Da Nietzsche e Benjamin fino ai nostri giorni: storia di un’idea.
IN COPERTINA e nel testo opere di cy twombly
di Stefano Jorio
Nella seconda dissertazione della Genealogia della morale («Colpa, cattiva coscienza e affini») Nietzsche scrive che il sentimento della colpa – il sentimento morale come rimorso e cattiva coscienza – non ha nulla di originario: è nato da dinamiche sociali. La stessa memoria, la conseguente capacità di mantenere le promesse e il senso di responsabilità cominciarono a svilupparsi solo quando una stirpe di aristocratici sani, forti e pagani, capaci di esercitare il dominio senza scrupoli egualitari, insegnò a una popolazione «finora priva di inibizioni e informe», che conosceva solo il soddisfacimento delle proprie bestiali passioni, a reprimere gli istinti animali. La pena, la punizione, il dolore furono il mezzo con cui si raggiunsero da un lato la vittoria contro l’oblio («mantenere presenti a questi schiavi dell’istante, degli affetti e delle brame un paio di primitive esigenze della convivenza sociale»), dall’altro – al termine di un lungo percorso – lo Stato e la civiltà del soggetto sovrano, indipendente, responsabile, «rinchiuso nell’incantesimo della società e della pace». Gli istinti animali, negati, cercarono «sotterranei soddisfacimenti» (il ritorno del rimosso, come avrebbe detto Freud di lì a poco); si rivolsero contro l’uomo stesso e pur di tormentare qualcuno generarono il rimorso e la cattiva coscienza. Nacquero l’autocondanna, gli indugi dell’anima irrisolta, l’opprimente normalità dei costumi: «la più grande e la più inquietante delle malattie, dalla quale fino a oggi l’umanità non è guarita, il soffrire dell’uomo rispetto all’uomo, rispetto a sé, come conseguenza di un distacco violento dal suo passato animale».
Nietzsche doveva essere consapevole dell’aporia contenuta in questa breve storia morale dell’umanità, perché a partire dal quarto paragrafo ne complica gli sviluppi aggiungendo percorsi storici e accumulando dimostrazioni che però finiscono per contraddirsi reciprocamente. Restiamo per il momento all’aporia: se la comunità degli uomini è nata da una repressione degli istinti imposta per mezzo del dolore («così comincia sulla terra lo “Stato”: penso sia liquidata quella fantasticheria che lo faceva iniziare con un “contratto”»), chi diede ragione, padronanza di sé e capacità di rispettare gli impegni alla comunità degli aristocratici? Immaginare una precedente comunità di aristocratici, che svolse per l’attuale lo stesso ruolo educativo, significherebbe retrocedere all’infinito di aristocrazia in aristocrazia senza poter mai giungere all’antropogenesi. Questo abbozzo di storia sociale – che vede da una parte i capi evoluti, dotati di memoria e ragione, e dall’altro il popolo bestiale – ha qualcosa di delirante, tanto che la fantasticheria di Nietzsche risulta ancora più capziosa di quella del contratto sociale; entrambe cercano l’inizio “ragionevole” della comunità senza domandarsi se l’uomo, al momento dell’antropogenesi, non fosse già comunitario come le scimmie e i lupi: socievole per istinto animale e non contro di esso.
Nietzsche sviluppa dunque una seconda argomentazione in polemica con gli «psicologi inglesi», cattivi genealogisti che parlano cristianamente della morale come se essa coincidesse con la bontà d’animo:
si sono mai anche solo lontanamente sognati, fino ai nostri giorni, che per esempio quel fondamentale concetto morale di «colpa» ha preso origine dal concetto molto materiale di «debito»? O che la punizione come compensazione si è sviluppata del tutto indipendentemente da ogni presupposto circa la libertà o non libertà del volere? […] Per il più lungo tratto di tempo della storia umana non si è punito perché si ritenesse il malfattore responsabile della sua azione, dunque non con il presupposto che solo il colpevole sia da punire – al contrario, si punisce come ancora oggi i genitori puniscono i figli, per la rabbia di un danno subito che si scarica sul danneggiante – una rabbia mantenuta però nei limiti e modificata dall’idea che ogni danno abbia in qualche modo il suo equivalente e possa davvero essere detratto, sia pure mediante un dolore del daneggiante. Da dove ha preso il suo potere quest’idea antichissima, profondamente radicata, ora forse non più estirpabile, l’idea di un’equivalenza tra danno e dolore? L’ho già rivelato: nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore
Ora abbiamo in origine un debitore che «in forza del contratto dà in pegno al creditore, nel caso non paghi, qualcosa che invece ancora “possiede”» (il proprio corpo); il debitore di fatto non paga e il creditore gli infligge un dolore corporeo traendone un sentimento di benessere: «poter sfogare spensieratamente la propria potenza su chi è impotente, la voluttà de faire le mal pour le plaisir de le faire» (secondo Nietzsche l’uomo moderno non è più in grado di capire l’equiparazione di danno e dolore perché ha dimenticato la gioia della crudeltà). Il punito è dunque in origine solo un debitore, l’idea di un «colpevole» che avrebbe potuto agire altrimenti è posteriore e derivata; colpa, coscienza e dovere nascono dal concetto materiale di debito. Questa seconda linea argomentativa lascia irrisolta l’origine del rapporto tra debitore e creditore: voler compensare uno squilibrio ripristinando l’equilibrio originario è già un’esigenza morale, cosa che lo stesso Nietzsche riconosce poco più avanti quando descrive in toni celebrativi la figura che nasceva in quegli stessi anni per opera di John Stuart Mill: l’homo oeconomicus.
