Il cadavere era bellissimo

«il cadavere alzò nuovamente le mani pallide e riabbassò il cappuccio. Qualcosa si allentò nello spazio intorno a loro, come se qualcuno avesse aperto una invisibile finestra e introdotto aria fresca».


IN COPERTINA e nel testo, opere di yuri shwedoff

Questo articolo è un estratto di “L’Oscurità Profana, Libro III. Cosa resta degli eroi“, di R K Morgan, tradotto e curato da Edoardo Rialti. Ringraziamo Mondadori per la concessione.


di Edoardo Rialti

Avvertì il cambiamento appena varcata la soglia della fattoria. Gli si rovesciò addosso come acqua gelida spruzzata sulla nuca. 

Inclinò appena la testa per scacciare quella sensazione, tracciò un glifo di protezione nell’aria, come se stesse estraendo un volume dallo scaffale di una biblioteca. Intorno a lui le pareti della fattoria si fecero nere e si chiusero a  un’altezza che probabilmente non si vedeva da decenni. Il grigio cielo ribollente venne inghiottito dal buio, al suo posto un tetto di paglia che puzzava d’umidità. Un sordo bagliore rossastro lo raggiunse dal focolare. Il fumo di torba gli pizzicò la gola. Udì un lento cigolio legnoso. 

Una sedia a dondolo in quercia consumata, rivolta ver so il fuoco, oscillava piano avanti e indietro. Dalla sua posizione, Ringil non riusciva a vedere cosa vi fosse seduto, solo che era avvolto in mantello e cappuccio nero. 

Il calore della protezione che aveva scelto gli si smorzò intorno come un capanno divorato dalle fiamme. Gil avvertì la propria esposizione tremolargli nuovamente addosso. Cercò qualcosa di più forte, e le dita ad artiglio lo incisero nell’aria. 

«Sì, stiamo diventando abbastanza bravi in questo, nevvero?» una voce cigolante come la sedia. Col rantolo e il fruscio di quelli che sembravano innumerevoli anni, o forse il respiro tronco al termine d’una risata troppo aspra. «Un discreto maestro dell’ikinri ’ska, al giorno d’oggi.» La sua nuova difesa venne fatta a pezzi, non più difficilmente della prima: il gelo della Presenza lo investì dal varco apertosi. Il dondolo ruotò bruscamente, senza causa apparente. La cosa seduta era un cadavere. 

Gli arti raggrinziti sotto le pieghe del mantello erano in confondibili, il modo in cui stava scompostamente piegato sulla sedia, come soffiato lì dal vento. Il cappuccio nascondeva il viso come le fauci di un gigantesco verme nero. Una mano pallida come l’avorio stringeva il bracciolo, la carne ormai ritratta dalle unghie lunghe, ricurve. L’altra resta va celata nelle falde del mantello, come reggesse qualcosa. 

Anche la sua mano guizzò, di traverso, strinse l’elsa dell’Amica dei Corvi che gli spuntava sulla spalla sinistra. «Oh, ti prego» gracchiò la voce. «Mettila via, di grazia, d’accordo? Se posso spezzare le tue protezioni come esche per il fuoco, quanto pensi che mi risulterebbe difficile in frangere anche quel tuo minuscolo spadino? Sai, per esse re uno stregone in apprendistato, dimostri una gamma di reazioni notevolmente limitata.» 

Ringil lasciò l’Amica dei Corvi, sentì il pomello scivolar gli dalle dita mentre il fodero Kiriath risucchiava il palmo di lama sguainata. Guardò la forma stravaccata davanti a lui e represse ancora una volta l’impulso di rabbrividire. «E tu saresti?» 

«Eppure egli continua a non riconoscermi.» 

Bruscamente, il cadavere si alzò in piedi, incombendo sulla sedia come tirato dai fili di un burattinaio. Ringil si trovò faccia a faccia col cappuccio a testa di verme e l’oscurità impenetrabile che incorniciava. S’impose di ricambia re lo sguardo, ma se c’era una faccia là dentro, viva o morta, non riusciva a capirlo. Il bisbiglio pareva provenire da tutte le direzioni contemporaneamente – giù dalle gronde del soffitto di paglia – su dal crepitio del focolare – diretta mente dall’aria dietro le sue orecchie. 

