I mostri  e la combinatoria dell’Impossibile



Demoniaci, orribili, terrificanti, divertenti, esseri ibridi e figure grottesche, proliferano nei libri e nelle pitture, con un livello di inventiva macabra, diabolicamente affascinante, sovversiva.


In copertina: Matthias Grünewald, Retable d’Issenheim (détail – La Tentation de saint Antoine), 1512–1516

 

di Matteo Pinna

Frenesia, sessualità, violenza e morte, caratteristiche comuni all’uomo, pullulano come proliferazioni allucinate, facendosi scherno e al contempo illuminando la nostra vicinanza alla carne, al disprezzo, al deforme. 

Già negli interstizi delle cattedrali gotiche si annidava la rappresentazione mostruosa della lascivia di forme e trasmutazioni, tra i capitelli, sulle vetrate, incastonata nei motivi vegetali – fogliame con escrescenze antropomorfe e zoomorfe, tra gambe di uomini e donne nudi, talvolta in ibride terminazioni di centauri o tritoni –, nei ciclici bestiari, tra le glosse e i marginalia dei manoscritti, nei capilettera, le calligrafie ornamentali: draghi e sirene, grifoni e anticheggianti commistioni di orrori. 

Ma sarà con le drôleries che il mostro diventerà luciferino segnacolo gnostico: forma arcana della trasformazione degli esseri in sostanze eterogenee e metamorfiche, fantasia comica che capovolge ogni funzione pedagogica e mnemonica del simbolo per farne una dinamica delle trasmutazioni, una grammatica dell’eteroclito, in cui la dimensione di nonsense diventa il veicolo – insito nella struttura stessa della simbologia di questi emblemi – della docta ignorantia, in quanto tali figure rappresentano la quintessenza della congiunzione degli opposti non sublimata in un’alchemica sintesi, bensì articolata in tutta la complessità degli innesti: volti su gambe, doppie facce con collo d’uccello sul corpo di un quadrupede, teste saldate e accatastate le une sulle altre. 

E in questa proliferazione comica, scompare un elemento: il demoniaco ricollegato alla punizione, all’Inferno, al peccato come pena e risarcimento del Male. Nella mostruosità delle drôleries, il carattere comico sovrasta la dimensione tragica dell’esistenza, la loro verità deforme non permette immedesimazione e catarsi, nessuna redenzione conclamata poiché nessuna penitenza è prevista. Il mostro non è più connesso automaticamente alla disgrazia, ossia alla perdita della Grazia e dunque dell’Armonia che essa garantisce in linea con l’ordo mundi determinato da Dio quale garante della Perfezione (e il suo implicito Bene). Il mostro non rima più con le torture, i maltrattamenti e le punizioni demoniache. La mostruosità diviene forma dell’alterità, dell’assolutamente altro nella sua dimensione di fuoriuscita dall’armonico, ma senza per questo rimandare autonomamente al male. L’altro non è più ciò che sfugge a Dio e al suo Ordine, ma ne è una sua moltiplicazione, variazione, protesi. Il mostro delle drôleries viene a rendere l’ordine di Dio un sistema complesso – nell’accezione modernissima del termine, ovvero il mostro in quanto attrattore strano attraverso cui e grazie alla cui spinta immaginativa, l’intera possibilità dell’esistente subisce una pulsione dinamica interna che rimette perpetuamente in movimento la meccanica degli esseri, creando possibilità esperienziali psichiche che sfilacciano il tessuto del reale aggiungendo ad esso dimensioni e gradi ulteriori. Il mostro, in questo senso è il perturbatore in cui viene reso visivamente manifesto che l’ordine sistematico, ciclico e normativo della natura non proviene da un passaggio all’equilibrio, bensì da ritmi non strettamente periodici: il Mondo non è la bella forma netta delle sagome rinascimentali, ma sfuggente linea manierista, aberrazione barocca. Ciò che è cambiato non è Dio e l’Armonia, essi persistono, ma in una configurazione completamente nuova, più variegata e atonale. Dio diventa la curva del moto le cui escrescenze mostruose rappresentano gli stati del sistema che disegnano la figura complessa di un «caos deterministico», in cui non sono più le linee rette e i piani ortogonali a determinare l’ordine, ma superfici e linee discontinue in una dinamica apparentemente disordinata. Disordine illusorio, poiché ciò che si modifica è solo la complessità dell’ordine, grazie all’aggiunta di una sola, ma fondamentale, possibilità espansiva: un piccolissimo cambiamento nello stato del sistema determina  trasformazioni considerevoli nell’insieme, quindi porta a condizioni di attrazione e mescolanza, ovvero al mostruoso.