-->Il sentimento della colpa, dell’obbligazione personale […] ha avuto, come abbiamo visto, la sua origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista, il rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore […]. Stabilire prezzi, misurare valori, escogitare equivalenti, scambiare – ciò ha preoccupato il primissimo pensiero dell’uomo in una tale misura, che in un certo senso è il pensare […] l’uomo si caratterizzava come l’essere che misura valori, stima e misura come l’“animale valutante in sé”. […] L’occhio si era ormai orientato per sempre su questa prospettiva: e con quella goffa consequenzialità […] si arrivò subito, con grossa generalizzazione, a “ogni cosa ha il suo prezzo; tutto può essere pagato” – al più antico e ingenuo canone morale della giustizia, al principio di ogni «bontà», di ogni «equità», di ogni «buona volontà», di ogni «obiettività» sulla terra. A questo primo livello, giustizia è la buona volontà – tra uomini di potenza più o meno uguale – di accordarsi, di tornare a «intendersi» mediante un bilanciamento – e, in relazione a chi è meno potente, di costringere questo sottoposto a un bilanciamento.
Nietzsche è come sempre ambiguo, inconsapevolmente doppio: cerca una via d’uscita dal nichilismo e (come notò Heidegger) ci si sprofonda calcolando il valore dell’essere, detesta la borghesia liberale e si entusiasma alla metafisica dell’homo oeconomicus. Quanto più nel suo furore anticristiano nega la morale come impulso a fare il bene, quanto più cerca di spiegarsi e di argomentare, tanto più si confonde. In un rapporto tra pari si trovavano anche i membri del popolo bestiale e schiavo delle passioni: come mai non hanno imparato tra loro il rapporto antichissimo e originario del contratto e dello scambio, come mai non sono stati «uomini valutanti in sé»? Perché per civilizzarsi e rinunciare agli sfrenati istinti animali hanno dovuto aspettare gli educatori aristocratici? Non volendo rinunciare alla prospettiva gerarchica – la cui valenza genealogica in ambito morale viene ora messa in forse dallo scambio contrattuale tra pari – Nietzsche aggiunge la clausola del contratto imposto al debole dal forte: adesso però abbiamo due origini della morale anziché una, senza contare che imporre un contratto non significa educare alla memoria, al rispetto delle promesse e alla tacitazione degli istinti (posso imporre un contratto solo se l’altro già possiede queste capacità).
«È una malattia, la cattiva coscienza, non c’è dubbio»: ma qualche dubbio in merito alla sua origine Nietzsche deve pur averlo, se all’inizio del paragrafo 19 annuncia una terza via di ricerca: la morale nasce dall’antica consapevolezza che la specie sussista grazie ai sacrifici e alle opere degli antenati, e che essi vadano ripagati per evitarne l’ira; in altre parole nasce dal sentimento di un debito, da espiare con sacrifici che si fanno tanto più insufficienti quanto più la comunità cresce in potenza e ricchezza. In una società giunta al sommo della propria parabola storica i progenitori vengono trasfigurati in divinità esigenti, il debito nei loro confronti continua a crescere: l’avvento del Dio cristiano, «massimo dio che finora sia stato raggiunto, ha fatto per questo apparire sulla terra anche il maximum del senso di colpa» (Schuldgefühl, senso di colpa e insieme senso del debito). Un processo di moralizzazione e interiorizzazione fa di questo debito un elemento costitutivo dell’uomo, così costitutivo che nemmeno la «morte di Dio» (del creditore) in età moderna potrà più estinguerlo. Insediatosi ormai nella coscienza, esso è inestinguibile a priori.
ora deve pessimisticamente chiudersi una volta per sempre proprio la prospettiva di un riscatto definitivo, […] ora quei concetti di «colpa» e «dovere» devono volgersi indietro – e contro chi? Non c’è dubbio: innanzitutto contro il «debitore» […]; ma infine perfino contro il «creditore», che si pensi con ciò alla causa prima dell’uomo, all’inizio del genere umano, al suo progenitore ormai caricato di una maledizione («Adamo», «peccato originale», «non-libertà del volere»), o alla natura […] oppure proprio all’esistenza che resta come disvalore in sé (nichilistica diversione da essa, desiderio del nulla […]) finché all’improvviso siamo di fronte al paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umanità ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso che si ripaga su se stesso
Se però la moralizzazione del debito verso l’antenato divinizzato e la sua interiorizzazione come senso di colpa sono ciò che impedisce all’uomo di liberarsi anche dopo la «morte di Dio», come può il cristianesimo – Dio che mette a morte se stesso – essere l’espediente geniale che riscatta l’uomo? La morte di Dio è evento della modernità, quasi due millenni dopo la nascita del cristianesimo. L’aporia resta anche supponendo che con la «nichilistica diversione» e il disprezzo dell’esistenza Nietzsche stia pensando a Platone e alla svalutazione idealista dell’essere del mondo: se sono debitore di una divinità tutt’altro che morta, perché dovrei «volgere a ritroso» il senso di inadeguatezza «proprio all’esistenza» che è parte del mio debito? E perché gli aristocratici che dominavano ed educavano la massa non hanno divinizzato e interiorizzato, nell’epoca della massima potenza, il proprio debito verso gli antenati? Al contrario, i Greci restano per Nietzsche il modello di una civiltà religiosa e fiera, nella quale «la bestia che è nell’uomo si sentiva divinizzata e non lacerava se stessa».
La seconda dissertazione si conclude con l’auspicio che qualcuno, un giorno, tenti la strada opposta: collegare al senso di colpa le «inclinazioni innaturali» come l’aspirazione alla trascendenza, la svalutazione nichilistica del mondo e dell’animalità, tutti ideali «ostili alla vita, diffamatori del mondo».