«Non mi hai riconosciuta alla Porta Orientale di Trelayne, quando il tuo destino fu tracciato per la prima volta in termini che tu potessi comprendere. Non mi hai riconosciuta al fiume, quando il primo membro della Fredda Legione si è unito a te, e il tuo passaggio attraverso la Porta Oscura ebbe inizio. E dire che ho inviato un intero galeone di cadaveri in tuo aiuto quand’eri finalmente pronto a ritorna re. Perciò dimmi, Ringil Eskiath, quante volte devo fissar ti ancora dagli occhi dei morti prima di ottenere ciò che mi spetta?» 

La consapevolezza gli piombò addosso come se il tetto di paglia fosse crollato. Mantello e cappuccio, la postura sti lizzata delle mani, una sollevata sul bracciolo della sedia, l’altra in grembo, a reggere… 

«Firfirdar?» 

«Oh, bravo, bravissimo.» Il cadavere si voltò e si strascinò nuovamente verso il caminetto. «Te n’è occorso di tempo, ti pare? Non pensavo sarebbe stato così difficile riconosce re la Regina della Corte Oscura quando ella si presenta a convocarti. Dopotutto, siamo le divinità dei tuoi avi, no?» «Non per mia scelta» ribatté seccamente lui. 

Eppure gli tornò comunque in mente la preghiera e le risposte rituali, l’invocazione alla Signora dei Dadi e della Morte: 

Firfirdar siede 

sul trono di ferro fuso 

e non è mai morsa 

dal fuoco. 

C’è un cuore di tenebra 

nella vampa 

Se li sentiva cuciti addosso: dieci anni a strascicare i pie di e presenziare ai riti nel tempio della famiglia Eskiath, ogni settimana puntuale come un orologio, finché infine, a quindici anni, trovò le parole per affrontare suo padre e ri fiutarsi di prestarsi a quella farsa. 

Ma a quel punto il canto gli si era comunque ficcato nel cervello come una moneta nello sterco.

Firfirdar sorride 

nell’ombra accesa dal fuoco liquido 

e agita i dadi 

dei giorni 

Agita i dadi per tutti, e tutto ciò 

che avverrà 

Firfirdar solleva 

i dadi dei giorni nella mano glaciale 

e li getta 

nel fuoco 

Trae la sorte come faville 

dalla forgia del fato 

«Sì, be’.» Il cadavere si piegò rigidamente nell’ombra accanto al bagliore del camino e la mano pallida dalle un ghie lunghe afferrò un attizzatoio dal sostegno alla pare te. Firfirdar ravvivò il fuoco, e un grosso ciocco venne giù, in un fiotto di scintille. «Per fortuna, non tutti dipendiamo dalle tue scelte al riguardo.» 

«Allora perché sono qui?» 

«Oh.» L’attizzatoio diede un altro paio di colpetti al foco lare. Le scintille si levarono su per il camino. La voce stor miva negli spazi sinistri, illuminati dalla luce tremolante del capanno. «Passavi di qui. Pareva un momento buono come qualsiasi altro.» 

«Sai, per essere una dea della morte e del destino, mostri davvero poco senso di divina grandezza.» 

Il cadavere si piegò sul focolare e schiacciò il cappuccio sul basso caminetto in pietra, quasi fosse stanco per uno sforzo di qualche genere. L’eco delle parole di Ringil par ve indugiare nel silenzio. Per un lungo momento di sudo re freddo, lui si chiese se la Regina Oscura si fosse offesa. 