La nozione di attrattore strano, di «mostro», amplia notevolmente il campo della conoscenza, poiché permette di studiare fenomeni complessi. L’attrattore strano significa che la natura produce ritmi che non sono periodici, esseri la cui armonia è composta da un’aritmetica lontana dall’equilibrio, sistemi dinamici dissipativi in grado di produrre scansioni il cui rendimento non deriva da una transizione verso una variabilità predittiva – come in un semplice studio di funzione algebrica -, bensì simboleggiano la diversità qualitativa dell’entropia nelle sue declinazioni frattali – come in un insieme di Mandelbrot.

L’entropia introdotta dal mostro nell’ordine della Natura fa emergere la realtà complessa sotto l’idealità dei modelli e disegna una dimensione intricata delle forme in cui l’identico si manifesta in prismi di differenze, in cui la norma produce la sua stessa aberrazione. Perde significato la nozione di «stesso»: dal «mostro» filtrano tutte le traiettorie che si vogliono e ognuna di queste traiettorie ha un destino diverso dalle altre. Di conseguenza, situazioni iniziali che sono quanto più simili si possa immaginare realizzano evoluzioni divergenti. Il comportamento «caotico» che il mostro manifesta col suo spostamento e intreccio di elementi, nasce dallo slittamento delle fasi, dei ritmi e dalle armonie in anomalie, le quali a loro volta  si allontanano l’una dall’altra nel corso del tempo in modo esponenziale, e più la distanza tra due punti appartenenti a tali traiettorie cresce, più la dimensione mostruosa della deformazione aperiodica diventa evidente: su una testa di uomo si metta il naso di un maiale, poi via via si aggiungano cambiamenti di fase innestando due orecchie di coniglio, poi gli occhi di un gatto, quindi la coda di un grifone ecc., e più evidente si determinerà lo scostamento.

Nozione cruciale per comprendere l’importanza del mostro, come concetto e come realtà concreta di esperienza estetica, è questa: il mostro è la forma fluida della conoscenza, un insieme denso di punti, discreti e asintotici, in cui l’opposizione tra determinismo e casualità è infranta e colloca la descrizione del mondo su parametri altri rispetto ai canonici bello/brutto, bene/male, come quelli di stabilità e instabilità, sintropia e entropia. La sua importanza è la dinamicità che imprime al sistema di rappresentazione e all’evoluzione – nel senso di trasformazione metamorfica – che la sua funzione ha nel tempo psichico delle immaginazioni. 

Con queste implicazioni in testa, il mostro, nella sua variante delle drôleries, ha avuto un forte impatto al suo sorgere, apparendo come un’epifania inafferrabile, un controcanto alle laudi al divino, al creato e al creatore. In questo, un ruolo cardine l’ha giocato la modalità comica degli asceti e dei penitenti, intesi come postura onirica per titillare il demone di mezzogiornotorpor circa praecepta, vagatio mentis erga illicita», secondo la definizione di Gregorio Magno) che, come uno psicopompo psichedelico, porta con sé la schiera di spiritelli e diavoletti, facendola emergere dalla sonnolenza inconscia delle virtualità psichiche e in un campionario ereditato da sogni ad occhi aperti,  fantasie orientali, bizantine e barbariche, in un’esuberanza combinatoria, dove spine, squame, tronchi, uncini, artigli, escrescenze vegetali, proliferano e si innestano le une nelle altre in assoluta (dis)continuità – un misto di macabro, grottesco, erotico e ridicolo.

È prima di tutto una ventata di horror nordico: Martin Schongauer, Matthias Grünewald, Hieronymus  Bosch e Brueghel padre e figlio. La Tentazione di Sant’Antonio diventa in questo gioco di trasmutazioni tema alla moda, soggetto prediletto nell’immaginario pittorico in cui il santo è figura apicale, una sorta di antenna ricettiva dei deliri cosmici e delle impalpabili allucinazioni mirifiche, dove il soggetto si vede sfrangiato, moltiplicato, assalito da ogni parte da demoni malinconici e meditativi, mostri infernali che sorgono in furiosi assalti, creature ibride e mutazioni fantastiche che si irradiano in una sorta di rosetta elicoidale, offrendo sorprendenti combinazioni anatomiche mutuate da uccelli, insetti, batraci e rettili. 