Ci vorrebbe, per quella meta, una diversa specie di spiriti […]: spiriti fortificati da guerre e vittorie, per i quali la conquista, l’avventura, il pericolo, il dolore sono diventati addirittura un bisogno; […] in un qualche tempo, in un’età più forte di questo marcio presente che dubita di se stesso, dovrà pur venire a noi l’uomo redentore, l’uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore che la propria forza incalzante torna sempre a spingere lontano da ogni al di fuori e al di là […], questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla – deve un giorno venire…
Riprenderemo più avanti questa profezia dell’anticristo sprezzante, inarrestabile e creatore che redime l’umanità salvandola dalla sua nichilistica disperazione (in questo caso la disperazione cristiana di chi, a favore di un’impalpabile e ormai insostenibile trascendenza, ha rinunciato ai tangibili piaceri della terra). Per il momento è sufficiente notare da un lato a che punto di trivialità possa arrivare Nietzsche nelle sue argomentazioni, così contraddittorie e tortuose che la maggior parte dei commentatori odierni – come vedremo – preferisce ignorare l’architettura complessiva della seconda dissertazione per prendere in esame la sola identificazione di debito (Schulden) e colpa (Schuld); dall’altro che – nonostante tutte le aporie – alcune intuizioni di Nietzsche aprirono una nuova epoca del pensiero occidentale. Nel caso della seconda dissertazione queste intuizioni sono due. La prima – sviluppata in seguito da Foucault, che la applicò al sapere e alla storia delle idee – è consapevole e viene resa esplicita in un paragrafo a parte, dove Nietzsche parla del suo metodo genealogico: l’evoluzione di una cosa non è il suo progresso verso una meta nota in partenza; la funzione odierna di una certa pratica non significa che essa nacque in vista di tale funzione. Nietzsche vede qui con chiarezza che «la causa del sorgere di una cosa e la sua utilità finale, il suo effettivo uso e inserimento in un sistema di fini, sono toto caelo disgiunti; che una cosa disponibile, in qualche modo già attuatasi, viene sempre di nuovo interpretata – sulla base di una nuova visione – da una potenza a essa superiore» (applicando il metodo allo stesso Nietzsche, Foucault decostruirà il mito del barbaro e della «bestia bionda» mostrando che in origine esso venne elaborato dall’aristocrazia francese in lotta contro il sovrano assoluto e contro il terzo stato). La seconda intuizione, sotterranea e probabilmente inconsapevole, venne ripresa nel 1921 da Walter Benjamin in una breve annotazione di lavoro: il frammento Kapitalismus als Religion. È questo frammento che ora ci interessa.
Appuntato e mai sviluppato in vista di una più ampia ricerca, il frammento sostiene con esplicito riferimento a Nietzsche che il capitalismo è la nostra religione. A differenza delle religioni tradizionali non ha dogmi né teologia; risponde però alle stesse preoccupazioni, pene, inquietudini di ogni religione. Il suo culto è perpetuo, non conosce la scansione tra giorni profani (feriali) e giorni sacri (festivi). È inoltre la prima religione della storia che non offre redenzione dalla colpa: è anzi una religione colpevolizzante, nella quale i debiti in senso economico (Schulden), che essa senza posa chiede ai suoi adepti di contrarre e rinnovare, coincidono con un inestinguibile senso di colpa, la consapevolezza di essere in debito (Schuld) con un ente ubiquo, invisibile, imperscrutabile e onnipotente come il Dio cristiano. Una trasposizione al contesto linguistico italiano conferma la tesi di Benjamin: credito, da credere, è la fede (la fiducia, l’attesa) che qualcosa arriverà (il 15% d’interesse, il benessere come felicità in terra, la vita eterna). La fine della fiducia (in Dio, nel contrarre debiti e investire) comporta la rovina, come ci hanno insegnato le crisi economiche che dall’inizio degli anni Ottanta hanno devastato nazioni e continenti. Benjamin aggiunge che è nell’essenza (nel destino, oggi si direbbe nel DNA) del capitalismo continuare fino alla fine, fino al pieno indebitamento/colpevolizzazione di Dio stesso (del Mercato); continuare fino al raggiungimento di uno stato mondiale di disperazione che costituisce la sua speranza. Per questo motivo il capitalismo è una religione inaudita: non mira alla modificazione dell’essere (alla sua riforma, all’eliminazione del senso di colpa), ma alla sua distruzione. Il nichilismo – vedere il mondo «come un oggetto», vederlo passivo: avere dimenticato che è attivamente, senza interruzione, visto che è – sarà compiuto quando il capitalismo avrà reso tutto calcolabile ed equiparabile per mezzo del prezzo, in un processo che dalle merci arriva alla salute e alla malattia, alla nascita e alla morte, al sapere, alle relazioni interpersonali (i sussidi per il «lavoro genitoriale»), al tempo libero, al «costo umano» di una guerra o di una crisi economica, al PIL mondiale, alla natura stessa – come fanno oggi quegli scienziati che calcolano il valore delle foreste globali inserendole in un ipotetico circuito produttivo.
La trascendenza di Dio è caduta. Ma Dio non è morto, è incluso nel destino degli uomini. Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nella solitudine assoluta della sua traiettoria è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che riconoscendo la religione capitalista comincia ad adempirla.
Benjamin non sbagliava, perché nella seconda dissertazione – pur senza vedere quel processo che da Carl Schmitt in poi si sarebbe chiamato secolarizzazione, il permanere di elementi fideistici in un contesto che ne è apparentemente privo – Nietzsche scrisse che il progresso verso imperi universali coincide sempre con il progresso verso divinità universali. «Affinché un santuario possa essere eretto, un santuario deve essere ridotto in frantumi»: l’audace legislatore, il predatore despotico, lo sprezzante Übermensch profetizzato da Nietzsche è il «soggetto di interesse» del liberismo classico, antenato della nuova aristocrazia del capitalismo globale.
Per non fraintendere l’intuizione di Benjamin (il capitalismo è una religione, non è “come” una religione) bisogna tenere presente da un lato quella che potremmo chiamare la meccanica della fede, il processo che la rende efficace: grazie alla fede – alla fiducia reciproca tra l’uomo e Dio, tra il cliente e la banca – l’irreale diviene realtà: un cristiano, se crede davvero, vive già nella consolazione come il cliente della banca vive in una casa che senza fiducia reciproca non potrebbe avere (e che peraltro ancora non è sua: la perderà se viene meno alla fede che la banca ha riposto in lui). Questo significa che il capitalismo è propriamente miracoloso: ma si tratta di un miracolo il cui esito è la disperazione globale anziché la speranza. Dall’altro lato occorre tenere presente che il culto religioso – come Walter Burkert e altri storici hanno spiegato da tempo – fu una questione individuale di trasporto psicologico e coinvolgimento emotivo, di umiltà e fede nell’aldilà, soltanto in epoca tardopagana e poi cristiana, che al ritualismo impersonale dell’epoca arcaica e classica aggiunsero «una pietà verbalizzata», un elemento «di angoscia e di ricerca» (Paul Veyne); nell’antichità greco-romana, così come presumibilmente nella preistoria indoeuropea, incontrare ritualmente la divinità era un fare silenzioso, ovvio, banale e abitudinario, regolato da gesti automatici come può esserlo da noi il ritirare denaro da un bancomat. Nel farlo ci riferiamo implicitamente a un sistema di significati così capillare da descrivere e ordinare tutta la realtà: il valore di scambio del denaro e il valore del mondo, il contratto sociale tra capitale e forza-lavoro, l’instabilità del denaro, il tasso di interesse, il debito nazionale, l’ubiquità dei terminali del sistema monetario, la diseguaglianza sociale, la stessa sopravvivenza. «È certo che il paganesimo», scrisse Benjamin nel frammento, «non concepì la religione come un “più alto” interesse “morale”, ma come una cosa della più immediata praticità, che in altre parole ebbe poco chiara, come oggi il capitalismo, la sua natura “ideale” o “trascendente”, e anzi nell’individuo irreligioso o di diversa fede vide un membro indubitabile della comunità nello stesso senso in cui la borghesia vede oggi i suoi membri che non guadagnano».
