertorio enciclopedico di immagini e di aspirazioni religiose, perché è ancora la religione a offrire – nell’epoca di Bosch – il principale terreno sapienziale: si organizza non per “messaggi”, destinati a evaporare nella Babele dei significati simbolici, ma per temi. Ne propongo alcuni a mo’ di sintesi, suddivisi a loro volta come simulacri di trittico.

Mostro/ibrido/metamorfosi: è il tema della mutazione, affrontato prima come mutazione dell’umano (il mostro: da umano a demone, da umano ad animale), poi come mutazione dell’oggetto (l’ibrido: le torri vegetali-minerali, il frutto-lampada degli amanti) e infine come mutazione degenerativa (la metamorfosi: la bolla espulsa dall’ano di Satana/uccello come corrispettivo degenere della bolla degli amanti).

Bidimensionalità/bassorilievo visivo/cinema: l’egemonia della terra piatta è ancora dominante in Bosch, ma all’interno della concezione medievale tendenzialmente bi-dimensionale si apre una prima frattura attraverso le forme a bassorilievo, specie gli anfratti al cui interno si riconosce un insieme di donne e di uomini, che danno un senso inedito di profondità. Infine, ciò che ho chiamato “la magia del movimento”: l’accostamento di corpi e di figure così simili da coincidere in micro-luoghi diversi del dipinto e che danno l’impressione di spostarsi nello spazio, assimilando la visione a un disegno animato (come in un film a tecnica mista), dove si incontrano e interagiscono rappresentazioni quasi-fotografiche degli esseri umani e disegni di esseri di fantasia.

Acrobati/mondo Up & Down/alchimia: la forma dell’essere umano che si produce in posture acrobatiche è molto presente nel Trittico, e soprattutto nel Giardino. Si accoppia all’acrobata l’idea di “sotto-sopra” estesa percettivamente a un numero elevato di elementi che fanno pensare all’intero mondo. La visione rovesciata sposta la percezione verso tutto ciò che ricorda segni ed emblemi alchemici; non serve rovistare nell’infinito deposito dell’esoterismo per cogliere nel dipinto un’indicazione generale: pensare al mondo come lo scenario di una complessa partita di trasformazioni e di controllo simbolico sugli elementi. Ciò ci rimanda, ricorsivamente, alla questione della messa in scena della mutazione.

Il Trittico delle delizie è perciò un dipinto che determina una percezione da teatro-mondo. Per quanto le influenze e gli spunti esterni presenti nel Trittico siano numerosi e rilevanti, si tratta di un risultato inedito. Ecco perché considero interessante cercare, in conclusione di questa esplorazione del capolavoro di Bosch, un collegamento con l’espressione “opere-mondo” coniata da Franco Moretti (1994) a proposito dei grandi lavori letterari otto-novecenteschi come Faust, Moby Dick, L’anello del Nibelungo, Ulisse, Cantos, La terra desolata, L’uomo senza qualità, Cent’anni di solitudine. “Questi – scrive Moretti – non sono libri qualsiasi. Sono monumenti. Testi sacri: che l’Occidente moderno ha a lungo scrutato, cercandovi il proprio segreto” (Moretti 1994, p. 3). Non si tratta per il Trittico di aderire a questa stessa – problematica – prospettiva? E non si tratta anche, come afferma Moretti, di ammettere che la storia letteraria considera queste opere come fenomeni isolati, cioè “casi singoli, stranezze, anomalie”?

Ha però ragione Cacciari a rammentare che l’epoca di Bosch avviene nel passaggio dalle visioni del mondo medievale a quelle della primissima modernità (scandita, come si è affermato, da mega-eventi come i viaggi transoceanici e l’invenzione della stampa). Cacciari infatti parla di “opere-crisi, terminali” (Cacciari 1981, p. 25). In quel periodo si verificava un assorbimento ambivalente di materiale manoscritto e di materiale stampato, nutrimento terrestre contraddittorio per la creazione di nuovo immaginario. È una condizione del tutto originale nella storia non solo dell’arte, ma della comunicazione. Ecco perché anche Marshall McLuhan si interessa di Bosch e della sua opera, con poche frasi tuttavia emblematiche:

Hieronymus Bosch, con una pittura che innestava forme medievali in uno spazio rinascimentale, raccontò che cosa poteva significare vivere a cavalcioni tra due mondi, l’antico e il nuovo, durante questa rivoluzione. Egli presentò l’immagine plastica, tattile, di tipo tradizionale ma la collocò nella nuova e intensa prospettiva visiva. Sovrimpose cioè l’idea medievale dello spazio unico e discontinuo alla nuova idea dello spazio uniforme e connesso. E lo fece con un’intensità da incubo. (McLuhan 1964, p. 172)

“Vivere a cavalcioni tra due mondi”: sembra una postura da acrobata del Giardino delle delizie, atteggiamento di cui Jeroen van Aken, detto Bosch, uomo di punta della principale confraternita religiosa della sua città, artista che vendette alcuni dipinti ai grandi del suo mondo, individuo però misterioso e sfuggente all’indagine storica, forse non era consapevole. Ciò non toglie che la sua opera ci guardi ancora oggi con occhi diversi anche se inquietanti, spingendoci a domandare quale sia il suo posto nel nostro mondo e quale mondo segreto stiamo percependo mentre cadiamo – ieri, oggi, domani – nel gioco sublime della sua epifania antropologica.


Stefano Cristante insegna Sociologia della comunicazione e Sociologia della scrittura giornalistica all’Università del Salento. Si occupa principalmente di comunicazione politica e di sociologia dell’arte e della cultura. Per Mimesis ha pubblicato: Corto Maltese e la poetica dello straniero (2016), Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco (2017), Società low cost (2018). Dirige la rivista internazionale “H-ermes. Journal of Communication” e la collana “Public Opinion Studies” (Meltemi).

2 comments on “I misteri del Trittico delle delizie

  1. Annalisa Marino

    Splendido saggio, le sue suggestioni, in adesione al dipinto, sembrano una trascrizione problematicamente didascalica di una moderna coreografia

  2. Antonio

    Davvero molto interessante.

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