Per il santo, in questa modalità di puro bersaglio erotico per tutto quel che  è visione e dinamica meditativa,  il mostro, in quanto disturbo dell’Essere, diventa la rappresentazione molteplice delle possibili reincarnazioni dell’ordine gnoseologico, di quello speculum mundi che è la Natura rispetto al disegno invisibile del Piano divino: l’io è morso, vilipeso, calpestato e tirato per i capelli, e la sua slabbratura permette l’emergere della zona umbratile delle Idee, l’apertura dell’antro subconscio in cui l’Iperuranio si rivela essere una caverna di ombre, un ricettacolo di simulacri.

L’orda diabolica sembra sangue nelle vene, licheni ed escrescenze arboree, becchi, artigli di rapaci, bubboni purulenti. Il loro carattere illusionistico aumenta man mano che la proliferazione acquista autonomia e superficie.

È Bosch ad aver sviluppato il massimo grado combinatorio tra animali, vegetali e minerali, così come tra il vivente e gli oggetti quotidiani. Nella sua opera (e in quella dei suoi seguaci come Herri met de Bles e Jan Mandyn), montagne, crepacci rocciosi, case, macchine da guerra, armature, brocche e strumenti musicali prendono vita con modalità patafisiche degne dell’immaginario carrolliano, in unione compositiva e armonica  con esseri denaturati e maligni che abitano il Giardino delle Delizie

Nella perfezione divina del Paradiso, locus amoenus di sperimentazione creazionista, il mostro sinistro e abietto, la turpitudine e l’infamia, la deformazione nel cuore dell’abisso inconoscibile del divino, si coniugano in un carnevale festoso di metamorfosi anamorfiche: l’emblema dell’ammuffito uomo-albero, il cui corpo ovoidale si apre come una groppa spalancata mentre le gambe simili a tronchi poggiano su barche instabili, è un prototipo di post-apocalittica eccellenza, un contro-uomo-vitruviano che non solo ha scardinato la pitagorica perfezione incommensurabile della quadratura del cerchio, ma ha sublimato, nella sua esuberante intercorporeità, il sogno più frankesteiniano del più favoleggiante transumanista e accellerazionista contemporaneo. 

Il Mostro risponde così all’ibrido Spinosa/Deleuze del «cosa può un corpo?» che «Il corpo può tutto»; ma soprattutto distilla un’altra domanda: «a chi appartiene il corpo?», con all’interno la sua stessa risposta sibillina: «il corpo appartiene alle sue metamorfosi». Il rapporto alla Verità diventa così un impervio zigzagare tra brume di segni e sensi semioticamente eteronomi: confini senza confine, linee senza traccia, reprobi santificati attori di un mondo senza convenzioni dominato da forze sataniche beatificate.

Così Bosch risponderà a tutti i dubbi esistenziali promulgando questa sua Buona Novella e promuovendo la sua rivoluzione copernicana (al centro dell’Universo non sta più l’Uomo bensì il Mostro), Pieter Bruegel fu il suo San Paolo, il suo più prolifico adepto e discepolo, condividendo col mentore il fascino giocoso per le combinazioni stocastiche di forme organiche e inorganiche: come lui, egli utilizza macchine zoomorfe offensive, trasmutando essotericamente il Sant’Antonio in un Mago, si veda La caduta del mago, incisa per lui da Pieter Van der Heyden dove, allegramente, parti di insetti, uccelli, pesci e rettili si innestano con elmi, spade e lance. 

In Bruegel il mostruoso è già meno allarmante. La stregoneria può essere rivolta contro chi la usa, tuttavia, nello spettacolare capovolgimento dell’atmosfera festosa e carnascialesca, esso continua ad essere l’elemento perturbatore della norma – ma il suo elemento panico viene smussato dall’abitudine, come in un sogno in cui si accetta che Dio abbia il diritto legittimo, ed anzi il dovere, di delirare.

È nello stesso momento e con la stessa placida naturalità nello stile e nel tratto, che apparve in Francia la raccolta delle incisioni delle Buffe Chimere (i Songes drolatiques de Pantagruel), concepita «per la ricreazione del buon umore» e composta da centoventi mostri sotto il patrocinio patafisico di François Rabelais:  una sfilata di esseri derisori, dai costumi ridicoli, chi con orecchie enormi, altri con bocche troppo grandi, peni smisurati, vasi a incastro, bottiglie, figure legate a cinture, elmetti, cappucci, gualdrappe, in una sorta di campionario esiodeo di figure primigenie. Svanito è qui ogni moralismo, la fantasia è sovrana, è lei a dettar legge: la norma è il mostro. Il carnevale invocato da Michail Bachtin diventa la Messa quotidiana del mondo – festa stultorum, fatuorum, follorum.