Nietzsche fu come un profeta ispirato: intravide – senza arrivare a tematizzarlo – che la «grande salute» post-religiosa da lui auspicata e personificata nell’«uomo redentore», era in verità – lontano da ogni trascendenza – una nuova religione del debito e della colpa. Benjamin fu come un esegeta laconico, al quale la morte impedì di sviluppare e approfondire il frammento su capitalismo e religione: quest’ultimo però, a lungo trascurato dalla critica, è stato letto, commentato e sviluppato in modo crescente negli ultimi trent’anni, particolarmente in Germania e in Italia. Massimo De Carolis ha messo a confronto da un punto di vista funzionale culto capitalista e culto religioso, Birger Priddat ha realizzato l’idea benjaminiana di uno studio comparato dell’iconografia delle banconote nel XIX e XX secolo, Philip Goodchild ha indagato la specularità di Dio e del denaro. L’opera di Giorgio Agamben, in particolare la prospettiva espressa nel libro Il regno e la gloria, legge lo stato attuale del capitalismo anarchico – che antepone il governo e la polizia al parlamento e alla legge – come parte del percorso teologico e metafisico dell’Occidente. Una breve antologia potrà dare un’idea dell’ampiezza e profondità della ricerca in corso:
In quanto sacerdoti di questa teologia economica, gli economisti oggi siedono nei centri del potere. La loro influenza non deriva da ricchezze personali, terre, imperi o forze militari. Si tratta piuttosto di un’autorità morale: il potere di dispensare legittimazione nel welfare state contemporaneo.
(Robert Nelson, Reaching for Heaven on Earth, Rowman & Littlefield, 1991)
La società si sente a casa nel capitalismo come in passato si sentiva a casa con quegli spiriti e divinità che si potevano certo evocare e pregare, ai quali si poteva sacrificare, i cui umori e decreti restavano però, nonostante tutto, sorprendenti e in ultima analisi imperscrutabili.
(Dirk Baecker, Kapitalismus als Religion, 2003)
La democrazia contemporanea è […] una democrazia gloriosa, in cui l’oikonomia si è integralmente risolta nella gloria e la funzione dossologica, emancipandosi dalla liturgia e dai cerimoniali, si assolutizza in misura inaudita e penetra in ogni ambito della vita sociale.
(Giorgio Agamben, Il regno e la gloria, 2007)
il debito è inestinguibile perché il sistema economico e sociale si regge su un continuo indebitamento dello Stato e delle imprese, in primo luogo, ma di tutti i cittadini in secondo luogo. E tutto questo processo […] ha la caratteristica di una religione, anzi, è la religione del capitale che parla il linguaggio del cristianesimo. Se il capitale ha creato una società «a sua immagine e somiglianza», il suo «Credo» è stato costruito a immagine e somiglianza del cristianesimo. (Mauro Ponzi, Il culto del capitale, Quodlibet, 2014)
Noi affermiamo, invece, che il denaro è il nucleo religioso dell’esperienza contemporanea, e che la razionalità del discorso economico moderno è essenzialmente incapace di rendersene conto. La sfera pubblica è stata così colonizzata da forme di convinzione religiosa che non possono riconoscere se stesse come tali. (Laurent Milési, Credo credit crisis, Rowman & Littlefield, 2017)
Non sembra che Michel Foucault conoscesse l’opera di Benjamin, per quanto ad esempio evitò sempre – come lui stesso dichiarò in un’intervista rilasciata a pochi giorni dalla morte – di fare esplicito riferimento a un filosofo (Heidegger) molto importante per la sua formazione e il suo percorso di ricerca. Nel testo che stiamo per esaminare accennò rapidamente alla Scuola di Francoforte, ma solo per dire che essa cercò una nuova razionalità sociale capace di contrastare la razionalità economica (cosa che sembra poco pertinente al percorso filosofico di Benjamin); e del resto Foucault lavorava nella consapevolezza di quanto era accaduto nei decenni successivi alla seconda guerra. È nondimeno possibile – nel richiamo a Nietzsche, nel rifiuto di ogni semplicistica spiegazione economicista nel senso del materialismo storico, nel riferimento alla trascendenza, alla salvezza e alle vicissitudini della speranza – vedere in Foucault, se non un continuatore delle tesi di Benjamin, un pensatore altrettanto seminale rispetto alla relazione tra capitalismo e religione, lo studioso che elaborò una prospettiva inconfondibilmente propria e solo parzialmente diversa. Un breve esame di tale prospettiva ci avvicinerà alla conclusione.