Fletté le dita e le serrò fugacemente a pugno… “Guarda, non voglio mentirti, Gil. Niente dell’ikinri ‘ska può davvero respingere un membro della Corte Oscura.” Così gli aveva confidato Hjel l’Esiliato, quasi scusandosi quando Rin gil glielo aveva chiesto. Dopo tutto, era la sua magia, la sua eredità quella che gli stava insegnando. “Tuttavia, se ne sca gli abbastanza intorno, be’” appena un’alzata di spalle, “magari puoi guadagnare un po’ di tempo, credo.” 

“Tempo per cosa, esattamente?” 

Ma a ciò non aveva ottenuto altra risposta che il solito blando sorriso del principe senza terra. Hjel non era quella che si definirebbe una guida sistematica. 

E quel cosa, esattamente, Ringil doveva ancora scoprirlo. Ebbene… 

Rilassò il pugno, obbligando le dita a penzolare inerti. In attesa della reazione della Regina Oscura. 

«Divertente.» Il cadavere non si era mosso, restava sempre piegato sul focolare. Come se Firfirdar parlasse alle fiamme. «Sì. Lo dicevano. Che credi di essere divertente.» 

Un silenzio denso si riversò nel capanno sul finire del l’ultima parola. A Ringil si drizzarono i peli sulle braccia e la nuca. Dominò il tremito, ricacciandoselo in gola, e fissò l’ombra ingobbita. L’ikinri ’ska gli mulinava come acqua appena sotto le dita… 

Il cadavere si raddrizzò. Ripose l’attizzatoio all’ombra del muro. 

«Stiamo perdendo tempo» sibilò Firfirdar. «Non sono tua nemica. Non saresti ancora lì, in piedi, in caso contrario.» «Forse no.» Dietro la maschera che aveva assunto, un sollievo glaciale prese a pulsargli nelle vene. Lasciò smorzare l’ikinri ’ska. «Ma ti prego, non fingere neppure che la Corte Oscura abbia a cuore i miei migliori interessi. Ho letto un po’ troppe leggende sugli eroi per crederci.» «Le leggende vengono scritte dai mortali, annaspando tra i dettagli del loro mondo, in cerca d’un significato per le loro azioni laddove, solitamente, quello non esiste affatto.» Il cadavere tornò zoppicando a sedere sul dondolo ac canto al fuoco. «Faresti bene a non riporre troppo credito in simili storie.» 

«È dunque inaccurato, mia signora, affermare che gli eroi al servizio degli dei raramente fanno una bella fine?»

«Gli uomini che viaggiano con dell’acciaio in spalla e vi basano la loro vita raramente fanno una bella fine. Sarebbe un po’ ingiusto accusarne gli dei, non credi?» 

Ringil fece un sorriso feroce. «La Signora dei Dadi e del la Morte che si lamenta con me per l’ingiustizia delle cose?  Non hai prestato attenzione, mia signora? A quanto ne so,  negli ultimi millenni l’ingiustizia va parecchio di moda, ed assai plausibile che fosse così persino prima. Trovo improbabile che la Corte Oscura non ci abbia niente a che fare.» 

«Be’, la nostra attenzione può distrarsi, è risaputo.» Difficile esserne certi con quella voce che sussurrava e fruscia va, tuttavia la Regina Oscura pareva divertita. «Ma adesso siamo concentrati su di te, ed è questo che conta. Rallegra ti, Ringil Eskiath: siamo qui per aiutarti.» 

«Davvero? Madama Kwelgrish mi aveva fatto capire che gli affari dei mortali per voi costituiscono solo un gioco. Difficile rallegrarsi quando sei trattato come una pedina sulla scacchiera.» 

Silenzio. Il cadavere tornò a farsi cullare dall’abbraccio del la sedia a dondolo. Le unghie della sinistra picchiettavano il bracciolo di legno, come il clic dei dadi in una mano a coppa. 

«Kwelgrish è… schietta, per i parametri della Corte.» «Secondo te non avrebbe dovuto dirmelo?» 

