Già Epimenide di Creta, col suo leggendario sonno durato cinquantasette anni, ci interroga sulla problematica relazione di reale e onirico; un rapporto che, tra svolte, colpi di scena e controversie scettiche, si dipana lungo tutta la storia del pensiero occidentale (tra filosofia, scienza e letteratura). Ne scrive Gianluca Garelli in “Sogni di spiriti immondi”, di cui presentiamo il prologo.
IN COPERTINA e nel testo, The Dream Haunting the Mogul, c.1881, Gustave Moreau
Questo testo è tratto da Sogni di spiriti immondi, di Gianluca Garelli Ringraziamo Einaudi per la gentile concessione.
di Gianluca Garelli
Nelle Vite dei filosofi Diogene Laerzio narra la vicenda del cretese Epimenide, che una controversa tradizione, ai confini del mito, annovera talora fra i Sette savi («come settimo fra i sapienti»). Questi sarebbe vissuto a cavallo tra l’VIII e il VII secolo; oppure un secolo più tardi, secondo un’altra versione della sua biografia (quella cui si attiene Platone nelle Leggi). Scrive dunque Diogene Laerzio:
Cretese di stirpe, da Cnosso, portava i capelli lunghi contro la consuetudine locale. Epimenide fu una volta mandato dal padre in campagna a cercare una pecora, ma verso mezzogiorno deviò dal cammino e s’addormentò sotto un antro per cinquantasette anni. Svegliatosi, dopo, cercava la pecora, credendo di aver dormito per poco tempo. Poiché non la trovava, si diresse al campo, che trovò però tutto cambiato e in possesso di un altro, per cui fece ritorno in città, in preda al dubbio e all’incertezza. Ivi giunto entrò nella sua casa, ma quelli in cui s’imbatté gli domandarono chi fosse; alla fine trovò il fratello minore, allora già vecchio, dal quale apprese tutta la verità.
La leggenda è riferita anche da Pausania, che riduce un poco la lunghezza del pisolino («il sonno non lo abbandonò prima che fossero passati quarant’anni che lui dormiva»). Lo stesso Diogene Laerzio non manca peraltro di riferire l’opinione di alcuni, che alla leggenda evidentemente credevano poco («v’è anche chi dice che egli non s’addormentò, ma si appartò dagli uomini per un certo tempo e si dedicò al taglio delle radici»). Stando a Diogene, Epimenide non amava il barbiere, per i benpensanti era comunque un eccentrico… si sa, la maldicenza su chi appare anticonformista si diffonde veloce. Meglio lasciar perdere le insinuazioni e attenersi alla versione ufficiale. Pare dunque che, dal momento del risveglio, Epimenide abbia dato mostra di grande dimestichezza con le cose divine (tà theîa), «tanto da riuscire a salvare con propiziazioni la città degli Ateniesi, che era tormentata dalla pestilenza e dalla discordia». Il tutto, fra l’altro, senza chiedere alcuna ricompensa: gli Ateniesi – questa volta a riferire è Plutarco – «volevano compensarlo con una forte somma di denaro e grandi onorificenze, ma egli chiese soltanto un ramoscello dell’ulivo sacro, e con esso partì». Si dice che Epimenide stesso attribuisse la propria abilità nella divinazione all’eccezionalità del suo lunghissimo sonno:
aveva un potere mirabile in queste cose, senza averle imparate: egli adduceva piuttosto come proprio maestro un lungo sonno con un sogno [hýpnon … makròn kaì óneiron].
Difficile invece, se non impossibile, stabilire un nesso fra quell’esperienza e la pessima opinione che egli doveva a sua volta avere dei suoi compatrioti, secondo a un celebre frammento attribuitogli da Paolo di Tarso:
Uno di costoro, un loro proprio profeta [prophétes], disse: «Cretesi, mentitori sempre, cattive bestie, ventri pigri».
-->Epimenide è prophétes dei cretesi: cioè appunto è esperto di mantica e caro agli dèi. L’espressione potrebbe significare anche, più prosaicamente (come traduce Giorgio Colli), «interprete della loro stessa natura». Con questo si palesano però altre difficoltà: perché nell’affermazione riportata da san Paolo ci fu notoriamente chi, fin dalla tarda antichità, vide la prima formulazione del rompicapo logico altrimenti detto «paradosso del mentitore». Se un cretese come Epimenide dice qualcosa come «tutti i cretesi sono sempre bugiardi», come facciamo a credergli? A dargli retta, non ammette forse indirettamente di essere bugiardo lui stesso, proprio in quanto cretese? E se invece sta dicendo il falso, non è comunque un mentitore? Bel problema, certo. Anche se, va detto, gli storici della logica contestano che, in questa forma, l’affermazione di Epimenide costituisca un vero e proprio paradosso: ci sarebbe pur sempre il caso che il buon Epimenide, solo lui, stia dicendo una frottola – e festa finita. Ciò non toglie che il dilemma dell’autoriferimento, formulato in maniera più rigorosa, continui a tormentare molti, e che a Epimenide si faccia tradizionalmente risalire la cattiva fama sull’insincerità dei suoi compatrioti.