Nel 1978-79 Foucault tenne al Collège de France un corso dal titolo Nascita della biopolitica. Progettato per esplorare l’avvento, in età moderna, della biopolica (il «modo in cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze»), il corso prese una direzione inattesa e finì per occuparsi esclusivamente di quanto, in origine, doveva essere solo una digressione: la nascita del neoliberismo in Germania, tra gli anni Trenta e Cinquanta, ad opera di alcuni teorici tedeschi e austriaci. Indagando la nascita della forma di capitalismo che ancora oggi ci riguarda, Foucault illustrò come, in epoca nazista e poi post-nazista, alcuni politici ed economisti della tradizione liberale si sforzarono di definire, in opposizione a ogni tipo di totalitarismo inteso come crescita abnorme del potere statale, un modello di stato che dal ritorno del totalitarismo si sarebbe salvato diminuendo il proprio intervento in ambito economico. Se lo stato liberale tedesco, pur predicando il laissez-faire e l’astensione dalla programmazione economica, aveva finito per intromettersi pesantemente in ambito assistenziale e doganale, aprendosi peraltro a interventi di tipo keynesiano sull’equilibrio economico generale; se il nazionalsocialismo aveva rappresentato in questo senso l’inevitabile compimento totalitario di un’autorità statale invadente, crescente e socialmente disastrosa; se l’Unione Sovietica riservava allo stato l’esclusività dell’iniziativa e della programmazione, i teorici della nuova Germania – bisognosa di una nuova legittimazione internazionale – idearono uno stato «capace di stabilire al contempo la libertà e la responsabilità dei cittadini» perché solo un simile stato avrebbe potuto «legittimamente parlare in nome del popolo» (Ludwig Erhard, futuro ministro dell’economia e padre del «miracolo economico» tedesco, alla riunione plenaria del Consiglio Economico nell’aprile 1948). Funzionale a questo obiettivo sarebbe stato un sistema in cui non fosse lo stato del laissez-faire a circoscrivere e proteggere uno spazio di libertà economica, ma la stessa libertà di mercato venisse posta come principio organizzatore e regolatore dello stato. «Detto altrimenti: uno stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato». Per meglio capire la portata e gli esiti di questo capovolgimento, basti pensare alle odierne agenzie di rating che sorvegliano e ammoniscono, premiano o puniscono gli stati per politiche favorevoli o sfavorevoli alle esigenze del capitalismo internazionale.
Nelle riflessioni dei teorici del neoliberismo (Erhard, Eucken, Böhm, Rüstow, Müller-Armack, Röpke, Hayek) ciò avrebbe potuto realizzarsi se lo stato, nel favorire la libertà di impresa, si fosse limitato a interventi «di quadro»: non sull’economia, ma sulle condizioni del mercato in quanto regole del gioco. Non la stabilità dei prezzi, il sostegno a certi settori, il pieno impiego, la redistribuzione del reddito e gli investimenti pubblici ma la popolazione, la concorrenza, le competenze, l’innovazione, il tasso di interesse. Il governo avrebbe dovuto “produrre il mercato” con un intervento permanente e indiretto, avrebbe dovuto essere governo sistemico sociale e non governo economico. Nelle parole di Foucault: «quanto più l’intervento di governo dovrà essere discreto al livello dei processi economici in quanto tali, tanto più, al contrario, dovrà essere massiccio quando si tratta di questo insieme di elementi tecnici, scientifici, giuridici, demografici, e in generale sociali». Parallelamente a questa Gesellschaftspolitik, il governo avrebbe dovuto attuare una Vitalpolitik che «prenda coscienza della situazione vitale d’insieme del lavoratore, la sua situazione reale, concreta, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino» (Rüstow): una politica intesa a promuovere la proprietà privata, incoraggiare la piccola e media impresa, decongestionare le metropoli, favorire le abitazioni singole, la famiglia e i rapporti di vicinato. Il governo della nuova Germania doveva dunque operare a due livelli: da un lato l’introduzione della «cultura d’impresa» per farla funzionare come «potenza che dà forma alla società» (si pensi oggi agli imprenditori individuali e al boom delle start-up, a Air Bed&Breakfast e Uber che trasformano in hotel le abitazioni e in taxi le automobili private); dall’altro l’offerta consapevole di valori “caldi” come necessario contrappeso all’alienazione individuale e all’atomizzazione sociale che la «sussunzione» della società da parte del capitalismo aveva già prodotto all’inizio del XX secolo.
L’analisi di Foucault ha il merito di mettere in luce due cose: la prima è che i teorici neoliberali furono animati dal desiderio di evitare ogni possibile ritorno del totalitarismo, e che nella loro «teologia negativa dello stato come male assoluto» idearono un sistema di governo che non è una semplice intensificazione dei principi del liberismo ma una modifica sostanziale, finalizzata a salvare il capitalismo impostandolo su basi nuove, capaci di aprire – come di fatto è stato – una diversa epoca (Benjamin: «l’estensione della disperazione a stato religioso mondiale da cui ci si aspetta la salvezza»). La seconda cosa è che questa nuova risposta alla questione economica nell’ambito del governo sistemico e razionale degli uomini e delle cose – quanto Foucault chiamava «governamentalità» – rischia di instaurare paradossalmente una inedita, capillare e invisibile forma di governo totale che non agisce ma induce, non obbliga ma suscita; un governo che prende in carico «in maniera continuata ed efficace gli individui, il loro benessere, la loro salute, il loro lavoro, il loro modo di comportarsi, e persino il loro modo di morire». Ciò è tanto più evidente in quello che Foucault chiamò «anarco-capitalismo», il sistema che sorse negli Stati Uniti quando il neoliberismo europeo – esportato da Hayek – venne recepito e interpretato da Milton Friedman e dalla scuola di Chicago. Concepito come radicalizzazione dello stato neoliberale tedesco nel quale ad esempio non venne meno la previdenza sociale (per quanto riformulata secondo un modello di privatizzatione dei meccanismi di assicurazione dal rischio e una prassi di gestione della povertà che esclude a priori l’intervento sulle diseguaglianze sociali), l’anarco-capitalismo statunitense modificò profondamente l’idea marxista e poi keynesiana della forza-lavoro come semplice costo di produzione: «ci si dovrà mettere nella prospettiva di chi lavora; si dovrà studiare il lavoro come comportamento economico» attuato da un soggetto. Il salario diventa in questo senso rendimento del capitale umano individuale; l’homo oeconomicus –ideato in origine da John Stuart Mill in riferimento all’élite capitalista borghese – si universalizza e democratizza. Ognuno diventa imprenditore di se stesso, anche rispetto alla scelta della città in cui vivere e di chi sposare, rispetto all’istruzione e alla cura della salute, con «costi psicologici» in caso di trasferimento e «redditi affettivi» derivanti dalla cura dei figli. La famiglia è una piccola azienda, il migrante un piccolo imprenditore; applicando la prospettiva della razionalità economica alla giustiza penale, lo stesso criminale diventa un imprenditore che ha fatto un investimento sbagliato in una particolare area di rischio, il sistema giudiziario diventa l’output di risposta all’offerta di crimine proveniente dalla società. È in atto una modificazione ontologica che reinterpreta nella prospettiva dell’economia di mercato modi di essere non mercantili.