Perché nel suo fondo la nozione stessa di mostro è una nozione «giuridica». Il mostro è la controparte della «norma», mostruoso è quanto è «anormale», nel senso primo della parola: «fuori dalla norma». Il mostro è, nella sua stessa esistenza e forma, violazione della Legge, in primis di quella fondamentale «Legge della Natura» (che, come insegna Philippe Descola, non è per nulla qualcosa di naturale, bensì è un costrutto culturale e una stratificazione epistemica d’insieme), sulla quale si inarca l’altra legge, quella sociale, che crea la tassonomia normativa della società stessa. Il Mostro è così concettualmente la violazione della legge nella sua esistenza, l’eccezione che disarciona la regola dal suo piedistallo prescrittivo.

In questo senso, l’eccezionalità del mostro, la sua rarità, traccia il limite, il punto di inversione della legge in cui l’impossibile e il proibito si coagulano in una metamorfica prestazione anarchica, infrazione dell’infrazione. Perché il mostro non è colui che contravviene alla legge (quello è il «delinquente», colui che viene meno alla legge e al dovere), ma è la trasgressione della legittimità stessa della legge. Il mostro è ciò che mette fuori legge la legge. E difatti il mostro non scatena l’ordine legale, bensì quello medico, morale impone quale reazione la violenza repressiva dell’istanza manicomiale, carcerale della psichiatria e della pretaglia. 

L’eterogenesi è ciò che fa del mostro un mostro. Il miscuglio inequivocabile di generi, forme, strutture. Qualsiasi cosa si innesti in un’altra e lasci che si riconoscano i segni di tale innesto è mostruoso: l’uomo con la testa di bue o il bue con la testa di uomo, l’uomo con le zampe di uccello, il maiale con la testa di pecora, fino all’ermafrodito, al queer, come trasgressione della dittatura eteronormata al genere. Trasgressione dei limiti «naturali», delle classificazioni, trasgressione dell’immagine, di tutto quanto tende a richiamare un caos anomico delle forme, un magma originario in cui il nomos non abbia ancora avuto modo di manifestare la sua norma. In questo senso il mostro dispiega la sua completa forza di essere cosmogonico (o anti-cosmogonico). La sua anarchia è determinata dalla rapidità di variazione e dalla fuga barocca da ogni retta  linea. Mostruoso è quanto sfugge a qualunque istanza e le drôleries sono in questo senso una metodologica e dinamitarda formalizzazione dell’impossibile nel reticolo dell’improbabile che è l’appariscente realtà in cui naviga la nostra psiche – un universo supplementare a questo.


Matteo Pinna, originario del Regno di Erewhon, è stato precedentemente insegnante di Ipotetica presso il College della Derisione della città di Metropolis, opera ora dalla città di Fluorescenza da cui gestisce la sua variegata opera di direttore editoriale, curatore, traduttore e factotum delle Edizioni WoM

2 comments on “I mostri  e la combinatoria dell’Impossibile

  1. Claudia Bellocchi

    Articolo molto interessante, e sincronico per il mio lavoro. Mi piacerebbe confrontarmi con lei.
    Grazie

  2. Adolfo Corti

    La negazione del corpo, ossessione di millenarie religioni, ancora pulsante nelle profondità della mente dell’uomo moderno, istituzionalizza il tema del male in proibizioni e tabù, che sfociano nella commistione fra uomo e animale, il mostro. Il rettile, animale ricettacolo di ogni bassezza, è presente ancora nei film horror: il concetto di natura contrapposta all’uomo dotato di anima razionale ha una forza distruttiva permanente. L’infinito sfregio dell’ambiente, nella cultura occidentale, è il motore di un’economia che distrugge tutto per ottenere nulla e che ha ormai esaurito la sua follia omnivora. Il mostro deve cancellare la colpa, esteriorizzando il male interiore in una progenie di figure orrende, nella vana ricerca di una catarsi: l’esteriore e l’interiore sono una bipolare ciclotimia. Più ci si vuole allontanare da se stessi, più si stringe non nodo gordiano col male ubiquitario. Un male che anela ansiosamente all’unica possibilità di redenzione: la distruzione definitiva di tutto.

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