La vicenda si fa interessante se teniamo conto di una sua particolare riscrittura letteraria, in età moderna: quella proposta da Johann Wolfgang Goethe con il dramma Il risveglio di Epimenide, composto nel 1814, per onorare Federico Guglielmo III (la Prussia era lo stato tedesco che più aveva contribuito alla caduta di Napoleone), e con lui lo Zar Alessandro. Goethe riprende per molti aspetti la leggenda greca: Epimenide viene fatto addormentare da due geni in una grotta, ove dorme per una cinquantina d’anni; al risveglio, scopre che il mondo intorno a lui è sconvolto. Hans Blumenberg si è soffermato sulle implicazioni politiche della riscrittura goethiana, sottolineandone gli aspetti più equivoci. Al riparo della grotta, «il sonno è la forma estrema della fuga dalla realtà, della riduzione delle sue esigenze»: quasi un dono degli dèi «per proteggere l’identità dall’irrompere della storia». Mentre quest’ultima è sconvolta dall’entrata sulla scena mondiale di Napoleone – «il demone stesso della guerra», colui che aveva portato a compimento il processo storico incominciato con la Rivoluzione –, Epimenide ha il privilegio di dormire e di sognare: rispetto al nuovo ordine ricostituito [il dramma fu rappresentato per la prima volta il 30 marzo 1815, nell’anniversario della caduta di Parigi, paradossalmente proprio durante i «cento giorni» successivi alla fuga di Napoleone dall’Elba], il tedesco Goethe sembra nascondersi dietro un’ambiguità che i suoi contemporanei avrebbero avvertito e faticato a perdonare. Comunque, qui vale la pena di notare un’altra cosa: al risveglio, l’Epimenide goethiano ritiene per un momento «che le immagini che gli sono trascorse davanti mentre dormiva […] siano la realtà; e che ciò che ora i geni gli mostrano con le loro fiaccole sia un “sogno d’angosce”»:
Creature dolci, dite quale sogno
d’angosce [Traum | von Ängstlichkeiten] andate tessendomi agli occhi?
[…]
Io sogno, sì, altrimenti m’ha gettato
Un dio in cupe solitudini […].
Egli fatica cioè a riconoscere che «la realtà ha avuto la propria storia, e che questa gli ha reso estranee tutte le cose presenti». L’imbarazzo per aver dormito mentre i compatrioti pativano (qui sembra quasi che Goethe stia parlando di sé) è tuttavia rinfrancato dalla convinzione, instillatagli dai suoi accompagnatori, che ciò corrisponda a un volere superiore. Gli è stata risparmiata la cruenza della lotta affinché egli «divenisse capace di un sentimento più puro»: quel rein empfinden che agli altri sarà concesso solo più tardi. Si tratta pur sempre d’un profeta.
Più delle ambiguità e dei ripensamenti storico-politici del vate di Weimar, qui interessa tuttavia l’atteggiamento del protagonista del dramma. Se il lunghissimo sonno di Epimenide ben si adatta a esprimere metaforicamente una condizione e una crisi di portata epocale, bisognerà osservare che il carattere e la storia del personaggio subiscono in Goethe una variazione significativa rispetto a ciò che la leggenda ha tramandato di lui. L’aspetto potenzialmente ingannevole della natura profetica di Epimenide sembra arricchirsi, nella versione goethiana, d’un carattere che certo non è del tutto sconosciuto al mondo antico, ma che ora denuncia (vedremo come) alcuni tratti propriamente moderni. L’esistenza reale viene scambiata per sogno, e il sogno per vita davvero vissuta – o almeno: per dimensione in cui la realtà presente (was ist) può vedersi con purezza cristallina. Se paradosso c’è, insomma, questo paradosso viene ora attribuito in prima battuta alla problematica relazione di reale e onirico. Questa non dipende dal vertiginoso spaesamento determinato da una parola, sia pur potenzialmente menzognera rispetto alla realtà; bensì dallo sgomento di fronte alla constatazione che il reale stesso in quanto tale, qualunque configurazione storica assuma (l’impero di Napoleone tanto quanto l’ordine restaurato dei monarchi alleati), pare aver smarrito ogni garanzia di fondamento: «e tutto in un baleno va in frantumi [So stürzt das alles Blitz vor Blitz]»; «ma sprofondare il suolo presto deve [Doch wird der Boden gleich zusammenstürzen]»; «ha scosso un dio | la Terra [ein Gott | die Erd erschüttert]». Così, una faccenda di sostanza storico-politica può travestirsi, sia pur ideologicamente, in una questione di ontologia.
Bibliografia
H. Blumenberg, Elaborazione del mito (1979), trad. it. di B. Argenton, Introduzione all’edizione italiana di G. Carchia, il Mulino, Bologna 1991.
C. Brillante, Il sogno di Epimenide, in «Quaderni urbinati di cultura classica», n.s., 77/2 (2004), pp. 11-39.
G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1978-1980, vol. II.
J.W. Goethe, Il risveglio di Epimenide, trad. it. di R. Prati, in Opere, a cura di L. Mazzucchetti, Sansoni, Firenze 1951, vol. IV.
Platone, Le leggi, trad. it. di F. Ferrari e S. Poli, Introduzione di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2005.
Plutarco, Vita di Solone, in Vite parallele, a cura di C. Carena, Mondadori, Milano 1974, 3 voll. (vol. I).
San Paolo, Lettera a Tito, in Le lettere, a cura di C. Carena, con uno scritto di M. Luzi, Einaudi, Torino 1990.
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