Se nella prospettiva del liberismo classico lo stato rischiava di invadere l’economia (ed era dunque necessario porre dei limiti alla sua sfera di intervento), ora è l’economia a invadere uno stato in cui l’homo oeconomicus universale – colui che risponde in modo sistematico alle sollecitazioni dell’ambiente – diventa paradossalmente il punto di innesto del potere. «L’homo oeconomicus, quale apparve nel XVIII secolo, funzionava in qualche modo come un elemento intangibile,» era colui che non si doveva toccare. Lo si lasciava fare. A seguito della sua universalizzazione, egli «appare invece come colui che è possibile maneggiare […], colui che risulta eminentemente governabile» tramite l’intervento sistemico su un quadro economico generale di cui fanno parte anche le scelte individuali. Al punto che l’iniziale coesistenza tra soggetto di diritto e soggetto di interesse economico (che nella tradizione liberale dello stato di diritto aveva funzionato come principio di limitazione del potere governativo e meccanismo di protezione individuale) diventerà in epoca neoliberale incompatibilità, e il soggetto di diritto risulterà di ingombro al soggetto di interesse e all’esercizio della governamentalità («nella meccanica degli interessi, in fondo, non si domanda mai a un individuo di rinunciare al suo interesse»). È appena il caso di rilevare, a conferma delle analisi di Foucault, che oggi lo stato di diritto vacilla a tutti i livelli: ubiquità delle telecamere, raccolta delle impronte digitali di tutti i cittadini, involuzione fascista degli elettorati europei; se in Italia l’esercito pattuglia le piazze da quattordici anni, la Germania ha conosciuto nell’ultimo decennio una forte espansione dei poteri di polizia. Il Rapporto Censis 2020 ha rivelato che la popolazione italiana è per il 43% favorevole alla pena di morte, per il 38% pronta a rinunciare al diritto di sciopero e di opinione in cambio di un maggiore benessere economico; il premio Nobel 2017 per l’economia è stato assegnato a Richard Thaler che nel libro Nudge (scritto insieme al giurista Cass Sunstein) auspica l’avvento di una bene intenzionata manipolazione subliminale da parte dei governi e delle aziende.
La cosa più importante ai nostri fini delle è però che con il liberismo assistiamo, secondo Foucault, a una modifica epocale del modo in cui la verità si manifesta agli uomini. Se il laissez faire degli inizi aveva individuato nel mercato la fonte veridica del giusto prezzo della merce, destituendo con questo la decisione del sovrano in ambito commerciale, con la mano invisibile di Adam Smith («quella sorta di bizzarra meccanica che fa funzionare l’homo oeconomicus come soggetto di interesse individuale all’interno di una totalità che gli sfugge e che, tuttavia, fonda la razionalità delle sue scelte egoistiche») viene negata la stessa possibilità di uno sguardo dall’alto, o esterno, sulla totalità di quel processo economico cui presto sarebbe stata aggiogata l’intera vita sociale; costitutivamente opaco, inafferrabile e provvidenziale come il Dio della teologia, il mercato legittima la sola azione individuale e rigetta ogni punto di vista sovrano. Che il re – il garante della legge – venga dichiarato impotente dall’homo oeconomicus, è per Foucault la «maledizione formulata dall’economia politica, sin dalla sua fondazione»; nel momento in cui la scienza moderna mette fuori gioco la teologia classica, il liberismo – e poi il neoliberismo nell’opera di Hayek – si affida all’economia che invisibilmente tutto regge e muove, ha fiducia nel mercato imperscrutabile come forma secolarizzata di trascendenza: ma questa economia è anarchica e sancisce la fine del diritto e della legge. L’operato dei governi viene sottoposto alla veridizione “dei mercati” e alla sorveglianza delle agenzie di rating. Nelle sue basi teoriche, nel suo funzionamento pratico, nei suoi presupposti metafisici, Foucault vide l’anarco-capitalismo che si è dispiegato oggi davanti ai nostri occhi in tutta la sua potenza distruttiva.
È importante tenere presente tutto questo nel leggere il breve testo «Stato e anomia» che Giorgio Agamben ha pubblicato il 19 ottobre scorso sul sito dell’editore Quodlibet. Il testo interpreta – nel suo rilievo per noi, oggi – la profezia escatologica neotestamentaria (giovannea e paolina) sull’anticristo:
L’anticristo è per Giovanni colui che nell’ultima ora «nega che Gesù è il Cristo» (cioè il messia) e anticristi sono pertanto i «molti» che, come lui, «uscirono da noi, ma che non erano da noi», il che lascia intendere, non senza ambiguità, che l’anticristo esce dal seno dell’ekklesia, ma non appartiene veramente ad essa. Come tale, egli è definito più volte «ingannatore»
l’enigmatico personaggio che la lettera [seconda di Paolo ai Tessalonicesi] presenta come «l’uomo dell’anomia» (ho anthropos tes anomias) e il «figlio della perdizione» (ho uios tes apoleias) è stato identificato già da Ippolito, Ireneo e Tertulliano e poi da Agostino con l’anticristo. Paolo dice infatti di lui, che definisce anche «senza legge» (anomos), che «si drizza contro tutto ciò che è chiamato Dio o oggetto di venerazione, al punti di sedersi nel tempio di Dio, proclamando di essere Dio». L’anticristo è un potere mondano (una tradizione lo identificava con un Nerone redivivo) che cerca di imitare e contraffare nel tempo della fine il regno di Cristo.