Un tenue crepitio del fuoco nel caminetto. Gil pensò che le ombre danzanti sulla parete dietro Firfirdar fossero un po’ troppo alte e mosse per calzare con le modeste fiamme che avrebbero dovuto gettarle dal camino. E un po’ troppo definite, troppo simili a fauci e zanne spalancate rovesciate verso l’alto, come se un invisibile, inudibile branco di cani si fosse levato a latrare nel buio dietro la sedia della Regina Oscura, aspettando solo di essere scatenato… 

Molto lentamente, il cadavere alzò entrambe le mani all’orlo del cappuccio che indossava. Alzò la stoffa nera, scostandola dal viso che celava. 

A Ringil si mozzò il fiato in gola. 

Con uno sforzo di volontà, ricambiò lo sguardo di Firfirdar. Il cadavere che lei aveva scelto non era un orrore in putrefazione, tutt’altro. Eccetto il pallore rivelatore e le borse sotto gli occhi, era un viso che poteva appartenere ancora a un essere vivente. 

Ma era bellissimo. 

Un viso di giovane dai lineamenti delicati, divorato dalla tisi, che saresti stato pronto a baciare rischiando il contagio. Un viso cui abbandonarti di notte in un vicolo buio, per poi svegliarti la mattina seguente e passare mesi affannosi a ricercarlo inutilmente per le strade. Un viso che ti chiamava e rendeva futile ogni pensiero di sicurezza e buon senso. Un viso da cui saresti andato con gioia, quando fosse stato il momento; senza rimpianti, lasciandoti dietro solo un lieve sor riso agonizzante, impresso sulle labbra che si raffreddano. 

«Adesso mi vedi, Ringil Eskiath?» chiese la voce, bisbigliando, sibilando. 

Era come avere del fumo flandrijn nel cervello, come inciampare su un gradino inesistente. Annaspò e barcollò per la forza dell’impatto, e la bocca del cadavere non si mosse affatto, e la voce sembrò improvvisamente provenire da tutte le direzioni. 

«Adesso mi vedi?» 

Nonostante la febbrile, agghiacciata confusione della sua consapevolezza, Ringil riuscì a imporsi di restare in piedi. Inspirò, a fatica. 

«Sì» disse lui. «Ti vedo.» 

«Allora cerchiamo di capirci. Non è facile essere un dio, tuttavia ad alcuni tra noi riesce meglio che ad altri. Kwelgrish ha i suoi giochetti tortuosi e la sua ironia, Dakovash le sua rabbia infinita e la delusione per i mortali, e a Hoiran piace semplicemente guardare. Ma io non sono nessuno di loro. Sarebbe imprudente considerarmi tale. È tutto chiaro?» 

Ringil deglutì, con la gola secca, poi annuì. 

«Bene.» Il cadavere alzò nuovamente le mani pallide e riabbassò il cappuccio. Qualcosa si allentò nello spazio intorno a loro, come se qualcuno avesse aperto una invisibile finestra e introdotto aria fresca. «E adesso mettiamoci al lavoro. Passeggia con me, Ringil Eskiath. Convincimi che gli dei miei compari non sono stati eccessivamente ottimisti nel giudicare il tuo valore.»


EDOARDO RIALTI (1982) È TRADUTTORE DI LETTERATURA ANGLO-AMERICANA E LETTERATURA FANTASY, SCI-FI, HORROR, PER MONDADORI, LINDAU, GARGOYLE, MULTIPLAYER. TRA GLI ALTRI HA TRADOTTO E CURATO OPERE DI J.R.R. MARTIN, C. S. LEWIS, J. ABERCROMBIE, P. BROWN, O. WILDE, W. SHAKESPEARE. E’ COLLABORATORE DE “IL FOGLIO” DOVE SI OCCUPA DI CRITICA LETTERARIA E HA SCRITTO LE BIOGRAFIE A PUNTATE DI J. R. R. TOLKIEN, G. K. CHESTERTON, C. S. LEWIS, C. HITCHENS. HA INSEGNATO IN ITALIA E CANADA. DIPENDESSE DA LUI, LA SUA GIORNATA COMPRENDEREBBE SOLO CAFFÈ, SPORT E SCRITTURA.

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