«Era il decimo giorno di quarantena, poco prima dell’alba. Affacciandomi alla finestra sulla notte quieta ho percepito con esattezza di essere finito in un altro mondo. Non ero io a essermene andato – ero indubitabilmente vivo – ma anche se riconoscevo me stesso come facente parte dei vivi, mi davo una nuova cittadinanza, il mondo in cui abitavo aveva di colpo assunto tratti diversi, irriconoscibili». Un racconto di Matteo Trevisani.
IN COPERTINA: Gianluca Sgherri, Senza titolo (1994) – Asta Pananti online
di Matteo Trevisani
È così che succede, mi sono detto. Sono morto.
Era il decimo giorno di quarantena, poco prima dell’alba. Affacciandomi alla finestra sulla notte quieta ho percepito con esattezza di essere finito in un altro mondo. Non ero io a essermene andato – ero indubitabilmente vivo – ma anche se riconoscevo me stesso come facente parte dei vivi, mi davo una nuova cittadinanza, il mondo in cui abitavo aveva di colpo assunto tratti diversi, irriconoscibili.
Mi sono detto che era colpa della situazione che il mondo stava attraversando e che la soglia della suscettibilità si era abbassata per tutti, ma anche se le cose che componevano la realtà sembravano a un primo sguardo le stesse di sempre, a un’indagine più attenta mi accorgevo che differivano quel tanto che bastava per rendermele assolutamente estranee. Ma uno sguardo che si posi con troppa insistenza sulle cose finisce per deformarle e quello che non riuscivo a dirmi era che non si trattava di una sensazione del tutto nuova. Forse era così dal primo giorno del mondo e io non me ne ero mai accorto.
Eppure eravamo vivi, potevo esserne certo. La mia compagna e mio figlio erano vivi e dai loculi della casa di fronte le solite ombre vaghe cominciavano il loro stentato vivacchiare mattutino. Ma nonostante la pallida alba di marzo la sensazione di essere finito nell’Ade non riusciva ad abbandonarmi, anzi, il giorno rendeva ancora più evidente quella dissonanza. Presto la città dei morti non fu solo una città: non si erano fatte le dieci che la sensazione di abitare nel Tartaro si era allargata fino a comprendere la nazione, e poi il continente, e a sera tutto il pianeta. Un pianeta in un cono d’ombra, figlio di nessun sole, che naviga al buio sballottato da forze gravitazionali alla cui lotta non giova nessuna orbita. Vivevamo su pianeta alla deriva, naufragato in un mare bianco come la sclera di un occhio che non si è mai visto chiuso.
Ho cercato quel mondo, quel regno, senza trovarlo da nessuna parte, in nessun libro, in nessun testo sacro. Oggi, che sono tornato, fatico a recuperare quella sensazione, eppure so che mi è preziosa e che non voglio dimenticarla. Il senso di pesantezza sulle clavicole, il passato alle spalle e nessun futuro davanti. Il calore alla fronte, e il termometro e le cifre dei morti veri insepolti alla televisione, ogni pomeriggio alle 18, e le piazze lugubri. Quand’è che si era alzato, di preciso, il velo che divide da sempre i due mondi?

Chi erano i guardiani di quella soglia spettrale e chi gli psicopompi silenziosi che mentre dormivamo, in un giorno di primavera stentata, ci avevano traghettato sull’altra riva? La soluzione a quel segreto vegliava nella città vuota, sugli angoli dei palazzi del centro e nelle chiese disabitate, nelle radici esposte dei platani nei parchi, o in quelle che da decenni hanno imparato a crescere sotto il cemento. Lo strato acquoso che mi divideva dalla realtà si era dissolto, ma ciò che era strano, che non mi aspettavo, era che ora non vedevo le cose più chiaramente, ma meno, e le voci dei telegiornali e degli amici al telefono mi arrivavano ovattate, spente, filtrate. Forse programmavamo cose, organizzavamo eventi, ci stavamo abituando a immaginare il futuro per renderlo possibile, perché le cose pensate prima o poi potessero avversarsi. Ci interrogavamo sul senso di quell’esperienza, domandandoci con tenerezza a vicenda “sei spaventato?”, “cosa è successo?”, “riesci a dormire?”.