In nessun luogo Agamben menziona il capitalismo anarchico di Foucault né la religione colpevolizzante di Benjamin: ma il riferimento sembra palese, in parte per gli stessi contenuti del testo (l’anticristo che esce dal seno della chiesa, proclama di essere Dio e cerca di contraffare il regno di Cristo promettendo un paradiso in terra), in parte per il lavoro decennale con cui Agamben ha indagato, in un confronto ininterrotto con Benjamin e Foucault, i presupposti teologici della «governamentalità» come gestione economica globale. Del resto, quasi a titolo di anticipo e sullo stesso sito, Agamben aveva scritto pochi giorni prima che l’emergenza è il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo, e che «se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese».
Nella lettera ai Tessalonicesi, tuttavia, l’uomo senza legge è posto in stretta relazione con un’altra enigmatica figura, il catechon, ciò che trattiene (anche nella forma maschile: «colui che trattiene»). Ciò che viene trattenuto è «la parusia di nostro Signore Gesù Cristo e la nostra riunione con lui» […] In ogni caso, che si tratti [come da esegesi della tradizione cristiana] dell’impero romano o della chiesa, il potere che trattiene è quello di un’istituzione fondata su una legge o una costituzione stabile
Poiché al venir meno del catechon l’ancora misterioso potere dell’uomo senza legge non avrà più antagonista e potrà pienamente rivelarsi per ciò che davvero è; poiché Giovanni e Paolo inscenano l’avvicendarsi di due poteri mondani (l’uno che legiferando rende stabile il mondo, l’altro che – distruggendo la legge – lo governa di momento in momento secondo l’arbitrio), la profezia neotestamentaria ci riguarda da vicino: «è proprio un simile “mistero dell’anomia“ che stiamo vivendo. Il potere statale fondato sulle leggi e le costituzioni cosiddette democratiche si è andato trasformando – attraverso un processo inarrestabile iniziato da tempo, ma che giunge solo ora alla sua crisi definitiva – in una condizione anomica, in cui la legge è sostituita da decreti e misure del potere esecutivo e lo stato di emergenza diventa la forma normale di governo».
Resta – è bene non dimenticarlo – che la lettera afferma che una volta che il potere del «senza legge» è stato svelato, «il Signore lo sopprimerà col fiato della sua bocca e lo disattiverà con l’apparizione della sua presenza». Il che significa che quel che ci resta da pensare nella condizione apparentemente senza uscita che stiamo attraversando è la forma di una comunità umana che si sottragga tanto al «potere che trattiene» con la sua apparente stabilità istituzionale che all’anomia emergenziale in cui esso fatalmente si converte.
Eccederebbe i limiti di questa riflessione ricostruire il percorso di archeologia ontoteologica con cui Agamben ha descritto – e a suo modo combattuto – l’attuale condizione politica ed economica dell’Occidente come esito inevitabile del suo percorso millenario («la vocazione economico-governamentale delle democrazie contemporanee non è un incidente di percorso, ma è parte integrante dell’eredità teologica di cui sono depositarie»). Qui basti rilevare che nel libro Il tempo che resta (2000), che anticipa quasi tutte le tessere del grande mosaico disposto nei quindici anni successivi (il fondamento teologico della politica odierna, lo stato di eccezione, il divino come esperienza di fiducia nel potere di rivelazione della parola, la «forma di vita» extragiuridica dei francescani, l’uomo come animale senza opera, l’ontologia dell’esigenza), Agamben aveva letto il messianismo paolino come una rivoluzione «debole», inaudita e quasi inaudibile, che assumendo la prospettiva della fine del mondo può invitare a disattivare la legge – la condizione giuridica e sociale dell’individuo – senza per questo abolirla, in una dissociazione che non porta alla formulazione di una legge nuova (non si farebbe che produrre nuovi padroni e nuovi servi) ma a una trasformazione della vita: uno scollamento da se stessi che – proprio in quanto e soltanto scollamento – testimonia all’uomo la propria eccedenza rispetto a ogni approdo mondano.
In questo senso «Stato e anomia» è un invito ad assumere, contro la metafisica del progresso indefinito (cara al liberalismo quanto alla socialdemocrazia), la prospettiva della transitorietà e l’attesa della fine. Come per Heidegger l’assunzione angosciata e consapevole del proprio ininterrotto andare verso la morte è quanto permette all’Esserci di riscattarsi dall’inautenticità, perché solo mettendomi «in forse» posso cogliere l’essere come enigmatico accadere rispetto al non-essere, assumere la prospettiva della fine del nostro mondo – sembra dire Agamben – ci libera perché ci permette di vedere che la salvezza non arriverà dal futuro: è già qui. Agamben non dice quale «forma di comunità umana» possa creare chi si dissocia dalla legge: una possibile indicazione è però nelle tesi Sul concetto di storia di Benjamin («il sommo testo messianico della nostra tradizione» insieme alle lettere di Paolo). Benjamin oppone qui alla storiografia borghese, che intende il passato come progresso ininterrotto verso il bene e lo distribuisce in segmenti temporali neutri ormai intesi come fattori del profitto, l’«adessità» del Messia e della «rivoluzione degli oppressi». In essa il tempo viene sottratto alla sua vuotezza e riattivato: di nuovo accade e fa accadere, irrompe nella storia, ha momenti privilegiati; significa anziché fungere da inerte contenitore di un progresso generico, prestabilito e privo di sussulti. Nel tempo riattivato, dice Benjamin, ogni secondo è «la piccola porta da cui può entrare il Messia». Se il Regno programmato dalla Weltdemokratie è insieme miraggio di felicità terrena e prassi della rovina, se il futuro del capitalismo anarchico è un futuro di colpa e indebitamento crescente, quello di Agamben sembra allora un invito a riappropriarsi del tempo per viverlo, nella separazione, non come attesa di una salvezza perennemente delegata al futuro ma come portatore inatteso di quegli istanti privilegiati in cui l’uomo si scopre come una cosa la cui sola definizione è che è: l’ebbrezza della festa nel cerchio fidato della propria gente, il vuoto enigmatico creato da un’opera d’arte, i fuggevoli istanti dell’estasi amorosa in cui il mondo retrocede e siamo senza più ricordare chi siamo.
«Messico, Brasile, Argentina e Cile nel 1982. Svezia e Finlandia nel 1991. Di nuovo il Messico nel 1995. Thailandia, Indonesia, Malesia, e Corea del Sud nel 1998. Di nuovo l’Argentina nel 2002. E poi, naturalmente, le catastrofi più recenti: Islanda, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, Cipro» (Paul Krugman). Se all’estero i “focolai di crisi” sono permanenti, a partire dal 2008 e fino a oggi anche le crisi interne si sono succedute senza interruzione: economica, sicuritaria, umanitaria, sanitaria, geopolitica, energetica. È come se stessimo raggiungendo lo stato mondiale di disperazione di cui parlava Benjamin, il compimento della religione capitalista. In questi quattordici anni abbiamo dimenticato cosa possa significare, per il nostro essere, vivere in un’attesa fiduciosa: è come se avessimo smesso di aspettare, come se l’essere in emergenza fosse diventato un a priori esistenziale. La tesi di Agamben è nota: se la “crisi” è il normale funzionamento del capitalismo planetario, lo stato di emergenza permanente è lo strumento di attuazione del «governo integrale degli uomini e delle cose». È già successo che il potere creasse ad arte uno stato di emergenza per rinnovare quello che Carl Schmitt chiamava «il nesso eterno tra protezione e ubbidienza» (successe ad esempio in Italia negli anni Settanta, con la cosiddetta strategia della tensione); e del resto ogni nuova crisi offre a un potere senza più legittimazione la possibilità di rinnovare il patto di protezione. Ma il passare degli anni rende persuasiva l’idea che le singole crisi cui assistiamo siano piuttosto i casi specifici, e non strategici, di una generale crisi politica e ontologica: cosa è vero, in cosa abbiamo fiducia, verso chi siamo in debito, in cosa speriamo. La crisi di un sistema sfinito per il quale ogni evento diventa minaccia (vera o presunta) alla sopravvivenza.
Krisis, nel lessico dei vangeli, è soprattutto il giudizio (ἐν ἡμέρᾳ κρίσεως, «nel giorno del giudizio», Matteo, 10, 15; μὴ κρίνετε κατ’ ὄψιν, ἀλλὰ τὴν δικαίαν κρίσιν κρίνετε, «non giudicate secondo l’apparenza esteriore, ma secondo probità di giudizio», Giovanni, 7, 24). In questo stesso senso si parla abitualmente anche oggi di una crisi di governo, di coppia o della crisi di rigetto in un organismo: un evento che mettendo alla prova, giudicando della coesione o della forza vitale, decide se ci sarà un seguito oppure no, se si tornerà alla salute o si dovrà finire. Ma le «crisi» della Weltdemokratie non hanno nulla di decisivo: lasciano il mondo in equilibrio tra la salute e la rovina. Il segno della rovina sono l’indebolirsi dello stato di diritto, la sorveglianza ubiqua delle telecamere, il rilevamento e l’elaborazione delle attività online, la violenza endemica negli Stati Uniti, i governi dai tratti fascisti; a fronte di un’élite che appare divina, tanto è ricca, un quinto della popolazione vive nella miseria (secondo gli ispettori delle Nazioni Unite la povertà in Inghilterra è insostenibile). Il segno di salute della Weltdemokratie è ambiguo perché significa al tempo stesso la sua marcia verso la rovina: non smette di investire, non sente la necessità di riformarsi. Come Dioniso e come Gesù, il capitalismo muore e risorge; nell’intervallo occorre attendere, applicando piani di intervento finanziario come nei Vangeli si profuma e si benda il cadavere. Se la colpa cristiana nasceva dal divieto e dall’infrazione del divieto, quella capitalista – ineluttabilità e destino metafisico del debito nazionale che diventa essere-manchevole di ciascuno – nasce dall’invito a godere rivolto alla massa edonista: ma nessuno dei governi occidentali, a loro modo teocratici, si sognerebbe di revocare tale invito e mettere in dubbio il dogma del credito/debito con una proposta di moderazione. Il governo planetario non ha un’opposizione politica. Il paradiso dei consumi è un paradiso senza uscita.
È anche questo a rendere preziosa la voce isolata di Agamben: nella sua ricerca – come Benjamin, come Schmitt – ha individuato la radice comune di capitalismo e socialdemocrazia (o quanto ne resta), e ha articolato un’opposizione radicale. I suoi interventi sono spesso sdegnati, indispettiti quanto più i media lo ignorano o fraintendono: perché se al pari dei suoi maestri riconduce il dispiegarsi della nostra politica e della nostra comprensione del mondo a poche, essenziali decisioni di ordine ontologico, a differenza loro sembra ignorare che la filosofia è come Cassandra. Vede ciò che è, predice ciò che sarà, ma è condannata a non essere creduta. «Ormai solo un dio ci può salvare,» dichiarava Heidegger, e al giornalista che sollecitava per la politica un «aiuto anche solo indiretto» da parte della filosofia ripeteva «io vi non posso aiutare»; Foucault militò brevemente a livello locale con il Group d’information sur les prisons, ma gli piaceva ridere allo spettacolo del potere; Benjamin non si aspettò che le sue tesi potessero cambiare alcunché («la dimostrazione di questa struttura religiosa del capitalismo […] porterebbe oggi sulla cattiva strada di una smisurata polemica. Non possiamo tirare la rete in cui ci troviamo. In seguito però si avrà di questo una visione d’insieme»). Agamben invece sembra non avere trovato nella filosofia la difficile distanza del saggio: si sente danneggiato, vede l’indifferenza come un’ostilità personale contro di lui. Ci avverte che la salvezza – la custodia di ciò che rende bella la vita umana – non verrà dallo stato né dai media né dalle aziende: ma è deluso e offeso come se non riuscisse a trovare una redenzione possibile per sé.
“La punizione come compensazione si e’ sviluppata del tutto indipendentemente. (…)”
A partire da questa frase, ho smesso di capire qualunque cosa. 🤯 E ho interrotto la lettura.
Senza offesa, penso che per capire Nietzsche bisogna leggere Nietzsche.