Capirsi però era impossibile, come se non chiamassimo dallo stesso piano di realtà, ma fossimo esseri che riempiono di parole un fluido che non è mai stato adatto per contenerle. D’improvviso ogni parola, ogni numero voleva dire altro, ogni cosa alludeva alla tomba. Eppure il mondo funzionava, solo seguiva delle regole diverse. Aveva una logica, anche se nell’Ade a funzionare sono i sogni, le preghiere, l’immaginazione.
-->La sensazione è durata qualche settimana, condensandosi in una lunga notte solitaria, e so che per molti non è svanita del tutto. Qualcosa di mortifero si è attaccato ai recettori della normalità, pronto a infettare di nuovo ogni cosa. Il pensiero di quelli che sono morti mi toglie il respiro. Il senso di impotenza delle giornate tutte uguali, che aveva in sottofondo il rumore delle cose possibili, ha fatto in modo che si potesse soltanto resistere, celebrare una routine che diventava rito, perché il rito ha lo scopo di dare significato a ciò che della vita non puoi controllare. Ma i morti insepolti vivono ancora sulla Terra, trasformandola. Negli oltretomba non c’è niente di più subdolo di una liturgia senza religione: la tendenza a generalizzare gli assunti si diluisce in una ripetizione vuota dei gesti, niente di più.
Che cosa abbiamo fatto, in quei giorni? Abbiamo inutilmente recuperato le ricette di famiglia e con una inadeguatezza che era una puntura in un punto profondo del petto, abbiamo cercato il lievito, per ricordarci come si usano le mani. Siamo saliti sui tetti sconosciuti dei palazzi per cercare un’aria che non dava nessun sollievo: tutto quello che vedevamo erano uccelli neri il cui volteggiare solitario ci opprimeva il cuore. Non traevamo nessun auspicio da quel volo. Il resto del tempo lo abbiamo passato guardando fuori dalla finestra le città spettrali, rimpiangendo il passato, gli errori della specie e quelli piccoli, che non ricorderesti.
Ma qualcun altro doveva essersi sentito così. Mi sono domandato se erano esistite altre città dei morti, se altri continenti erano sprofondanti nell’Ade come era successo al pianeta Terra nella primavera del 2020. Messico, Egitto, Ossezia del sud. Ma erano necropoli, cimiteri, città fatte per i cadaveri. Una cosa mi era ormai chiara: in questo oltretomba era necessario arrivarci da vivi. Nei libri Orfeo scende per perdere Euridice, Dante per elevarsi, San Brandano naviga verso Ovest alla ricerca di isole perdute, Persefone viene rapita e Inanna omaggia il grande Toro celeste.
Ma intere città, continenti obliati, pianeti smarriti nella morte non ce n’erano mai stati. Intere cosmologie tradizionali non hanno previsto questa possibilità. Ho capito che non c’è discesa, non c’è catabasi senza resurrezione, e che ognuna è la condizione necessaria dell’altra, e che quando ci arrivi da vivo l’Ade è un luogo di partenza, un posto da cui fare ritorno.
Un giorno hanno detto che ne eravamo usciti, anche se ci sembrava di non aver fatto niente, e le cose di colpo si sono fatte più chiare, ma meno vere. Eppure il pensiero tremendo è che tutto ciò non valga e che tutto là fuori sia rimasto come l’ho visto in quei giorni, che questa luce, questi fiori sbocciati tardi, questi cieli finalmente tersi siano finiti. Ho paura che la finzione che siamo costretti a sopportare ci verrà strappata via di nuovo, stavolta per sempre, senza fasi interlocutorie. Ho smesso di pensare al virus, questa è una cosa che arriva da più lontano, un’epidemia che dura da ere geologiche. E se la vita reale fosse stata quella di questi due mesi? Che cosa farsene di quella consapevolezza? Sarebbe utile quanto un titolo nobiliare in una foresta vergine.
In Discesa all’ade e resurrezione Elémire Zolla si chiede: «Che cosa si prova quando il salire e lo scendere si alternano sino a confondersi l’uno con l’altro?». Proprio il fatto di non poter rispondere è la prova che si vive in cielo e in terra contemporaneamente, perché il mondo dei vivi e quello dei morti coincidono, sono sovrapposti e schiacciati l’uno sull’altro.
I vivi abitano la stessa terra dei morti. Noi e loro abitiamo insieme le città.
Ce ne ricorderemo?
Bellissimo racconto Matteo, mi ha emozionato. Grazie.